Il Re Enrico V/Atto quarto
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ATTO QUARTO
Entra il Coro.
Ora fermiamo le nostre indagini e i nostri pensieri su quegli istanti della notte, in cui non si ode più che un debole e sordo mormorio, in cui le cieche tenebre riempiono l’immenso vacuo del nostro emisfero. Nell’uno e nell’altro campo, fra la più nera oscurità, il romor confuso di due eserciti si calma e sminuisce a poco a poco. In sì gran silenzio, le ascolte solitarie s’odono solo. I fuochi dei due nemici si rispondono, e al loro pallido chiarore ogni esercito vede l’altro dileguarsi fra l’ombra. Il cavallo minaccia il cavallo, e ferisce l’orecchio stanco della notte coi suoi lunghi nitriti: dalle tende si innalza uno strepito di martelli, che sotto colpi concitati terminano le armature dei cavalieri, segnale tremendo di battaglia. I galli dalle vicine capanne cantano, le campane suonano e annunziano la terza ora del mattino taciturno. Superbi pel loro numero, e pieni di baldanza, i Francesi protervi giuocano a’ dadi la sorte e la vita degl’Inglesi che disprezzano: nella loro impazienza imprecano alla notte che, come strega deforme e zoppa, cammina a passi lenti. Gli sfortunati inglesi, condannati a perire come vittime, siedono silenziosi e meati accanto ai loro fuochi, e rivolgono fra di loro le vicende del dimani. Al loro triste portamento, ai loro volti pallidi ed emunti, agli squarciati loro abiti, logori dalla guerra, sembrano, rischiarati come si veggono dalla luna, altrettanti spaventosi fantasimi. — Oh! chi seguirà coll’occhio il regio conduttore di quelle povere schiere, che va spargendo consolazioni da una tenda all’altra? Ah si gridi vedendolo: lode e gloria al suo augusto capo! Ei non si riposa; corre dall’uno all’altro, e indirizza a tutti il saluto del mattino con un modesto sorriso, chiamando quanti incontra: fratelli, amici, compatrioti. Sul suo nobile viso non si scorge alcuna traccia, alcun sentimento dell’angoscia che gli dovrebbe infondere l’esercito da cui è attorniato: alcuna impressione di pallore non dichiara le sue veglie e le fatiche di una notte insonne. Il suo volto è fresco e colorito; una dolce maestà, una serenità gaia splende ne’ suoi occhi, e il soldato gramo prima e abbattuto, dacchè lo vede, sente rinascere in cuore speranza e forza. Simile al sole, il suo occhio generoso e benefico spande su di tutti una dolce influenza, che riscalda e discioglie i ghiacci del timore. — Voi, onorevole e indulgente assemblea di tutti gli stati, di tutti i gradi, contemplate, sotto il velo della notte, il ritratto di Enrico, quale i miei poveri pennelli ve lo han saputo dipingere. Ora la nostra scena passa sul campo di battaglia. Ma, oh pietà! Come disonoreremo il nome famoso d’Agincourt collo spettacolo di una mischia presentato da pochi uomini con vani fioretti! — Nondimeno, sedete e guardate; e sui pallidi lampi di questa imitazione, ergete la grande verità. (esce)
SCENA I.
L’accampamento inglese ad Agincourt.
Entrano il re Enrico, Bedford e Glocester.
Enr. Glocester, forza è confessarlo, versiamo in gran pericolo: il nostro coraggio deve perciò ad esso uguagliarsi. — Buon giorno, fratello Bedford, — Onnipossente Iddio: qualche bene si ritrova sempre anche nel male, se gli uomini si dessero il fastidio di cercarvelo. L’arduo nemico che ne sta presso ci rende solleciti e diligenti; ciò è giovevole per la salute e per l’interesse di una saggia e buona economia. Il nemico è dunque per noi una specie di coscienza esteriore, che ci consiglia e ci impone il nostro dovere: esso ci avverte di ben apparecchiarci al fine che ci proponiamo. È così che l’uomo può cogliere qualche stilla di miele anche dalla spina più selvatica, e far servire l’inferno stesso a proficua virtù, (entra Erpingham) Buon giorno, vecchio sir Tommaso: un molle origliere, su cui riposare quel canuto capo, ti converrìa meglio che questo arido suolo di Francia.
Erp. No, mio sovrano: questa tenda mi piace di più, dappoichè posso dire: il mio letto è il letto d’un re.
Enr. È bene che gli uomini imparino dall’esempio altrui a tollerare le proprie pene: tal cosa solleva l’anima, e quando il cuore è sereno, le membra, quantunque fiacche e assopite, risvegliano dalla loro letargia vivide e alacri, come il serpente ringiovanito, e flessibili tornano ai loro uffici. — Prestami il tuo mantello, sir Tommaso. — Fratelli, raccomandatemi ai principi che sono nel campo; date loro per parte mia il buon giorno; e fate che vengano tosto sotto il mio padiglione.
Gloc. Così faremo, mio sovrano. (esce con Bed.)
Erp. Debb’io seguire Vostra Grazia? Enr. No, mio buon cavaliere; andate coi miei fratelli dai lórdi d’Inghilterra; ho una controversia colla mia anima, e vorrei restar solo.
Erp. Il Dio del Cielo ti benedica, nobile Enrico! (esce)
Enr. Ti ringrazio, vecchio cuore! tu parli generosamente.
(entra Pistol)
Pist. Qui va là?
Enr. Amici.
Pist. Parla meco; sei uffiziale o gregario?
Enr. Uffiziale di una compagnia.
Pist. Porti la picca?
Enr. Sì; chi siete?
Pist. Un gentiluomo prode quanto lo è l’imperatore.
Enr. Siete dunque da più del re.
Pist. Il re è un buon diavolo, un cuor d’oro: è un bon vivant, un figlio della gloria; di buon parentado, di braccio assai valente. Bacio la sua scarpa inzaccherata, e dal profondo del cuore lo amo. Qual è il tuo nome?
Enr. Enrico le Roy.
Pist. Le Roy! È un nome di Cornovaglia: sei di quel paese?
Enr. No; son Gallese.
Pist. Conosci Huellen?
Enr. Sì.
Pist. Digli ch’io gli fenderò il capo nel dì di san Davy.
Enr. Badate di non portare il vostro pugnale troppo alto in quel dì, per tema che non vi leda.
Pist. Sei tu suo amico?
Enr. E suo parente ancora.
Pist. Fichi a te dunque!
Enr. Vi ringrazio; Dio sia con voi!
Pist. Il mio nome è Pistol1.
Enr. Esso si addice alla vostra fierezza. (Pist. esce; entrano Huellen e Gower da varie parti)
Gow. Capitano Huellen!
Huell. In nome di Dio! non se ne parli altro: non v’è nulla nel mondo di più maraviglioso del vedere come non si osservino le antiche discipline e le leggi di guerra. Se voleste soltanto darvi la briga di esaminare le spedizioni di Pompeo il Grande, vedreste, ve ne assicuro, che non v’erano ciancie nè fanciullaggini nel suo campo; vi assicuro che vedreste le cerimonie di guerra, le cure di guerra, e le forme di guerra, tutte diversamente praticate.
Gow. Il nemico fe’ pur rumore; lo abbiamo udito tutta notte.
Huell. Se il nemico è un ciuco, uno stolto, un vanaglorioso, dobbiam noi imitarlo? In coscienza, che ne pensate?
Gow. Parlerò più sommesso.
Huell. Di questo vi prego e supplico. (esce con Gow.)
Enr. Sebbene sia un po’ fuori di moda, forza è però convenire che v’è molta disciplina e valore in quel Gallese.
(entrano Bates, Court e Williams, gregarii)
Court. Fratello Bates, non è il mattino che incomincia a spuntare laggiù?
Bat. Credo di sì: ma noi non abbiamo gran motivo per desiderare la venuta del giorno.
Wil. Vediamo il principio del dì, ma credo che non ne vedremo il termine. — Chi va là?
Enr. Un amico.
Wil. Sotto qual capitano servite?
Enr. Sotto sir Tommaso Erpingham.
Wil. Un buon comandante, e un molto gentile uomo. Pregovi, che pensa egli della nostra condizione?
Enr. Ne riguarda come uomini naufragati sopra una sponda, che aspettano il riflusso per essere inghiottiti dal mare.
Bat. Non ha esposto il suo pensiero al re?
Enr. No, nè sarebbe bene che lo facesse: perocchè, io ve lo dico, reputo il re come un uomo simile a me, e null’altro. La viola ha eguale odore per lui come per me; l’aria agisce sopra di lui come sopra di me; i suoi sensi son feriti dagli oggetti come quelli degli altri uomini: mettete a parte quella pompa che lo adorna, e una volta a nudo non vedrete più in lui che un uomo. Sebbene le sue affezioni siano più elevate delle nostre, esse dileguano colla rapidità con cui eransi svegliate: per conseguenza allorchè vede che v’è motivo di temere, come noi lo vediamo, non è dubbio che il timore non debba produrre in lui come in noi la medesima sensazione: è per ciò che non converrebbe che alcuno gl’ispirasse il più piccolo sgomento, per tema che ove avesse a dimostrarlo, l’esercito non ne restasse scoraggiato.
Bat. Mostri quanto ardire vorrà, io scommetto che in onta di tutto il freddo che farà questa notte, ei sarebbe lieto di trovarsi immerso nel Tamigi fino al collo: per me vi do fede che vorrei vedervelo, ed esservi al suo fianco esposto ad ogni avventura, purchè non istessimo qui.
Enr. Pel Cielo vi dirò schiettamente secondo la mia coscienza quello ch’io penso del re. Io credo sull’onor mio ch’ei non desideri di essere lontano dal luogo in cui si trova.
Bat. In tal caso vorrei che vi fosse solo: ei sarebbe sicuro di vedersi riscattato, e ciò salverebbe la vita a molti de’ suoi poveri sudditi,
Enr. Credo che non gli vogliate tanto male per desiderare che ei fosse qui solo. Questo che voi dite, tende solo, ne son sicuro, a scrutar la mente di quelli che parlano con voi. Per me, parmi che non potrei desiderare di morire più onorevolmente in altro luogo che in compagnia di un sovrano, difenditore di una causa giusta e santa.
Bat. Ciò vuol dire che noi ne sappiamo più che non dovremmo; perocchè il necessario a conoscersi starebbe nella coscienza d’esser sudditi del re. Se la sua causa è ingiusta, l’obbedienza che gli dobbiamo cancella per noi il delitto, e ce ne assolve.
Wil. Ma se la sua causa è ingiusta, Enrico dovrà renderne un terribile conto, allorchè tutte le gambe, le braccia e le teste, che saran state tagliate in una battaglia, si riuniranno nel dì del giudizio, e gli grideranno: noi morimmo colà: gli uni giurando, altri implorando un cerusico, altri lasciando le loro povere mogli dietro ad essi, altri senza pagare i loro debiti, altri con figliuoletti nudi ed orfani. Ho gran tema ancora che ben pochi ve ne siano fra tutti coloro che rimangono uccisi in una battaglia, che muoiano colla coscienza netta. Perocchè, come possono essi mettere ordine alle cose loro, se non hanno davanti che il sangue e le stragi? Ora se quelle persone non muoiono in buono stato sarà una brutta cosa pel re che a ciò gli avrà condotti, e a cui disobbedire sarebbe delitto anche maggiore.
Enr. Così se un figlio che il padre manda a mercatare, divien malvagio per via, e manca all’oggetto della sua missione, il delitto suo, secondo il concetto vostro, ricadrà sul genitore? Oppure se un domestico, che per comando del suo signore reca una somma, è assalito dai ladri, e muore pieno di peccati, voi accuserete il signore d’esser l’autore della dannazione di quell’uomo e ne lo vorrete responsivo? No, v’ingannate; non è così. Il re non è obbligato a rispondere dei falli personali dei suoi soldati, più che noi sia il padre di quelli del suo figlio, o il padrone di quelli del suo domestico. Perocchè ei non disegna in modo alcuno la loro morte, allorchè li comanda. Di più, non vi è re, per quanto buona sia la sua causa, che possa sperare, allorchè s’ha a definire colle armi, di sostenerla con un esercito di uomini senza colpe e senza rimproveri. Se ne troverà forse fra di loro taluno, che sarà reo d’aver tramato qualche omicidio; altro di aver sedotta qualche innocente fanciulla con un odioso spergiuro; altro, a cui avrà servito la guerra per mettersi in salvo dalle persecuzioni della giustizia sdegnata sempre contro i fedifraghi. Ora se questa specie di persone hanno saputo deludere la vigilanza delle leggi, e sottrarsi al castigo che meritavano, quantunque sfuggano alle mani degli uomini, non hanno ali però per sottrarsi a quelle di Dio. La guerra è ministra di Dio, la guerra è la sua vendetta: talchè quegli uomini si veggono, per le loro antiche offese contro le leggi del re, puniti nella contesa del re stesso. Essi hanno salvate le loro vite nei luoghi in cui temevano di perderle, per venirle a perdere laddove speravano sicurezza. Allora, se muoiono senza esservi apparecchiati, il re non è più risponsivo della loro dannazione, che nol fosse prima dei delitti e delle iniquità, per le quali la collera celeste li ha colpiti. Il re deve ben dar conto de’ doveri che impone ad ognuno dei suoi soggetti; ma ad ogni soggetto soltanto ò affidata la cura della propria anima. Ogni soldato dovrebbe dunque fare come un infermo sul suo letto di morte; purgare la propria coscienza di tuttociò che la lorda; e allora, s’ei muore in tale stato, la morte divien per lui un utile; se sopravvive potrà gloriarsi del tempo speso per tale ammenda, e certamente non peccherà pensando che è all’offerta volontaria della sua vita fatta a Dio che deve di aver passato illeso il dì d’una battaglia.
Wil. È certo che i delitti d’ogni uomo non possono ricadere che sopra quegli che gli ha commessi, e che il re non ne è responsabile.
Bat. Non voglio ch’ei risponda per me, quantunque io sia ben determinato a combattere per lui coraggiosamente.
Enr. Ho udito io stesso il re a dire ch’ei non vorrebbe essere riscattato.
Wil. Avrà detto ciò per farci pugnare di miglior cuore: ma allorchè la nostra testa sarà caduta, si potrà bene riscattar o senza che noi ce ne risentiamo.
Enr. Se vivo abbastanza per vederlo, non crederò mai più alla sua parola.
Wil. Per la messa, ve ne avvedrete! Che può fare la collera di un povero e semplice soldato contro un monarca? Tanto sarebbe che voleste cambiare il sole in ghiaccio col rinfrescarlo scuotendo una penna di pavone. Non più crederete alla sua parola? Fu un pazzo detto.
Enr. Il vostro rimprovero è troppo acerbo: mi sdegnerei con voi se il tempo fosse propizio.
Wil. Facciamone un soggetto di contesa, se viviamo.
Enr. Accetto.
Wil. Come vi riconoscerò?
Enr. Concedetemi qualche pegno, e lo porterò nel mio berretto: se quindi oserete riconoscerlo, seguirà il combattimento.
Wil. Eccovi un guanto; datemene uno dei vostri.
Enr. Pigliate.
Wil. Questo io pure porterò nel berretto; se verrete da me dopo dimani, e mi direte: mio è quel guanto, per questa mano vi turerò le orecchie.
Enr. Se vivo abbastanza ne farò esperimento.
Wil. Tanto amereste di essere appeso.
Enr. Bene, vi troverò, foste anche in compagnia del re.
Wil. Attenete la vostra parola: addio.
Bat. Siate amici, folli inglesi, siate amici; ne abbiamo abbastanza della Francia, in fatto di contese.
Enr. Senza dubbio i Francesi possono scommettere venti corone contr’una che ci batteranno: ma non è un tradir l’Inghilterra il disputare amichevolmente come noi lo abbiam fatto. — (escono i soldati) Sul conto del re! La vita, le anime, i debiti, le spose, i figli, i peccati, tutto sul conto del re! Sarem noi dunque caricati di tutto! — Oh dura condizione, compagna inseparabile della grandezza! Il sovrano andrà soggetto alle ciancie d’uomini stolti e volgari, la di cui anima non sente che i proprii dolori! Di quante dolcezze son privi i re, le quali godono pure i loro sudditi! Ma che hanno i re, che i privati uomini non abbiano, ad eccezione di questo vano apparecchio di splendore? E che sei tu, idolo vano, dolorosa Maestà? Quale specie di divinità sei tu, tutto il cui privilegio sta nel soffrire mille mortali angoscie, dalle quali vanno esenti i tuoi adoratori? Qual è il tuo reddito annuo? Quali le tue prerogative? Oh, vana grandezza! mostrati col tuo valore reale! Che hai tu di solido, omaggio inutile reso alla potenza dei re? Sei tu nulla più che un’apparenza, un’illusione, una forma esteriore, che imprime rispetto e temenza agli altri uomini? Ma il monarca è più infelice nell’esser paventato, che i suoi sudditi noi siano in temerlo. A lui tocca più spesso il veleno dell’adulazione che le dolcezze di un onesto conversare. Oh superba Maestà! il male ti prenda, e comanda allora alle tue pompe di guarirti. Credi tu che la febbre ardente sarà espulsa dalle tue vene all’enumerazione di titoli vani? Credi che mangierassi alle umili genuflessioni d’un supplicante? Puoi tu, quando comandi a un misero di prostrartisi dinanzi, imporre anche alla sua salute di obbedirti? No, sogno orgoglioso, che togli sì spesso ai sovrani la loro quiete: io pure son re, io, che ti strappo la maschera e ti annullo: io so che l’unguento che consacra il re, so che lo scettro, l’imperiai globo, la spada, il bastone del comando, la regia corona, la porpora intessuta d’oro e di perle, i titoli rimbombanti, il trono e tutto il fasto che va congiunto al nome d’un monarca, so che tutto ciò noi fa dormire di sonno lieto, qual è quello dell’ultimo de’ suoi coloni, che, collo spirito sgombro e il corpo sazio del pane dell’indigenza, va a cercare il riposo, e non si risveglia per vedere l’orribile spettro della notte, figlia d’inferno, ma col giorno sorge e fino al tramontar di esso si bagna di sudore, continuando vita uniforme di pace e di fatica. Chi è più felice adunque fra un re ed un pezzente? A chi dei due fu più largo il Cielo di serenità e di gioie?
(entra Erpingham)
Erg. Principe, i nobili, gelosi di vostra assenza, percorrono il campo per trovarvi.
Enr. Buon vecchio cavaliere, correte tosto a radunarli nella mia tenda: ivi sarò giunto prima di voi.
Erp. Così farò, mio signore. (esce)
Enr. Oh Dio delle battaglie, dà la tempera dell’acciaio al cuore de’ miei soldati! Togli ad essi il sentimento della paura! Togli loro la facoltà di contare, se il numero de’ nemici dovesse agghiacciare il loro sangue! Non oggi, o mio Dio! non risovvenirti oggi del fallo che mio padre commise per posseder la corona! Nuovi onori ho renduto alle ceneri di Riccardo, e versato ho su di lui più lagrime di pentimento, che il mortal colpo non facesse escire dal suo seno stille di sangue: spargo ogni dì una elemosina a cinquecento poveri che innalzano le scarne loro mani al Cielo, per pregarlo di perdonare il commesso fallo: erette ho due chiese in cui austeri sacerdoti intuonano canti solenni pel riposo dell’anima di quel re, e di più anche farò, sebbene, oimè! tutto quello che far posso non sia d’alcun valore, e il pentimento sorga ancora dopo l’espiazione! (entra Glocester)
Gloc. Mio sovrano!
Enr. È la voce del mio fratello Glocester quella che intendo? Sì; — conosco il tuo messaggio, e verrò con te. — Il giorno, miei amici, ed ogni cosa mi è propizia. (escono)
SCENA II.
Il campo francese.
Entrano il Delfino, Orléans, Rambures ed altri.
Orl. Il sole indora le nostre armature; andiamo, miei signori.
Del. Montez à cheval: — il mio cavallo! Valet! Lacchè! Ah!
Orl. Oh generoso spirito!
Del, Via! — Les eaux, et la terre...
Orl. Rien puis? L’air, et le feu...
Del. Ciel! Cugino Orléans... (entra il contestabile) Ebbene, alto Contestabile!
Con. Udite come i nostri corsieri nitriscono e chiamano i loro signori.
Del. Saliteli, e ferite i loro fianchi, onde il loro sangue spruzzi sugli occhi degl’Inglesi e li spaventi con tanto coraggio. Ah!
Ram. Che! vorrete farli piangere col sangue dei nostri palafreni? Come vedremo allora le loro vere lagrime? (entra un mess.).
Mess. Gl’Inglesi sono ordinati in battaglia; venite, Pari di Francia.
Con. A cavallo, generosi principi 1 Tosto a cavallo! Gettate soltanto uno sguardo su quelle schiere dimezzate e fameliche, e la presenza del vostro bell’esercito fugherà il resto del loro coraggio, e li muterà in simulacri di soldati. Non giova che ci valiamo di tutti i nostri prodi. Appena rimane al nemico tanto sangue da tingere con divisa d’onore le spade dei nostri Francesi; breve sarà la lotta. Credetelo, miei signori; le inutili ciurme, che si accalcano in tumulto intorno al nostro esercito, basterebbero per disperdere nemico sì debole; e noi potremmo rimanercene al piede della montagna, spettatori oziosi e tranquilli della loro disfatta. Ma l’onore ce lo divieta. Che dirò io di più? Per poco che facciamo, tutto sarà finito. Squillino adunque le trombe, invitino alla battaglia; la nostra carica spargerà tanto terrore fra gl’Inglesi che tosto si arrenderanno (entra Grandpré)
Grand. Perchè indugiate sì a lungo, nobili di Francia? Quelle mummie isolane, scarne e moribonde, figurano assai male ai chiarori del dì. Le loro insegne squarciate sventolano in cenci, e il nostro alito le scuote e le fa ondeggiare. Il feroce Marte perde qui i suoi diritti sul loro esercito estenuato, e non getta su questa pianura che uno sguardo indifferente, traverso alla visiera del rugginoso suo elmo. I loro cavalieri sfiancati sembrano altrettanti candelabri immobili che portino torcie; e i loro grami cavalli, a cui penzola il ventre, lasciano cadere le teste affralite; spalancano a metà occhi pallidi e spenti; sordi sembrano al moto delle redini e alle roche grida dei corvi loro eredi che svolazzano al disopra dei loro capi, chiedendo la preda. Le parole mancano per descrivere con evidenza il morto quadro che presenta quel misero esercito.
Con. Essi hanno recitate le loro ultime preci, e non aspettano più che la morte.
Del. Volete che mandiam loro un po’ di cibo, abiti e foraggi, e che poscia li combattiamo?
Con. Sarebbe troppa pietà; andiamo al campo: userò per mia asta la bandiera di un trombetto. Venite, venite: il sole è già alto e sperdiamo inutilmente il dì. (escono)
SCENA III.
Il campo inglese.
Entra l’esercito inglese; Glocester, Bedford, Exeter, Salisbury e Westmoreland.
Gloc. Dov’è il re?
Bed. È salito a cavallo per andare a riconoscere l’esercito francese.
West. Sessantamila combattenti ci stan contro.
Ex. Cinque contr’uno; e oltreciò alacri e freschi.
Sal. Il braccio di Dio combatta con noi! Ardua è la partita! Dio sia con noi, principi! Io vado al mio posto: se rivederci pù non dobbiamo fuorchè in Cielo, saliamovi gai, e... mio nobile lord di Bedford... mio caro Glocester... mio buon Exeter... parente mio affettuoso. Ai guerrieri tutti, addio!
Bed. Addio, prode Salisbury; la fortuna ti accompagni!
Ex. Addio, gentil signore; combatti valorosamente: ma ti fo oltraggio a consigliartelo, perocchè tu sei formato coi più puri elementi del coraggio. (esce Sal.)
Bed. Pieno egli è di ardire, come di gentilezza; regio è il tuo cuore.
West. Oh, avessimo qui soltanto diecimila di coloro che si riposano oggi in Inghilterra dalle fatiche della settimana!
(entra Enrico)
Enr. Chi è che fa tal voto? Voi, cugino Westmoreland? No, mio cugino: se dobbiamo morire, bastante è il nostro numero, e la nostra patria perde abbastanza perdendoci: se vivere, quanto minore sarà il nostro numero, tanto maggiore fia la gloria che ritrarremo. Per la volontà di Dio! io ti prego di non desiderare un solo uomo di più. Giove, Giove, io non vuo’ l’oro, nè mi cale di chi vive e fiorisce con mio danno; poco mi cruccio se altri usano le mie vestimenta: tutti questi beni esterni non commuovono i miei desiderii, ma se un delitto è il desiderare l’onore, io sono il più colpevole degli uomini. No, mio cugino, non bramate che un solo Inglese ci si aggiunga. Per la pace di Dio! io non vorrei, nella speranza di cui pieno è il mio cuore, perdere di questa gloria ciò che sarebbe necessario soltanto di dividere con un uomo di più. Oh, alcuno più non venga! Andate piuttosto, Westmoreland, a bandire in mezzo al mio campo che quegli che non è parato all’imminente battaglia, si diparta: il suo congedo sarà sottoscritto e avrà la borsa empita di scudi per ritornarsene a casa. Io non vorrei morire in compagnia d’un soldato che temesse di morire, allorchè mi avrà compagno al sepolcro. Questo è il giorno di un gran santo. Colui che sopravvivrà e rivedrà il suo paese, tripudierà rammentando questo giorno, e se Iddio gli concede molti anni, allo scorrere di ognuno, ne celebrerà la ricorrenza e mostrerà con orgoglio le sue cicatrici. I vecchiardi dimenticano; ma quand’anche obbliassero ogni altra cosa, sempre si sovverrebbero con giubilo dei fatti che in questo giorno avranno operati, e i nostri nomi diverranno familiari nelle loro bocche, come quelli dei loro più cari. Enrico, Bedford, Exeter, Warwick, Talbot, Salisbury e Glocester, saran sempre ricordati ed onorati dai posteri; il padre canuto racconterà questa storia al figliuol suo, e fino alla distruzione dei secoli, questo dì solenne non trascorrerà mai senza che vi sia fatta menzione di noi; di noi, piccolo numero di fortunati, schiera di fratelli immortali, avvinti da un legame di gloria e di sangue. Chiunque perderà oggi la vita mi sarà fratello; e fosse egli nato nella condizione più vile, questo giorno lo nobiliterà; i gentiluomini d’Inghilterra che ora riposano nei loro letti, si crederanno svergognati per non essere stati qui, e arrossiranno ogni volta che adiranno la voce di qualcuno dei guerrieri che combatterono in questo gran giorno. (entra Salisbury)
Sal. Mio sovrano, affrettate i vostri apparecchi: i Francesi sono schierati, e in breve ne investiranno.
Enr. Tutto è preparato se i nostri cuori lo sono.
West. Muoia l’uomo la di cui mente è ora invilita!
Enr. Tu non desideri più aiuto dagl’Inglesi, cugino?
West. Per lo spirito di Dio, mio sovrano, vorrei che voi solo ed io potessimo andare a questa battaglia!
Enr. Tu ritratti il tuo voto, e ciò assai mi piace. Ognuno di voi conosce il suo posto: Dio sia dunque con noi!
(squillo di trombe. — Entra Montjoy)
Mont. Una seconda volta vengo a te, Enrico, per sapere se vuoi pattuire ora il tuo riscatto, prima che alla tua irreparabile ruina sii giunto: l’abisso ti è presso, lo sai, e rimarrai in esso inghiottito. Commosso di pietà, il Contestabile ti prega di avvertire quelli che ti seguono di pentirsi dei falli loro, onde le loro anime, monde d’ogni pecca terrena, possano escir dai loro corpi che cadranno, per corrompervisi, in queste pianure.
Enr. Chi ti ha mandato questa volta?
Mont. Il Contestabile.
Enr. Ti prego, recagli la mia prima risposta: digli che compia la mia ruina e poscia venda le mie ossa. Gran Dio! perchè insultano essi così ad uomini sfortunati? Quegli che un di vendè la pelle del leone, mentre l’animale ancora viveva, rimase ucciso nel volerlo abbattere. Molti di noi, non ne dubito, avranno soltanto tomba in seno alla patria, e spero che il marmo al disopra d’essi attesterà ai secoli venturi l’opera di questo giorno. Coloro che lasceranno le ossa in Francia, morendo da coraggiosi, sebben sepolti nella vostra melma, avranno gloria; il sole verrà a salutarli co’ suoi raggi, e i cadaveri loro per vendetta esalando vapori pestilenziali infetteranno il vostro clima e distruggeranno la Francia. Pensa al valore dei nostri prodi e ai gesti di uomini disperati. — Va, di’ al Contestabile che siamo guerrieri mal vestiti come in dì di lavoro; che il nostro splendore e le nostre armature rimasero offuscate da un faticoso cammino per le vostre terre polverose; digli che non rimane nel nostro esercito, ed è, penso, buona prova che non fuggiremo, una sola penna all’elmo d’un valoroso; digli che il tempo e le opere han logorati i nostri bellici addobbi. Ma, pel Cielo! se siamo poveri, i nostri cuori son doviziosi; e i miei soldati mi promettono che prima di notte saranno forniti di nuove vestimenta, o ridotti avranno i Francesi a non sentir più il benefizio delle loro spoglie. Se attengono la parola, come l’atterranno, la mia liberazione allora sarà facile. Araldo, risparmia le tue opere, non parlarmi più di riscatto: altro da me non se ne otterrà, lo giuro, fuorchè queste membra: e se le avranno nello stato in cui fo assegnamento di lasciarle, ne ritrarranno poco profitto: va a dir ciò al Contestabile.
Mont. Così farò, re Enrico; da te mi accomiato, nè più udrai la voce dell’araldo. (esce)
Enr. Temo che non ritorni per favellarmi di grazia.
(entra il duca di York)
York. Mio sovrano, vi chieggo inginocchiato la condotta della vanguardia.
Enr. Abbiatela, prode York. — Ora, soldati, innanzi; e come piace a Dio, vada la giornata! (escono)
SCENA IV.
Campo di battaglia.
Allarme ed escursioni. Entra un soldato francese,
Pistol ed il Garzone.
Pist. Arrenditi, cane.
Sol. Je pense que vous estes le gentilhomme de bonne qualitè...
Pist. Di buona qualità mi chiami? Costruisci me come te gentiluomo? Qual è il tuo nome!
Sol. Seigneur Dieu!
Pist. Il signor Dio sarà un gentiluomo! Bada alle mie parole, signor Dio. Tu muori come una volpe, signor Dio, a meno che non mi dia un generoso riscatto.
Sol. O prenez miséricorde! Ayez pitié de moi!
Pist. Il moà2 non servirà; vi vogliono almeno quaranta moà, o ti strapperò le viscere tutte sanguinose.
Sol. Est-il impossible d’échapper à la force de ton bras?
Pist. Brass3 rame! M’offri ora rame, impudente caprone?
Sol. O pardonnes moi!
Pist. È ciò che vuoi dirmi? È questo un tuono da guerriero? Ascoltami, garzone; chiedi un po’ per me a questo vil francese come si chiama.
Gar. Come vi chiamate?
Sol. Monsieur le Fer.
Gar. Dice che si chiama messer Fer.
Pist. Messer Fer! Io lo ferrerò a dovere: digli ciò in francese.
Gar. Non so come si dica in francese ferrare.
Pist. Digli dunque che si apparecchi, perchè gli voglio tagliar la gola.
Sol. Que dit-il monsieur?
Gar. Il me commande de vous dire que vous faites vous prest; car ce soldat ici est dispose tout à cette heure de couper vostre gorge.
Pist. Sì, a tagliargli la gola, in fede, e tosto; a meno che non mi dia buoni e belli scudi.
Sol. O je vous supplie pour l’amour de Dieu de me pardonner. Je suis gentilhomme de bonne maison: garden ma vie, et je vous dannerai deux cents escus.
Pist. Che cosa dice?
Gar. Ei vi prega di salvargli la vita: dice che è un gentiluomo di buona casa; e pel suo riscatto vi offre duecento corone.
Pist. Digli che il mio furore si calmerà, e che prenderò le corone.
Sol. Petit monsieur, que dit-il?
Garz. Encore qu’il est contre son jurement de pardonner aucun prisonnier: néanmoins pour les escus que vous lui avee promis il est content de vous donner la liberté, le franchisement.
Sol. Sur mes genoux je vous donne mille remercimens; et je m’estime heureux que je suis tombé entre les mains d’un chevalier, je pense, le plus brave, vaillant et très-distingué seigneur d’Angleterre.
Pist. Spiegami quello che ha detto, garzone.
Gar. Ei vi ringrazia inginocchiato le mille volte; e si stima felice d’essere caduto nelle mani (siccome ei stesso crede) del più valente e generoso signore d’Inghilterra.
Pist. Come è vero che respiro voglio essere clemente. — Seguimi, cane. (esce)
Gar. Suives vous le grand capitaine. (esce il Sold. francese) Non mai udii voce più sonora escire da cuore più vuoto: ma il detto è vero: i vasi inani fanno il maggior romore. Bardolfo e Nym aveano cento volte più coraggio di questo ruggente diavolo che, come quello delle nostre antiche pantomime, si forbisce le unghie con un pugnale di legno. Ognuno può farne altrettanto. Nondimeno coloro son già da un pezzo appiccati, e questo, che gli dovrebbe tener compagnia, strepita ancora. Andrò nel campo per attendere alle bagaglio che di poco arricchiranno i Francesi, quand’anche ce le rapissero. (esce)
SCENA V.
Un’altra parte del campo. — Allarme.
Entrano il Delfino, Orléans, Borbone, il Contestabile, Rambures ed altri.
Cont. O diable?
Orl. O seigneur! — Le jour est perdu, tout est per perau!
Del. Mort de ma vie! Tutto andò sossopra, la vergogna posa sui nostri pennacchi, e li cuopre d’eterno obbrobrio. — O mèchante fortune! (un breve allarme) non abbandonarci.
Con. Tutte le nostre file sono sgominate.
Del. Vituperio, vituperio! — Uccidiamoci da noi stessi. Son quelli i miserabili soldati, di cui ci eravamo giuocata la sorte ai dadi?
Orl. È quello il re a cui avevamo offerto un riscatto?
Bor. Obbrobrio, eterno obbrobrio! Moriamo tosto. — Voliamo di nuovo alla carica, e quegli che non vuol seguire ora Borbone, si separi da noi, e vada col berretto in mano ad attendere alla soglia della stanza in cui la sua più bella figlia è stuprata.
Con. Il terrore che ne invase svegli la nostra disperazione! Andiamo a porgere le nostre vite agl’Inglesi e moriamo con gloria.
Orl. Bastanti ancora saremmo per abbattere gl’inimici, se potesse ristabilirsi un po’ d’ordine.
Bor. Il diavolo si prende l’ordine ora! Vuo’ mischiarmi fra la folla, per abbreviare una esistenza di cui l’onta sarà perpetua.
(escono)
SCENA VI.
Un’altra parte del campo. — Allarme.
Entrano il re Enrico, e il suo esercito; Exeter ed altri.
Enr. A meraviglia ci comportammo, generosi compatrioti, ma tutto ancora non è fatto; i Francesi continuano ad occupar la pianura.
Ex. Il duca di York si raccomanda a Vostra Maestà.
Enr. Vive egli, caro zio? Tre volte nello spazio di un’ora lo vidi atterrato, ma tre volte lo vidi pur rialzarsi per combattere. Dall’elmo allo sperone era tutto sangue.
Ex. È in tale stato che quel prode cadde; e ai suoi fianchi giace ancora il nobile Suffolk, che divise le sue onorate ferite! Suffolk morì primo: e York mutilato si trascinò carpone accanto al suo amico, e sollevandone la testa la baciò e disse: «fermati, diletto Suffolk, la mia anima vuole accompagnare la tua nel suo volo verso i cieli. Ombra adorata, aspettami; uniti andremo, come in questa pianura gloriosa e in questo bel combattimento uniti restammo da veri fratelli, da buoni cavalieri». Nel momento in cui diceva queste parole me gli avvicinai e lo racconsolai. Ei mi sorrise, mi stese la mano, e stringendo debolmente la mia mi disse: dolce signore, raccomanda i miei servigli al mio sovrano. Poscia si rivolse, attorniò colle braccia ferite il collo di Suffolk, ne baciò le labbra; e accoppiatesi così alla morte, suggellò col suo sangue il testamento della sua tenera amistà, che ebbe tanto glorioso fine. Scena sì tenera e nobile mi strappò pianti che avrei voluto frenare; al vederla tutta la debolezza femminile ingomberò la mia anima.
Enr. Non biasimo le vostre lagrime, perocchè al vostro solo racconto una folta nebbia mi offuscò lo sguardo, e uno sforzo mi è necessario per contenere le mie che pur vorrebbero sgorgare. — (allarme) Ma udite! Qual nuovo allarme è codesto? I Francesi hanno riordinate le loro schiere e tornano alla carica: ogni soldato uccida i suoi prigionieri; datene l’ordine all’esercito.
(escono)
SCENA VII.
Un’altra parte dei campo. — Allarme.
Entrano Huellen e Gower.
Huell. Si sono uccisi fino i fanciulli? È contro la legge espressa delle armi: è il fatto di viltà più grande che mostrar si potesse al mondo: che ne dite?
Gow. Certo è che alcuno non ne rimase in vita; e i vili che rifuggono dal combattere fecero tale strage: di più bruciarono o rapinarono tutto quello che vi era nella tenda del nostro re: talchè questi ha con molta ragione comandato a ognuno de’ suoi di sgozzare i prigionieri. Valente assai è Enrico.
Huell. Egli è nato a Monmonth, capitano Gower. Come chiamate la città dove nacque Alessandro il Grosso?
Gow. Alessandro il Grande?
Huell. Grande o grosso è lo stesso. Piccolo, alto, tondo o quadro significano la medesima cosa: varia solo la frase.
Gow. Credo che Alessandro il Grande nascesse in Macedonia; suo padre era chiamato Filippo il Macedone, se non fallo.
Huell. Credo anch’io che Alessandro nascesse a Macedonia. Ora io vi dico, capitano, che se guardate nella mappa del mondo troverete molta analogia fra Macedonia e Monmonth. Vi è un fiume a Macedonia, ed uno ve n’è a Monmouth: l’uno si chiama Wye, l’altro non me ne ricordo; ma è tutt’uno: si rassomigliano come due delle mie dita, e si pescano anguille in entrambi. Se osservate bene la vita di Alessandro, vedrete che quella d’Enrico e in tutto simile. Alessandro (Dio lo sa e voi lo sapete) ebbe anch’egli, come Enrico, le sue rabbie, le sue furie, le sue collere, i suoi sdegni, le sue ubbriacature, in mezzo a cui uccideva il migliore de’ suoi amici, Clito.
Gow. Il nostro re non ritrae in ciò di lui; ei non ha ucciso alcuno de’ suoi amici.
Huell. Non è ben fatto, vedete, lo strapparmi la novella di bocca, prima che il mio racconto sia finito, lo non parlo che per figure e comparazioni. Come Alessandro uccise il suo amico Clito sendo ebbro, così Enrico nel suo buon senno scacciò da so il pingue cavaliere ricco di beffe, d’astuzie e di mariuolerie; d’esso non rammento più il nome.
Gow. Sir Giovanni Falstaff.
Huell. Appunto: or vi dico che vi sono uomini prodi nati a Monmouth,
Gow. Viene Sua Maestà. (allarme; entra il re Enrico con parte dell’esercito inglese; Warwick, Glocester, Exeter ed altri)
Enr. Non mai mi sdegnai dopo la mia venuta in Francia come in questo istante. Prendi la tua tromba, araldo: vola da quei cavalieri che vedi laggiù sopra quella collina. Se vogliono combattere, di’ loro di discendere: se no, sgombrino di qua: la loro vista mi offende. Ove attenersi non volessero a veruno dei due partiti, andremo a trovarli e li precipiteremo da quell’altura colla rapidità con cui scorre una pietra lanciata da una fionda. — Va, e di’ loro così. (entra Montjoy)
Ex. Ecco l’araldo di Francia, mio sovrano.
Gloc. I suoi occhi sono più umili dell’usato.
Enr. A che dunque viene il loro araldo? Non sai tu che ho consacrate queste ossa al mio riscatto? D’esso vuoi di nuovo parlarmi?
Mont. No, gran re. Vengo da te per chiederti, in nome dell’umanità, il permesso di percorrere questa pianura sanguinosa per contarvi i nostri morti: separare i patrizii dai plebei, e interrarli. Una folla di soldati volgari ha sparso oggi sangue di principi: una folla di principi, oh maledizione su questo dì! giace immersa in un vil sangue, intantochè cavalli feriti e scalpitanti infliggono mortali percosse sopra agonizzanti signori. Oh permettine, gran re, di errare con sicurezza qui intorno, per ufficio tanto pietoso!
Enr. Ti dirò apertamente, araldo, che non so se la vittoria sia nostra; perocchè veggo ancora molti dei vostri cavalieri galoppar per la pianura.
Mont. Voi vinceste.
Enr. Lodi ne siano dunque a Dio e non al nostro valore! — Come si chiama quel castello che là si vede?
Huell. Il castello d’Agincourt.
Enr. Chiameremo dunque questa battaglia dal suo nome, data il giorno di san Crispino.
Huell. Il vostro avo, di famosa memoria, così piaccia a Vostra Maestà, e il vostro gran zio il principe Nero, come io ho letto nelle cronache, combatterono valorosamente qui in Francia.
Enr. È vero, Huellen.
Huell. E se Vostra Maestà se ne sovviene, i Gallesi furono ben utili in quel giardino in cui pericolava la maestà di Monmouth.
Enr. Me ne rammento e me ne glorio, perocchè anch’io son gallese, come voi sapete, mio buon compatriota.
Huell. Tutta l’acqua del fiume Wye non potrebbe lavare il sangue gallese che scorre per le vene di Vostra Maestà; ciò io posso ben dirvi. Dio vi benedica, e vi preservi pel bene dei vostri popoli.
Enr. Vi ringrazio di cuore.
Huell. Per Gesù! io son compatriota di Vostra Maestà, lo sappia chi vuole, io lo confesserò a tutto il mondo: nè mai mi vergognerò di voi, finche sarete un onest’uomo.
Enr. Il Cielo mi mantenga tale! — I nostri araldi lo accompagnino e mi si dia esatto conto del numero dei morti così dell’una parte che dell’altra (escono Montjoy ed altri). Venga innanzi quel soldato. (entra Williams)
Ex. Soldato, venitene dal re.
Enr. Soldato, perchè porti quel guanto al tuo berretto?
Will. Così piaccia a Vostra Maestà, è il pegno di un uomo con cui debbo combattere, se è ancora in vita.
Enr. È questo un Inglese?
Will. Un ribaldo con cui ebbi disputa la notte scorsa, e a cui, se mai vive ed osa reclamare questo guanto, ho giurato di dare una ceffata; se poi dovessi vedere al suo berretto il mio guanto, che egli ha giurato di portare, gli farei saltar la testa in maniera stupenda.
Enr. Che pensate di ciò, capitano Huellen? È conveniente che questo soldato mantenga il suo giuramento?
Huell. È un mariuolo e uno scellerato se non lo fa, io vi parlo schietto.
Enr. Forse che il suo nemico è uomo di alto grado, che non potrà fargli ragione.
Huell. Quand’anche fosse gentiluomo come il diavolo, Lucifero o Belzebù, è necessario che mantenga ciò che ha promesso. S’ei di venisse spergiuro, la sua riputazione sarebbe quella di un insigne codardo, quant’è vero ch’io son uomo di verità e di coscienza.
Enr. Così essendo, mantieni il tuo giuramento, soldato, allorchè t’imbatterai nel tuo avversario.
Will. Così farò, sire, quant’è vero che vivo.
Enr. Sotto chi servi tu?
Will. Sotto il capitano Gower, mio re.
Huell. Gower è un buon capitano, ed ha versato nella scienza della guerra.
Enr. Vanne, soldato, e fallo venire da me.
Will. Così farò, mio sovrano. (esce)
Enr. Prendi, Huellen; porta tu questo guanto al tuo berretto per me: io lo tolsi ad Alençon combattendo. Se qualcuno lo reclama, debbe essere un amico d’Alençon, e quindi un nemico nostro; ove lo incontri, arrestalo, se mi ami.
Huell. Vostra Grazia mi onora fin dove cuor d’uomo può desiderarlo. Vorrei con tutta l’anima trovar un uomo su due gambe che si stimasse offeso per questo guanto. Faccia Iddio ch’io lo veda.
Enr. Conosci Gower?
Huell. È il mio più caro amico, così vi piaccia.
Enr. Ti prego di andarlo a cercare, e di condurlo alla mia tenda.
Huell. Vado, mio re. (esce)
Enr. Milord di Warwick, e voi fratello Glocester seguite da presso Huellen; il guanto ch’io gli ho dato potrebbe attirargli un insulto. È il guanto di un soldato che dovrei, per convenzione, portare io stesso. Seguitelo, cugino Warwick. Se il soldato lo battesse come me lo fa temere il suo aspetto brutale, potrebbe accadere qualche disavventura. Huellen è un valoroso, alacre come la giovinezza. Seguitelo e vegliate perchè nulla di sinistro avvenga; voi venitene meco, zio d’Exeter. (escono)
SCENA VIII.
Dinanzi al palazzo del re Enrico.
Entrano Gower e Williams.
Will. Scommetto che è per farvi cavaliere, capitano.
(entra Huellen)
Huell. La volontà di Dio e il piacer suo si adempiano, Gower; io vi supplico di venirne dal re: si apparecchia forse per voi tal cosa che voi non potreste imaginare.
Will. Signore, conoscete questo guanto?
Huell. Se conosco il guanto? So che un guanto è un guanto.
Will. Io lo conosco, e così lo reclamo. (lo percuote)
Huell. Sangue e morte! Ecco un empio traditore, se alcuno ve n’è in Francia o in Inghilterra.
Gow. Che è ciò, signore? Oh scellerato!
Will. Credeste che volessi divenir spergiuro?
Huell. Allontanatevi, capitano Gower; tratterò il traditore come merita, ve ne assicuro.
Will. Non sono un traditore.
Huell. Menti per la gola. — Io ti accuso in nome di Sua Maestà, e ti arresto; un amico è costui del duca di Alençon.
(entrano Warwick e Glocester)
War. Che è ciò, che è ciò?
Huell. Milord di Warwick, qui v’è (Dio sia lodato per dò) uno dei più infami traditori. Viene Sua Maestà.
(entrano il re Enrico ed Exeter)
Enr. Ebbene?
Huell. Mio Sovrano, questo scellerato che qui vedete, mi ha percosso pel guanto che voi strappaste ad Alençon.
Will. Sire, era il mio guanto; eccone il compagno: e quegli, a cui lo diedi in cambio, mi promise di portarlo al suo berretto: io a mia volta gli aveva detto di percuoterlo se ciò faceva: ridi avverata la promessa, e mantenni la parola.
Huell. Udite ora, Sire, qual miserabile sia costui. Io spero bene che Vostra Maestà dichiarerà e protesterà che questo guanto appartenne ad Alençon, e che voi me lo deste.
Enr. Dammi il tuo guanto, soldato; e mirane qui il simile. Son io, te ne assicuro, che dovevi percuotere, e ricordare ti potrai delle aspre parole che usasti verso di me.
Huell. Piaccia a Vostra Maestà che il suo collo ne risponda, se è vero che esistano leggi marziali.
Enr. Come potrai tu darmi soddisfazione?
Will. Tutte le offese, mio sovrano, vengono dal cuore: non mai alcuna venne dal mio, che potesse offendere Vostra Maestà.
Enr. Fummo noi stessi, nondimeno, che insultasti.
Will. Voi non vi presentaste allora coi vostri sembianti; voi mi sembraste un soldato volgare, e quello che Vostra Altezza patì sotto tale aspetto, vi supplico di riguardarlo come fallo vostro, non mio: perocchè se foste stato quello ch’io vi credevo, di nulla potreste lagnarvi: è per ciò che vi prego di farmi grazia.
Enr. Zio Exeter, empite questo guanto di scudi, e datelo a questo soldato. — Tu poi serbalo, soldato, e portalo al tuo berretto come segno di onore finchè io lo reclami — Voi pure, capitano, dovete essere de’ suoi amici.
Huell. Per questo giorno e questa luce! costui ha buon coraggio nella pelle. — Tieni, eccoti uno scudo, e ti raccomando di servire bene Iddio, e di astenerti dagli strepiti e dalle contumelia.
Will. Non voglio vostri denari.
Huell. È di buon cuore che te l’offro: esso servirà a farti rattoppare le scarpe; via, perchè fare il ritroso? Le tue scarpe non son buone: accetta questa moneta. (entra un araldo inglese)
Enr. Son numerati i morti, araldo?
Ar. Qui sta registrata tutta la serie de’ Francesi estinti.
(gli consegna un foglio)
Enr. Quali prigionieri di rilievo abbiam noi fatto, zio?
Ex. Carlo, duca d’Orléans, nipote del re; Giovanni, duca di Borbone, e lord Boucicault: poi mille e cinquecento fra baroni, cavalieri e gentiluomini, senza contare i gregarii.
Enr. Questa lista annovera dieci mila Francesi rimasti sul campo di battaglia. In tal numero son compresi centoventisei fra principi e nobili: aggiungete ottomila e quattrocento fra cavalieri, scudieri e altri guerrieri distinti, e vedrete che il numero dei soldati mercenarii che han perdutosi riduce a seicento. I nomi dei nobili uccisi sono i seguenti: Carlo d’Albret, Gran Contestabile, Giacomo Chatillon, ammiraglio di Francia, Rambures, gran maestro, il valoroso Guiscardo, Delfino; Giovanni duca d’Alençon, Antonio di Brabante, fratello del Borgognone, Eduardo di Bar; Grandpré; Roussy, Fauconberg, Foix, Beaumont, Merle Vandemont e Lestrelles. Illustre è questa schiera di caduti!.... Dov’è la nota dei morti inglesi? (l’araldo gli presenta un altro foglio) Eduardo, duca di York, Suffolk il conte, sir Riccardo Ketty, David Gam, scudiere: niun altro di distinzione, e di soldati comuni venticinque in tutto. — Oh Dio del Cielo! il tuo braccio si è qui mostrato: ed è a Te solo, non a noi, che render dobbiamo l’onore di questa giornata! Quando mai si vidde in una battaglia campale, senza astuzie né stratagemmi, sì gran perdita da un lato, sì lieve dall’altro? Abbine Tu tutto l’onore, gran Dio: perocché tutto a Te solo appartiene.
Ex. Evento maraviglioso!
Enr. Andiamo con pompa solenne al villaggio vicino e vietiamo sotto pena di morte, al nostro esercito di esaltarsi per questa vittoria e di toglierne l’omaggio a Dio: a Lui solo appartiene.
Huell. Lecito non è, così piaccia a Vostra Maestà, il dire il numero dei morti?
Enr. Sì, capitano; ma confessando che Dio ha combattuto per noi.
Huell. In coscienza è stato così, e grande ne è il nostro vantaggio.
Enr. Adempiamo ai doveri religiosi: intanto si intuoni il salmo Non nobis e il Te Deum; e dopo avere pietosamente dato tomba ai trapassati, si torni in Inghilterra, dove mai non approderanno uomini più fortunati di noi. (escono)