Il Re Enrico V/Atto terzo

Atto terzo

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William Shakespeare - Il Re Enrico V (1599)
Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1858)
Atto terzo
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ATTO TERZO


Entra il Coro.

Così con celerità eguale a quella del pensiero la scena trasvola sull’ala della fantasia. Imaginate il re in apparecchio guerriero al ponte di Hampton, seguito dal suo bel navilio, i cui vessilli empie l’aere e incolora il sole del mattino: seguite le larve della mente, e contemplate i mozzi arrampicantisi sulle corde dei vascelli: ascoltate il sibilo penetrante che impone buon ordine: mirate le vele, turgide per soffi invisibili, trascinare pei mari enormi masse, che presentano i loro vasti fianchi alle onde ammonticchiate: imaginate di essere sulla riva da cui i vostri occhi discernono una città che si muove sulle onde: tale è il quadro che presenta questa flotta regale, dirizzata ad Harfleur. Continuate, continuate! Unitevi coi vostri pensieri ai vascelli e lasciate la nostra isola tranquilla e silenziosa, come le ore della notte profonda, custodita da vecchiardi, da fanciulli e da femmine, che passato hanno o giunti ancora non sono all’età della forza e della vigoria. Perocchè quale è quegli a cui una lieve lanugine abbia ornato il mento che non abbia voluto seguir l’eletta schiera di prodi alle rive di Francia!... Trascorra il pensiero: mirate un assedio nelle Gallie, mirate i cannoni sui loro carri che spalancano le loro bocche fatali contro il bloccato Harfleur. — Imaginate che l’ambasciatore ritorni dalla corte dei Francesi e annunzi ad Enrico, che il re gli offre sua figlia Caterina, e con essa in dote alcuni vani e sterili ducati. — L’offerta non talenta al nostro re, e già l’alacre artigliere tocca colla temuta miccia il bronzo infernale: (s’ode un allarme, e una scarica d’artiglieria) tutto crolla dinanzi a lui. Continuatene il vostro favore, e i vostri pensieri aggrandiscano e completino il disegno. (esce)

SCENA I.

Dinanzi ad Harfleur. — Allarme.

Entrano il re Enrico, Exeter, Bedford, Glocester e soldati con scale.

Enr. Una volta ancora alla breccia, amici, anche una volta: vincetela d’assalto, o empitela di morti. Durante la pace niente si addice meglio all’uomo che una modesta dolcezza; ma quando rugge la tempesta della guerra ai nostri orecchi, allora bello di[p. 325 modifica]viene il furore della tigre: indurite le vostre fibre, eccitate tutto il sangue delle vostre vene, deformate i lineamenti dell’uomo sotto gli spasimi convulsi della rabbia, date al vostro occhio un lampo terribile e minaccioso, come il cannone che fulmina dalle feritoie d’una fortezza: il vostro ciglio aggrottato lo adombri e ispiri un terrore uguale a quello che cagiona uno scoglio ruinoso che pende e sta per precipitare sui flutti dell’oceano: affilate i vostri denti, aprite larghe le narici, contenete con forza l’alito, e informate tutti i vostri spiriti alla loro maggior potenza. — Coraggio, nobili Inglesi, il di cui sangue sgorga da avi celebri in guerra, da avi che, come altrettanti Alessandri, hanno in questi luoghi combattuto dallo spuntare del dì fino al suo tramonto, e riposte non han le spade, se non quando i nemici son loro mancati. Non disonorate le madri vostre: provate che quelli, cui deste il nome di genitori, v’avevano veracemente generati: siate modello ai meno agguerriti, e insegnate loro a combattere. E voi, prodi comuni, le di cui membra formaronsi in Inghilterra, mostratene qui la tempra e il vigore del suolo che vi nudrì: fateci accorti che degni siete della vostra terra. Di questo io non dubito, perocchè non ve n’è alcuno di voi, i di cui occhi, quale che si sia l’oscurità della sua condizione, non brillino dei nobili fuochi del valore. Io vi veggo tutti ardenti e frementi, come il veltro al guinzaglio che non attende che il segnale per islanciarsi. Ebbene, la caccia è aperta: abbandonatevi all’ardore che v’infiamma, e nell’assalto gridate: Dio per Enrico! Inghilterra! e San Giorgio! (escono; allarme e scariche d’archibugi)

SCENA II.

Parecchi soldati traversano la scena.

Entrano Nym, Bardolfo, Pistol e il Garzone.

Bard. Innanzi, innanzi, innanzi! Alla breccia, alla breccia!

Nym. Pregoti, caporale, fermati; le botte son troppo forti; e per mia parte non ho molte vite: lo scherzo non val nulla, e meglio è non gustarlo.

Pist. I colpi cadono a dritta e a manca, e i poveri vassalli di Dio diventan polvere: la spada e lo scudo acquistano onori immortali, in mezzo alle stragi.

Gar. Foss’io in un’osteria di Londra! Darei tutta la mia fama per una pinta di birra e un po’ di sicurezza.

Pist. Ed io, se i desiderii bastassero, non mi fermerei di più qui, e in breve t’avrei raggiunto. [p. 326 modifica]

Gar. Tu mancheresti al tuo dovere. (entra Huellen)

Huell. Alla breccia, codardi! alla breccia! Non volete? (battendoli)

Pist. Siate misericordioso, gran duca, ad uomini di creta! Calma la tua rabbia, calma la tua maschil rabbia! Calma la tua rabbia, gran duca, usane mercè.

Nym. Costui è un bell’umore! Vostra Grazia un umor brutto. (escono Nym, Pistol, Bardolfo e Huellen)

Gar. Giovine come sono, ho osservato quei tre millantatori a cui servo, e se essi servir mi volessero io lo ricuserei: perocchè tre tali uomini non ne fanno un solo. Per Bardolfo..... è un cuor di piombo e un volto rosso, di modo che il suo volto è armato d’impudenza, ma in fondo all’anima ei trema. Pistol uccide tutti, ma colla lingua; e la sua spada è dolce come un montone: ciò che fa, ch’ei storpia parole finchè vuole, ma non rompe una lancia. Nym ha udito dire che gli uomini di poche parole sono i migliori; e perciò non prega mai per non essere creduto un codardo: ma i suoi pochi e cattivi detti sono accoppiati con così poche buone opere, ch’ei non ha mai rotto il capo ad alcuno fuorchè a se stesso, e ciò accadde contro un angolo, sendo briaco. Coloro rubano ogni cosa, e la chiamano un acquisto. Bardolfo rapì l’altro giorno la custodia d’un liuto, la portò dodici leghe e la vendè per tre mezzi soldi. Nym e Bardolfo son fratelli giurati in mariuoleria; a Calais li viddi trafugare una padella, e ciò mi fece pensare che essi sarebbero un dì divenuti portatori di carbone1. Essi avrebbero voluto rendermi così familiare colle saccoccie degli uomini, come lo sono i loro guanti o le loro pezzuole; ma non si addice al mio carattere l’empiere le mie tasche con ciò che contengono le tasche altrui; perocchè tal cosa guida al precipizio. Bisogna che li lasci e cerchi miglior servizio: la loro empia condotta mi ripugna e debbo allontanarmi da loro. (esce; rientra Huellen e Gower)

Gow. Capitano Huellen, correte tosto alle mine: il duca di Glocester vuol parlarvi.

Huell. Alle mine? Andate a dire al duca, che non è bene andare alle mine: perocchè le mine non sono disciplinate alla guerra; le cavità non sono bastanti, e il nemico è ito dodici piedi più in giù di noi: pel Cielo! credo che salteremo per aria, se non ci si danno migliori comandi. [p. 327 modifica]

Gow. Il duca di Glocester, a cui la condotta dell’assedio è affidata, segue i consigli di un Irlandese assai prode.

Huell. Non è il capitano Macmorris?

Gow. Credo di sì.

Huell. Pel Cielo! è un giumento, il più gran giumento del mondo. Lo proverò alla sua barba: ei non ha migliore disciplina di guerra, disciplina romana, che non abbia un fanciullo. (entra Macmorris e Jamy in distanza)

Gow. Eccolo che viene, accompagnato dal capitano scozzese Jamy.

Huell. Il capitano Jamy è un uomo valoroso: un uomo addottrinato nelle antiche guerre, per quanto io so giudicarne. Pel Cielo! ei sosterrà le sue tesi come ogni altro buon soldato del mondo sulle discipline degli antichi guerrieri di Roma.

Jamy. Vi do il buon giorno, capitano Huellen.

Huell. Buon giorno a vossignoria, capitano Jamy.

Gow. Ebbene, capitano Macmorris, venite dalle mine? I pionieri han finito?

Mac. Per Cristo! tutto fu mal fatto. L’opera è abbandonata, la tromba ha squillato a raccolta; per la mia mano e per l’anima di mio padre! giuro che l’opera non val nulla. Vi si è rinunciato, e fu bene; ma s’io l’avessi diretta avrei fatto saltar la città, Dio me lo perdoni! in meno di un’ora. Mal fatto, mal fatto, per questa mano, mal fatto!

Huell. Capitano Macmorris, ve ne supplico, vorreste accordarmi un piccolo colloquio sulle guerre dei Romani, a fine di consorzio amichevole? Tratteremo di ciò che risguarda la disciplina militare e simili altre materie.

Jamy. Sarà ben fatto, in verità, miei buoni capitani, e profitterò di questa occasione per prendermi congedo da voi.

Mac. Non è questo il tempo di discorrere, Dio mi perdoni! Il giorno è caldo, poi v’è il re, i duchi, la guerra e l’onta nostra. Non v’è da discorrere; la città è assediata e la tromba ci chiama sulla breccia. Pel Cielo! noi non facciamo che cianciare, ed è vergognoso! Dio mi perdoni, ma è un vituperio lo starsene qui in calma, mentre sonvi tante gole da tagliare, e nulla fu ancor fatto!

Jamy. Per la santa messa! prima che questi occhi che vedete siano assopiti, farò belle opere, o giacerò sul cataletto. Sì, m’adoprerò con tutto il coraggio che potrò; ciò è ben sicuro in due parole, come tu quattro. Nondimeno, sulla mia fede! sarei lieto d’udire qualche disputa fra voi. [p. 328 modifica]

Huell. Capitano Macmorris, io credo, salvo il rispetto che ti debbo, che vi siano ben pochi della vostra nazione...

Mac. Della mia nazione? Che cosa è la mia nazione? Costui è uno scellerato, un ribaldo, un malandrino! Che cos’è la mia nazione? Chi parlò della mia nazione?

Huell. Se prendete le cose diversamente dal loro significato, crederò che non mi trattiate con quell’affabilità che mi è dovuta, essendo io perito nelle discipline di guerra e venuto di lignaggio nobilissimo.

Mac. Non vi credo buono quant’io, e così Cristo mi salvi come io vi reciderò il capo.

Gow. Gentiluomini, v’ingannate entrambi.

Jamy. L’errore è ridicolo. (si suona a parlamento)

Gow. La città chiede di trattare.

Huell. Capitano Macmorris, quando si troverà miglior occasione sarò abbastanza ardito per dirvi che mi son note le discipline di guerra; per ora basta. (escono)

SCENA III.

Dinanzi alle porte di Harfleur.

Il Governatore e alcuni cittadini sopra le mura; l’esercito inglese al di sotto; entra il re Enrico col suo seguito.

Enr. Qual’è infine la risoluzione del governatore della città? Ecco l’ultimo parlamento a cui veniamo. Arrendetevi alla nostra clemenza, o se siete bramosi della vostra distruzione, sfidate il nostro ultimo furore. Perocchè, come è vero ch’io son soldato, nome che accarezzo assai, se incomincio a battere le vostre mura, non le lascierò finchè non siano ridotte in polvere. Le porte della misericordia si chiuderanno, e il soldato animato alla strage col cuore indurito e feroce, lasciando libero il corso alla sua mano sanguinaria, sfogherà l’ira sua sui vostri petti con una coscienza larga come l’inferno, mietendo quasi erba i vostri fanciulletti nel primo fiore ancora dell’età. Che cale a me se la strage empia, coronata di fiamme, come il principe delle tenebre, colla fronte fatta nera dai fuochi, esercita tutti gli orrori che seguono gli assalti? Che cale a me, quando voi soli ne siete la cagione, se le vostre caste vergini incontrano stupri sfrenati? Qual morso può arrestare la scienza del male, allorchè essa precipita pel suo declivio di sangue? Noi spenderemmo invano la nostra voce per richiamare soldati anelanti di bottino; tanto [p. 329 modifica]varrebbe il comandare allo sterminato Leviatan di venire alla riva. Abitanti di Harfleur, abbiate pietà della vostra città e del vostro popolo, finchè gli inglesi sono anche sottomessi ai miei ordini, finchè la clemenza sospende ancora gl’impeti della guerra, il furor del saccheggio e il corso de’ fatti atroci: se questo non fate, aspettatevi a veder fra poco il guerriero, cieco e sanguinoso, squarciare con mano crudele il cinto delle vostre fanciulle esalanti invano le loro grida per l’aere, a vedere i vostri vecchi barbaramente afferrati pei loro bianchi capelli, e le venerande loro teste schiacciate contro le mura; a mirare i vostri figli confitti nudi sopra le lancie al cospetto delle loro madri disperate, mandanti invano i loro lai, come un tempo le vedove di Giudea imprecavano coi loro clamori ai carnefici di Erode. Che rispondete voi? Volete arrendervi e prevenir tanti mali, o colpevoli di troppo tenace difesa, affrontarli da inumani?

Gov. Questo giorno fu l’ultimo della nostra aspettativa. Il Delfino, da cui avevamo implorato soccorso, ci fa assapere che il suo esercito non è per anco pronto, nè in istato di far togliere sì grande assedio. Perciò, terribile re, noi cediamo la nostra città e le nostre vite alla vostra generosa mansuetudine; entrate nelle nostre porte; disponete di noi e delle nostre sostanze: noi non possiamo difenderci di più.

Enr. Aprite le barriere. — Andiamo, zio Exeter: entrate in Harfleur, e fortificatela potentemente contro i Francesi. Fate grazia a tutti — Per noi, caro zio, l’inverno che si avvicina, e la infermità che si diffonde fra i nostri soldati, ci obbligano a ritirarci verso Calais. Questa sera saremo vostri ospiti in Harfleur, e dimani partiremo. (squillo di trombe. Il re ecc. entra nella città)

SCENA IV.

Rouen. — Una stanza nel palazzo.

Entrano Caterina e Alice2.

Cat. Alice, tu sei stata in Inghilterra, e conosci bene quell’idioma.

Al. Un poco, signora.

Cat. Ti prego, insegnamelo; bisogna che l’apprenda. Come si chiama la mano, in inglese?

Al. La mano? Si chiama de hand3. [p. 330 modifica]

Cat. De hand. E le dita?

Al. Le dita? In fede, l’ho dimenticato; ma me ne rammenterò. Le dita? Credo che si chiamino de fingers; sì, de fingers.

Cat. La mano, de hand; le dita, de fingers. Parmi d’essere una buona scolara. Ho di già imparato due parole. Come si dicono le unghie?

Al. Le unghie? si dicono de nails.

Cat. De nails? Ascoltate; ditemi se parlo bene; de hand, de fingers, de nails.

Al. A meraviglia, signora; ottimo inglese.

Cat. Ditemi in inglese, braccio.

Al. De arm, signora.

Cat. E gomito?

Al. De elbow.

Cat. De elbow? vi ripeterò tutte le parole che mi avete detto.

Al. È molto difficile, credo.

Cat. Scusatemi, Alice, ascoltate: de hand, de fingers, de nails, de arm, de bilbow.

Al. De elbow, signora.

Cat. O signore Iddio! l’avevo dimenticato; de elbow. Come nominate il collo?

Al. De neck, signora.

Cat. De neck? E il mento?

Al. De chin.

Cat. De sin. Il collo, de neck: il mento, de sin4.

Al. In verità, pronunziate l’inglese, come quelli che son nati in Inghilterra.

Cat. Non dubito di non apprenderlo colla grazia di Dio, e in poco tempo.

Al. Ma avrete forse già dimenticato quello che vi ho detto?

Cat. No, vel ripeterò tosto. De hand, de fingers, de mails...

Al. De nails, vorrete dire.

Cat. De nails, de arm, de ilbow.

Al. Con vostra licenza, de elbow.

Cat. Così ho detto; de elbow, de neck, e de sin: come chiamate il piede e la veste?

Al. De foot, signora, e de con.

Cat. De foot, e de con?5. O signore Iddio, che sconcie [p. 331 modifica]parole, che parole invereconde per le fanciulle. Non vorrei pronunziare simili parole dinanzi ai signori di Francia per tutto l’oro del mondo. Foot e con, orrore, orrore! Ripeterò un’altra volta la mia lezione: de hand, de fingers, de nails, de arm, de elbow, de neck, de sin, de foot, de con.

Al. Ottimamente, signora!

Cat. Basta per una volta; andiamo ora a desinare. (escono)

SCENA V.

Un’altra stanza nel palazzo.

Entrano il Re di Francia, il Delfino, il duca di Borbone, il Contestabile ed altri.

Re. È certo che ha passato la Sonna.

Con. Se non andiamo a combatterlo, mio re, rinunziamo all’idea di vivere in Francia; abbandoniamo tutto, cediamo i nostri ricchi vigneti a un popolo barbaro.

Del. Oh! Dieu vivant! Gli avanzi del nostro popolo, il superfluo della sostanza dei nostri padri, i nostri pargoli, rampollati sopra tronco inculto e selvaggio, germoglieranno sì rapidamente, e vinceranno in altezza il fusto da cui ebbero vita.

Bor. Normanni, bastardi Normanni, mort de ma vie, se traversar debbono così il regno senza combattere, vuo’ vendere il mio ducato per comprare una capanna e alcune paludi fangose in quell’isola informe e selvaggia d’Albione.

Con. Dieu des batailles! dove hanno essi dunque trovato tanto coraggio? Il loro clima non è coperto di nebbie e assiderato dal freddo? Il sole non diffonde che con ritrosìa pallidi raggi sulla loro isola; esso uccide i loro frutti coi suoi sguardi crucciati: e la loro ignobile birra, mistura d’acqua e d’orzo, bevanda da cavalli, e nulla più, può infondere tant’ira nel loro torpido sangue? Oh Francia! sembrerai tu dunque al cospetto di coloro una nazione pusilla, infingarda e petulante? Ah! per l’onore della nostra terra, non ci restiamo oziosi e immobili, come quei ghiacci che l’inverno sospende ai nostri tetti, intantochè un popolo, nato nel paese delle brume, si cuopre di un nobile sudore nelle nostre campagne, ricche pel loro suolo, ma povere, è pur forza il dirlo, per gli uomini molli che alimentano.

Del. Sull’onore e la fede dei cavalieri! le nostre donne ne scherniscono: esse dicono ad alta voce che il nostro vigore è consunto, e ch’elle prodigheranno i loro vezzi alla gioventù d’Inghilterra per ripopolare la Francia di bastardi bellicosi. [p. 332 modifica]

Bor. Ne mandano poi alle scuole di ballo d’Inghilterra e ci consigliano d’imparare ridde e contraddanze, dicendo che tutte le nostre virtù risiedono nei nostri talloni, e che i nostri sublimi talenti si mostrano soltanto nella fuga.

Re. Dov’è l’araldo Montjoy? Comandategli di partir tosto. Che ei vada a salutar l’Inglese con insultante disfida. — Su, principi, correte alla pianura; e l’onore e il coraggio diano ai vostri cuori tempra più dura di quella dell’acciaio delle vostre spade. Carlo d’Albret, contestabile di Francia, e voi anche Orléans, Borbone, Berry, Alençon, Brabante, Bar, Borgogna, Châtillon, Rambures, Vaudemont, Beaumont, Grandpré, Roussy, Fauconberg, Foix, Lestrelles, Boucicault e Charlois, gran duchi, principi, conti, baroni e marescialli, illustri pei vostri titoli e pei vostri nomi, ite a lavarvi di questo crudele obbrobrio; fermate nel suo corso Enrico d’Inghilterra, che traversa da vincitore il nostro regno, e vendicate l’insulto de’ suoi vessilli tinti nei sangue di Harfleur. Avventatevi sul suo esercito, come un torrente di neve precipita in una valle che ne riman sommersa; prorompete su di lui, avete forze bastanti da ciò, e conducetelo fra le mura di Rouen, prigioniero, incatenato sopra un carro vittorioso.

Con. Cotesto si addice ai grandi! Sono dolente che il nemico sia sì debole, e che i suoi soldati muoiano di fatica e d’inedia: perchè son certo che appena vedrà spuntare le nostre schiere, il timore l’invaderà, e tratterà il suo riscatto.

Re. Andate, contestabile, affrettate la partenza di Montjoy; ch’ei dichiari all’Inglese che noi mandiamo a chiedergli qual somma vuol darci per tornare salvo nella sua isola. Voi, Delfino, resterete con noi in Rouen.

Del. No, padre, ve ne scongiuro.

Re. Non insistete: dovete rimaner con noi. — Partite, contestabile; e voi pure, principi, e riportateci sollecitamente la novella della disfatta d’Enrico. (escono)

SCENA VI.

L’accampamento inglese in Piccardia.

Entrano Gower e Huellen.

Gow. Ebbene, capitano Huellen? Venite dal ponte?

Huell. Vi assicuro che veggonsi belle cose colà.

Gow. Exeter è salvo?

Huell. Exeter è magnanimo come Agamennone; è un uomo [p. 333 modifica]ch’io amo, ed onoro colla mia anima, il mio cuore, le mie forze, la mia vita e tutte le mie facoltà. Ei non ha incontrato (Dio sia lodato e benedetto) il più piccolo ostacolo di questo mondo; ed ha mantenuto il ponte con eccellente disciplina. Vi è ora anche là un alfiere che credo prode come Marc’Antonio; che non gode di alcuna stima: ma a cui ho veduto far opere maravigliose.

Gow. Come si chiama?

Huell. L’Alfiere Pistol.

Gow. Non lo conosco. (entra Pistol)

Huell. Noi conoscete! Viene egli stesso.

Pist. Capitano, ti supplico di farmi un favore: il duca di Exeter ti ama assai.

Huell. Ne ringrazio Dio; ma credo d’essermi un po’ meritato il suo favore.

Pist. Un certo Bardolfo, soldato intrepido e di cuore, è, per destino crudele, e per ischerno barbaro della cieca Dea che si chiama fortuna, mobile senza fine...

Huell. Con vostro permesso, alfiere Pistol, la fortuna è rappresentata cieca, con una benda dinanzi agli occhi, per far capire che ai beni della terra presiede il caso; e la si dipinge ancora con una ruota, per mostrare, questa è la morale, ch’essa si volge sempre, e che è perennemente incostante. Il suo piede posto sopra una pietra sferica scorre, scorre, scorre... A dir vero la poesia ne fa una bella descrizione; e la fortuna è una eccellente morale.

Pist. La fortuna è nemica di Bardolfo, e lo guarda di sottecchi; egli ha rubato una pisside, e dev’essere appiccato; tal morte sarebbe indegna. Il gibetto è buono pei cani; ma l’uomo dovrebbe andarne esente. Non soffrite adunque che la canapa gli tolga il soffio. Exeter ha pronunziata la sua condanna per una pisside di poco valore: andate, e parlategli; Dio v’ascolterà. Impedite che la vita del povero Bardolfo venga recisa da una rudente sottile, e in modo ignominioso. Andate, capitano, e parlate in di lui favore, ch’io ve ne sarò eternamente grato.

Huell. Alfiere Pistol, vedo bene presso a poco quello che volete dirmi.

Pist. Tanto meglio: allegrati dunque dell’occasione di compiacermi che ti si offre.

Huell. Non v’è tanto da allegrarsi; perchè se anche fosse mio fratello pregherei il duca di eseguire il suo talento, e di farlo appendere: la disciplina vuol conservarsi.

Pist. Muori, e sii dannato; un fico per la tua amicizia. [p. 334 modifica]

Huell. A meraviglia!

Pist. Un avvelenato fico di Spagna. (esce)

Huell. Molto bene.

Gow. Quell’uomo è il più scorto malandrino che fosse mai. Me lo ricordo ora; è un lenone, un tagliaborse.

Huell. Vi assicuro ch’ei profferiva sul ponte le più laide parole; ma non vale. Quel ch’ei m’ha detto lo sconterà tostochè l’occasione se ne presenti.

Gow. Pel Cielo! è un furfante che di tratto in tratto va alla guerra, per avere il vantaggio, al suo ritorno a Londra, di vestire l’abito militare. Simili malandrini sanno i nomi di tutti i capi di un esercito, e vi possono dire a memoria tutto quello che è accaduto in una guerra: essi vi manifesteranno chi si distinse, chi fu ucciso, chi si disonorò, quali erano i posti del nemico, quale l’ordine della battaglia. £ tutto questo espongono coi migliori termini di guerra, colle frasi più significanti. Or voi non potreste imaginare qual effetto producano mostacchi tagliati a guisa di quelli del generale, e orribili grida, che imitano le grida di un campo, fra bottiglie e spiriti pieni di birra. Oh! conviene imparare a conoscere tal plebaglia che disonora il secolo, o ne rimarreste ingannato tutti i giorni.

Huell. Io non credo, capitano Gower, ch’ei sia tutto quello che vuol sembrare, e alla prima occasione, in cui lo vedrò in cimberli, gli farò sentire la mia maniera di pensare (si ode un tamburo) Udite! Viene il re, convien ch’io gli parli del ponte. (Entra il re Enrico, Glocester e soldati)

Huell. Dio benedica Vostra Maestà!

Enr. Ebbene, Huellen; vieni dal ponte?

Huell. Così piaccia a Vostra Maestà. Il duca di Exeter lo ha generosamente difeso: i Francesi si sono ritirati, e libero n’è ora il passaggio. In verità il nemico ci aveva soverchiati, ma fu costretto a rinculare, e il luogo è ora in poter nostro. Oh! io posso ben assicurare Vostra Maestà che il duca è un valent’uomo.

Enr. Quanti uomini avete perduto, Huellen?

Huell. Le perdite dell’avversario sono state molto grandi, molto ragionevolmente grandi: e per mia parte non credo che al duca sia mancato un uomo, se se n’eccettua uno, che sta per essere appiccato per aver rubato in una chiesa, un certo Bardolfo, se Vostra Maestà lo conosce: il suo volto è coperto di bolle e di fiamme di fuoco; le sue labbra gli turano il naso, e son simili a un carbone, ora turchino ed ora rosso; ma il suo naso sarà di già appeso, e tutto il fuoco vi si sarà spento. [p. 335 modifica]

Enr. Vorrei che ci potessimo redimere da tutti i trasgressori della sua specie. Noi ordiniamo che durante il nostro passaggio nulla si tolga per violenza, nulla si accetti fuorchè pagando: ordiniamo che non s’insulti neppur l’infimo dei Francesi con alcuna parola di disprezzo o di rimprovero. Quando la dolcezza o la crudeltà si contendono un regno, il giuocator più gentile è quello che vince. (squillo di trombe. Entra Montjoy)

Mont. Voi mi conoscete al mio abito?

Enr. Ebbene, ti conosco. Che vuoi tu dirmi?

Mont. Le intenzioni del mio signore.

Enr. Dichiarale.

Mont. Così dice il mio re. — Annunzia a Enrico d’Inghilterra, che sebbene noi siamo sembrati morti, eravamo soltanto addormiti. L’occasione ottiene più vittorie che la temerità. Digli che avremmo potuto sconfiggerlo in Harfleur, ma che non giudicammo a proposito di vendicare un’ingiuria, prima che fosse al suo colmo. — Ora tocca a noi a parlare, e la nostra voce è la voce d’un sovrano. L’Inglese si pentirà della sua follia: ei sentirà la sua debolezza, e ammirerà la nostra pazienza. Digli di pensare al suo riscatto che dev’essere proporzionato alle perdite che abbiamo sofferto, al numero di sudditi che ci son mancati, all’insulto che tollerammo; e se la riparazione dovesse eguagliar la grandezza dell’offesa, la sua debolezza vi soccomberebbe. Per pagare le nostre perdite il suo tesoro è troppo povero: per scontare l’effusione del nostro sangue, tutte le schiere del suo regno sarebbero insufficienti. E rispetto all’onta che ci si volle infliggere, la sua persona stessa prostrata ai nostri piedi non farebbe di essa che debole e indegna ammenda. A questo discorso aggiungi la sfida; e finisci col dichiarargli ch’egli ha consacrata la perdita di coloro che lo seguono. — Così parla il re mio signore: e qui finisce il mio messaggio.

Enr. Qual è il tuo nome? il tuo grado lo conosco.

Mont. Montjoy.

Enr. Tu riempi bene il tuo ufficio; riedi adunque e di’ al tuo re che in questo momento io nol ricerco, e che ben lieto sarei di potermene andare senza ostacoli fino a Calais, perocchè, per dir il vero, sebbene la prudenza vieti una tal confessione dinanzi a un nemico astuto, che spia e attende al proprio vantaggio, i miei soldati sono assai infiacchiti dalle malattie; il loro numero è scemato, e i pochi che mi rimangono non valgono più d’altrettanti Francesi. — Finchè gli uomini miei erano rigogliosi e in salute, io ti dico, araldo, che sopra due gambe inglesi mi pareva [p. 336 modifica]di veder camminare tre Francesi. — Dio mi perdoni, se tanto mi vanto: ma è il vostro aere di Francia che spira in me tal difetto, che nullameno debbo rimproverarmi. — Va, parti e di’ al tuo signore che tu mi hai qui trovato: che il mio riscatto è questo corpo debole e infermiccio; che il mio esercito non è più che un pugno d’uomini estenuati. Nondimeno, Dio mi sia guida, e noi marneremo avanti, quand’anche il re di Francia stesso, o qualunque altro re s’opponesse al nostro passaggio. — Eccoti oro pel tuo ufficio, Montjoy: va, e fa che Carlo VI maturi assai la sua risoluzione. Se possiamo passar oltre, bene; se vuole impedircelo, arrosseremo del vostro sangue questa terra. Addio: quest’è la nostra risposta; nello stato in cui siamo non anderemo in cerca di battaglie; ma neppur le eviteremo; questo dirai al tuo re.

Mont. Così farò, e intanto ringrazio Vostra Altezza. (esce)

Gloc. Spero che non verranno ad attaccarci ora.

Enr. Siamo nelle mani di Dio, fratello, e non nelle loro. Marciamo al ponte; comincia a far notte: ci accamperemo di là dal fiume, e dimani ripiglieremo la via. (escono)

SCENA VII.

L’accampamento francese vicino ad Agincourt.

Entrano il Contestabile di Francia, Rambures, il duca d’Orléans, il Delfino ed altri.

Con. Zitto! Io ho la migliore armatura del mondo. — Così fosse dì.

Orl. La vostra armatura è eccellente; ma rendete giustizia anche al mio cavallo.

Con. È il miglior cavallo d’Europa.

Orl. Non spunterà mai il mattino?

Del. Signore d’Orlèans, e voi gran Contestabile, voi parlate di cavalli e d’armature.....

Orl. Cose di cui siete fornito come il primo principe del mondo.

Del. Che notte lunga è mai questa! — Io non cambierei il mio cavallo con alcuno di quelli che camminano su quattro zampe. Ah, ah! Ei salta da terra come se le sue viscere fossero di crino; le cheval volant, il Pegaseo, qui a les narines de feu! Una volta in sella, volo, divengo un falco: ei galoppa per l’aere; e la terra canta quand’ei la tocca; l’unghia più vile del suo piede ha maggior armonia che il flauto d’Ermete. [p. 337 modifica]

Orl. Esso è color di moscato.

Del. È caldo come il rhum. È una bestia degna di Perseo, formata d’aria e di fuoco. Se si discerne in lui qualche mistura di più grossolani elementi, questi appariscono solo nella sua paziente placidezza, allorchè il suo signore vi sta sopra. Bello è quel cavallo, e tutti gli altri accanto a lui non meritano che il nome di bestie da soma.

Con. Sì, principe, si può dire che sia il cavallo più destro e più esperimentato che esista.

Del. È il re dei cavalli; il suo nitrito somiglia alla voce imperiosa d’un monarca; il suo portamento maestoso costringe a rendergli omaggio.

Orl. Basta su di ciò, caro cugino.

Del. Non basta ancora: converrebbe non avere ombra di senno per non poter cantare le lodi del mio cavallo senza ripetizioni, dall’alzarsi dell’allodola fino al coricarsi dell’agnello: tutti i grani dell’arena cambiati in lingue eloquenti non basterebbero a farne il panegirico. Soggetto è cotesto inesauribile come il mare, e degno di alimentare i pensieri d’un sovrano: tutto il mondo noto ed ignoto dovrebbe ammirarlo. Feci l’altro giorno un sonetto che correva così: Oh di natura meraviglia.....

Orl. Ho veduto una composizione per un’amante che principiava nel medesimo modo.

Del. Avranno imitata quella che feci pel mio corsiero; perchè il mio corsiero è la mia amante.

Orl. La vostra amante porta bene.

Del. Me solo però; lo che fa il più bell’elogio e la maggior perfezione di una vagheggiata.

Con. Ma foi! mi parve l’altro giorno che la vostra amante vi facesse scuotere malamente il dorso.

Del. Così forse fece la vostra.

Con. La mia non è imbrigliata.

Del. Oh! sarà dunque vecchia e scipata; e voi la cavalcherete come i Kerni d’Irlanda a dorso nudo e in mutande.

Con. Si vede che siete perito nell’equitare.

Del. Guardatevi quindi da me; coloro che cavalcano senza esperienza arrischiano di cader nel fango. Meglio mi piace lo avere un cavallo per ganza.

Con. E a me più piacerebbe che la mia amante fosse una rozza.

Del. Ti dico, Contestabile, che la mia amica porta i suoi capelli. [p. 338 modifica]

Con. Potrei vantarmi dell’istesso bene, se avessi anche una troia per amorosa.

Del. Le chien est retourné à son propre vomissement, et la truie lavèe au bourbier; tu fai uso d’ogni cosa.

Con. Ma non cambio il mio cavallo in una amante, nè avvero in me altri proverbi di simil fatta.

Ram. Signor Contestabile, son stelle o soli quelli che stan colpiti sull’armatura, che ho veduta questa sera nella vostra tenda?

Con. Stelle, signore.

Del. Qualcuna d’esse cadrà dimani, io spero.

Con. E nondimeno il mio cielo non ne sarà mai mancante.

Del. Può essere, perchè ne avete tante di superflue; e ben vi farebbe più onore il possederne di meno.

Con. E come il vostro cavallo a cui date così grandi lodi e che non meno galopperebbe, quando anche qualcuna delle vostre iperboli gli fosse tolta.

Del. Così fossile abile a lodarlo com’ei merita! Non spunterà mai il dì? Vuo’ trottare dimani per un miglio e vuo’ che il mio cammino sia selciato di teste inglesi.

Con. Io non dirò così, per tema che non mi si facesse l’ingiuria di smentirmi: ma vorrei di tutto cuore che aggiornasse, per ben sferzare le orecchie di quegli isolani.

Ram. Chi vuol correre il rischio con me di far loro una ventina di prigionieri?

Con. Bisogna che vi avventuriate voi stesso al pericolo di divenirlo.

Del. È mezzanotte: vado ad armarmi. (esce)

Orl. Il Delfino è anelante del dì.

Ram. Ei muore dal desiderio di mangiare gl’Inglesi.

Con. Credo che vorrà mangiare tutti quelli che uccide.

Orl. Per la bianca mano della mia donna! è un valoroso principe.

Con. Giura pel di lei piede, ond’ella possa varcare con un passo il giuramento.

Orl. Tutto ciò che si può dire di lui, è che in Francia non v’è uomo più operoso.

Con. E la sua operosità si mostra sopratutto equitando.

Orl. Ei non fece mai male ad alcuno che io udissi.

Con. Nè ad alcuno ne farà dimani; ei vorrà serbar sempre il suo buon nome.

Orl. So che è prode. [p. 339 modifica]

Con. Ciò mi fu detto da uno che lo conosce meglio di voi.

Orl. Chi dunque?

Con. Egli stesso; e aggiunse che non gl’importava si palesasse.

Orl. Ei non ne ha bisogno; non sono occulte le sue virtù.

Con. In fede, signore, lo sono. Niun uomo mai lo vide all’opera, fuorchè il suo lacchè: il suo valore è simile a quello di un falco spennato; allorchè lo si lancierà si vedrà il suo volo.

Orl. La maldicenza non dirà mai bene.

Con. A proverbio, proverbio: l’amicizia non sa che adulare.

Orl. Un altro ve ne dirò: sia reso anche al diavolo il suo debito.

Con. Ben detto; onde ecco il vostro amico nella schiera diabolica, per cui si potrà aggiungere: venga la peste al diavolo.

Orl. Voi dovete vincerla in fatto di proverbi, perocchè suol affermarsi che la pietra del pazzo è ben presto lanciata.

Con. Non mi avete colpito.

Orl. Non è la prima volta che vi sottraete ai colpi. (entra un messaggiero)

Mess. Alto Contestabile, gl’Inglesi sono a mille passi dalla vostra tenda.

Con. Chi ha misurato lo spazio?

Mess. Monsieur Grandpré.

Con. Un prode ed esperto gentiluomo. — Spuntasse il dì! — Oimè, povero Enrico d’Inghilterra! — Ei non anela alla luce come facciam noi.

Orl. Qual misero e folle uomo è questo re d’Inghilterra, per venire coi suoi stupidi Inglesi così lungi dai luoghi a lui noti!

Con. Se gl’Inglesi avessero un po’ di senno, fuggirebbero.

Orl. È quello di cui mancano; altrimenti, ove le loro teste fossero fornite d’un’ombra d’intelletto, non mai vorrebbero portar elmi così pesanti.

Ram. Quell’isola d’Inghilterra produce generose creature; i loro cani sono di un coraggio indomabile.

Orl. Cagnuoli da riderne! che corrono nella bocca di un orso russo senza avvedersene, e si fanno romper il capo come cosa di vetro. Voi potete dire ancora che è una mosca coraggiosa quella che ardisce asciolvere sulle labbra d’un leone.

Con. Giusto, giusto; e gli uomini di quel paese somigliano un poco ai loro cani nella rozza e brutale maniera con cui investono, e con cui lasciano i loro spiriti colle loro mogli: perciò date loro a mangiare bovi arrostiti, poi provvedeteli di scudo e di spada, e divoreranno come lupi, combatteranno come diavoli. [p. 340 modifica]

Orl. Sì, ma questi poveri Inglesi sono in gran difetto di vivande.

Con. Allora vedremo dimani che non agogneranno che a mangiare senza combattere. È tempo d’armarci: andiamo?

Orl. Son due ore: prima che le dieci suonino, ognuno di noi avrà in poter suo un centinaio d’Inglesi. (escono)






Note

  1. Frase che al tempo di Shakspeare significava: saper sopportare gli affronti.
  2. Questa scena è scritta in francese.
  3. De invece di The che solo gl’inglesi san pronunziare a dovere.
  4. Che colla s vuol dir peccato.
  5. I due o in inglese fanno u, e le due signore, come già si è detto, parlano in francese. Ciò per maggior spiegazione di quello che vien dopo.