Il Governo Pontificio o la Quistione Romana/Capitolo 6

Capitolo 6

../Capitolo 5 ../Capitolo 7 IncludiIntestazione 17 novembre 2020 75% Da definire

Capitolo 5 Capitolo 7
[p. 45 modifica]

CAPITOLO VI


La classe mediana.


La classe mediana è in ogni luogo e in ogni tempo il fondamento dello Stato. Sta in essa non solo ricchezza ed indipendenza, ma capacità e moralità del popolo. La borghesia volge i passi liberamente inverso un avvenire fortunato e cospicuo fra l’aristocrazia, che fuma di orgoglio nel non far nulla, e la plebe, che s’arrovella per non perire affamata. Il nobile or ha temenza, ora dispetto del progresso; il popolo va, per manco d’intendimento, spesso restio, come bestia quand’ombra; solo la classe media vi tende per irresistibile istinto, anche a rischio degl’interessi suoi più cari. Una cima d’uomo di Stato, che vuolsi giudicare dietro le sue dottrine e non dopo gli eventi, il signor Guizot, ne ha posto sott'occhi l’impero romano andato a sfascio per non avere avuta borghesia, volgente il secolo quinto dell’era nostra. E non veggiam noi con quale vigoria di progresso Francia grandeggi di giorno in giorno dalla rinvollura borghese del 1789 al presente?

Alla borghesia pertanto il privilegio degli utili rivolgimenti; ad essa l’onore di [p. 46 modifica]reprimere i turbamenti dei Ciompi ed i tumulti degli Straccioni.

Tal classe, che dall’un canto è l’erede legittima del potere che si arrogano i Papi, e dall’altro l’avversario nato delle follie mazziniane, avrebbe ad essere numerosa e forte nel paese che stiamo studiando.

Ma la casta sacerdotale, che pone il fatale principio del poter temporale sopra qualsiasi interesse dell’umano consorzio, nulla ha cui con maggiore conato intenda quanto abbassare od anco spegnere la classe mediana. E per necessario discorrimento, la opprime di pesi, senza chiamarla a parte dei beneficii; non le accorda carica od impiego, per quantunque modesto, senza obbligarla a penosi sacrifizi; nulla neglige per istrappare le aureole che circondano le liberali professioni: la scienza e le arti adima al suolo, ed ogni sempre che alcuna cosa s’abbassa d’intorno a sé, la turpe landra estima di esser divenuta più grande.

Sistema questo che a Roma e nelle provincie del Mediterraneo ha attecchito; ma fatto mala prova di sè a Bologna e nelle provincie dell’Appennino. La borghesia nella prima capitale dello Stato vive miserella e scriata; nella seconda vive numerosa, agiata, inflessibile al potere. Ma le passioni malvage, assai più funeste alla compagnia degli uomini, che la ragionevole opposizione dei partiti, han progredito in senso inverso. E di vero, a Bologna, dove la borghesia è potente a [p. 47 modifica]raffrenarle, elle fan capolino di straforo; a Roma trionfano alla libera sopra la perdente borghesia. Di che séguita che Bologna è città di opposizione, e Roma città socialista; e quindi il prossimo movimento starà nei limiti di moderazione a Bologna, verserà sangue a catinelle a Roma. E questo è il guadagno della parte sacerdotale; ma a carne di lupo zanne di cane.

Nulla può dare il giusto concetto dello spregio in che i prelati, i principi, gli stranieri di rango, ed anche i servitori di Roma, hanno la classe mediana, o com’essi dicono, il mezzo ceto.

Il prelato ha di sode ragioni. Se é ministro, vede gli uffizi gremiti d’impiegati tolti dalla borghesia. E ben sa che cotesti uomini operosi ed intelligenti, ma poco retribuiti, veggonsi necessitati a compiere di celato alcun umile uffizio, tale che compilare il giornale d’un fittaiuolo, o recare in netto nel libro-mastro i conti ad un ebreo: di cui la colpa? Ei non ignora che non v’ha merito che tenga; ma per avanzar di posto, o crescere di stipendio, ha uopo porre il fronte nella polvere e pregare a mani giunte per mesi ed anni; o interporre sua moglie, se giovane ed avvenente. E noi avremo in dispregio cotesto infelice, e non piuttosto quei messeri in calzette pavonazze, i quali a tali estremi lo adducono?

Se monsignore è magistrato di un tribunal superiore, ad esempio, della sacra Rota, non [p. 48 modifica]dee stillarsi il cervello per apparar ragione; un individuo della media classe ha il compito di studiar per lui. Coteste secretario, od aiutante di studio o consuliore, è un fior di giureconsulto; chè a non perdersi nel labirinto delle cosi dette leggi pontificie, vuolsi uom provato e saputo; ciò non ostante, monsignorino, che si fa bello, come il corbaccio, delle dorate penne non sue, si argomenta d’impunemente ispregiarlo, modesto ch’egli ė, e senza speranza di più lieto avvenire. E qui pure, di cui la colpa?

Lo stesso prelato, che uscito appena di seminario giudica le cause in ultimia istanza, fa professione di avere a vile gli avvocati. Confesso che mi commuovono le viscere cotesti malaugurati sacerdoti di Temi, i quali scrivono per ciechi, favellano a sordi, sciupano le suole delle scarpe aggirandosi negl’intricati sentieri della procedura rotale. Ma meritano tutt’altro che sfregi, dotti che sono e spesso eloquenti. I signori Marchetti, Rossi e Lunati potrebbono deitare di belle arringhe, se non fossero di altro occupati. Perché credo, nè credo di creder male, che i monsignori, per celare la tema che loro ispirerebbe il costoro merito, facciano viste di sberteggiarli, come chi allunga le braccia per non cader bocconi. Cosi è avvenuto che taluno di essi sia stato messo al confino; altri ridotto al silenzio ed alla miseria. Antonelli cardinale diceva al signor di Grammont: «Gli avvocati erano una delle piaghe nostre, che cominciammo a [p. 49 modifica]rimarginare. Se potessimo di presente sbrattarci degli uomini di uffizio, tutto camminerebbe co’ piedi suoi.» Stiamo a speranza che s’abbia presto a trovare alcun burocratico macchinismo capace di supplire al lavoro dell’uomo!

I principi romani dispettano la classe mediana. Il medico che ne ha cura e che li sana pertiene a cotesta classe. Ma avvegnadiochè abbia fisso stipendio, lo spregio viene come giunta alla carne: spregio, peraltro assai magnanimo, del padrone pel cliente. Allorchè à Parigi l’avvocato piatisce la causa d’un principe, questi dicesi ed è cliente: in Roma è l’avvocato.

Ma sopra il fittaiuolo od il mercatante di campagna cadono gli scrosci più terribili del principesco dispregio. Eppure debbo dar loro ragione.

Il mercatante di campagna è uom da nulla; onesto, intelligente, operoso, ricco. Ei prende a fittanza qualche migliaio di ettare a dissodare, che il principe ignorante ed impotente lascerebbe incolte. Su questi nobili terreni il fittaiuolo fa vagar senza rispetto sue mandrie di buoi, di vacche, di cavalli e di montoni. Talora, se la scritta nol vieta, ei pone a lavoro buona parte del suolo e vi semina frumenlo. Sopravvenuta la state, mille o mille e dugent’uomini, discesi da’ monti, invadono la terra del principe in servizio del fittaiuolo. Falciano la messe, battonla sull’aia, raccolgonla in covoni e pagliai, o la recano nei [p. 50 modifica]granai. Dall’alto verone del suo castello il principe vede ogni cosa, e apprende che sulla sua terra un uom di mezzo ceto, un uomo che ha sempre gli arcioni inforčati del suo cavallo, ha raccolto tante sacca di grano, che fanno tante sacca di scudi. Il mercatante di campagna viene ei stesso a confermar la novella versando in moneta sonante il fitto convenuto. Alcuna fiata ei paga più annualità in anticipazione senza alcuno sconto. Or non vi par ella impertinenza cotesta difficile a tranghiottire? E per arrota, il fittaiuolo é civile, a modo e per bene, e più istrutto del principe: egli destina più ricca dote alle sue figliuole, e comprerebbe tutto il feudo del principe pel suo figliuolo, se quegli fosse condotto a venderlo. La coltura in mani siffatte minaccia la proprietà dei grandi: cosi almeno la pensa il principe. La loro mania di continuo lavorare è grave perturbazione della solenne calma romana. Le ricchezze ch’eglino acquistano per punta di talento e di operosità recano grandissima offesa alla ricchezza morta, che è la base dello Stato e l’amministrazione del Governo. V’è di vantaggio: il mercatante di campagna, il quale non è prete, ed ha donna e figliuoli, vorrebbe porre le mani nelle faccende per la ragione ch’ei governa a maraviglia le proprie? Ei gridare agli abusi, riclamare rifornie? Quale temerità! Lo si scaccerebbe via, come un avvocato, se le industrie sue non fossero al paese necessarie, e se non [p. 51 modifica]si corresse pericolo di affamare una contrada, ponendo un uomo alla porta.

Ma cotesti speculatori di coltura sono per soprammercato saliti in potenza. Uno di essi, nel 48, sotto il regno di Mazzini, lorché per manco di pecunia cessarono le opere pubbliche, fe ’ terminare a sue spese il ponte della Riccia, che si conta fra le più leggiadre opere del tempo nostro. E pure il valentuomo ignorava se il Papa sarebbe tornato al Vaticano, ed avrebbe rimborsato le spese. Questo s’addimanda farla da principe, usurpare spudoratamente un compito che non è della sua casta.

Ma io, che non ho la ventura d’esser principe, non ho ragione al mondo per tenere in conto di veri nonnulla i mercatanti di campagna; ed in quella, ne ho di belle e di buone per tributar loro stima sincera. Ho, per verità, scôrto in essi intendimento non disgiunto da bonarietà, e per aggiunta, assai di cuore; tipo di borghesi, nell’accezion migliore della voce. Solo mi duole che sieno pochini nè posti in condizion libera.

Fossero soli duemila, ed il cosi detto Governo lasciasseli a loro buona voglia operare, la campagna romana prenderebbe in pochi mesi altro aspetto, e la febbre della mal’aria altra via.

Gli stranieri che han vissuto in Roma più o meno a dilungo fanno bordone ai principi nel favellare in tuon sprezzante della borghesia. Ed io, il quale diedi in ciampanelle con essi, sono in grado di chiarire la cosa. [p. 52 modifica] Hanno essi abitato stanze mobigliate, la cui padrona fu per avventura tenera di cuore (che la verità s’ha a dire) con essi. Or, cotesta morbidezza di cuore non è pregio di poche, e sia. Ma chi può chiedere che il mezzo-ceto abbia a prendere pensiero del costume di povere femminette o di qualche landra spudorata? Certo è poi che simili taccherelle macchiano pure le femmine parigine; ciò non ostante niuno leva la voce contro la borghesia francese, e bene adopera.

Hanno essi avuto a fare col commercio di Roma, e certo debbono averlo riconosciuto male organato per la ragion lampante che i capitali scarseggiano e le istituzioni del credito pubblico sono a pezza minori dell'uopo. Urta per verità nei dì carnescialeschi vedere bottegai ed erbivendole andare aiati in cocchi sfoggiati o nei primi palchetti dei teatri: ma di tal fatto inconsiderato, che meriterebbe bottoni di fuoco? Lo esempio alla romana borghesia è fornito dalle caste superiori: chè la rogna la viene in sul capo.

Hanno essi consultato un medico nella farmacia, e sonosi imbattuti in un ignorante, sfortuna certamente, ma non indigena di Roma, chè ciuchi sono dovunque; ne poi la classe de' medici nel regno zoologico componsi di aquile. O credete che i Baroni (i quali onorano in un medesimo Roma, Italia ed Europa ) s’incontrino, come i funghi, ad ogni passo? Che se, continuando la metafora ( e come obbliare il padre [p. 53 modifica]Decolonia?), di funghi più sia copia in Roma che a Parigi o a Bologna, sovvengavi che gli studi medicali, mercè le paure dei teologhi, procedono costi impastoiati, come Dio vel dica. Non obblierò mai le molte risa in che scoppiai ponendo piede nell’anfiteatro anatomico di Santo-Spirito: il cadavere da notomizzare per lo studio degli allievi avea una parte ascosa con foglia di vite! Mi corse alla memoria babbo buonanima nel Paradiso terrestre col perizoma a foglie di fichi d’India, se non prendo granchio.

In cotesta terra di castimonia e misoginia, nella quale i pudibondi pampini s’intrecciano a tutti i rami della scienza, un laureato in chirurgia, impiegato in certo spedale, mi assicurò ch’ei non avea veduto, durante il primo corso di notomia, mamme di femmina. «Abbiamo, soggiunsemi, dottorati a subire, teorico l’uno, l’altro pratico. Tra questo è quello intercaliamo alquanto di esercizio negli spedali, siccome vedete. Ma il monsignore ( e dove non cacciansi monsignori? ) che sopravveglia i gravi studi nostri non consentirebbe che uno di noi assistesse al parto, innanzi di aver subito il secondo esame, ed ottenuta facoltà di pratica: temono gli scandali i monsignori! Noi sgraviamo delle bambole, o fantocci di cenci per addestrar la mano. Fra sei mesi, ottenuti i gradi accademici, esercirò chirurgia, e sgraverò quante occorrerannomi femmine, senz’averne mai veduta una sola.» [p. 54 modifica] Gli artisti romani potrebbero per amor di gloria e d’indipendenza pagar lo scotto a chicchessia, se meglio fossero allevati. Chè, vivaddio, la razza italiana non è poi dischiattata, siccome vociferano i suoi detrattori, nemici o padroni, torna lo stesso, ed ha ingegno pronto per ogni maniera di arti-belle. Ponete in mano a garzonetto quindicenne un pennello: in men che non pensate, ei diventa sperto dell’operare a colori; e in tre o quattro anni de proprii lavorii campa la vita; peccato che costi s’arresti! Perchè, se tapina quanto gli allievi di Raffaello, non raggiunge quelli di Niccolò Galimard? La colpa a cui tocca: è nato in Roma: a Parigi sorgerebbe forse ai primi seggi dell’arte. Inanimite i giovani con concorsi, esposizioni, consigli, premii; cose che per noi se ne hanno a misura di carbone, e ch’essi conoscono per udito: non obbligateli ad ascoltar la fame, che è suasura di rei propositi: perchè al passar degli stranieri per l’eterna Città, eglino, che mercano pane, non fama, in quattro di vi daranno una copia dell’Aurora di Guido o della Trasfigurazione dell’Urbinate ridotte a piccola dimensione; e poi si rimetteranno sullo stesso lavoro che condurranno con gli stessi ordini, e che venderanno per gli stessi motivi. Che se qualche ambizioso intraprenda opera originale, a cui domanderà se ella è bene o malamente condotta? Nulla ne intende la classe regnanto, nulla i principi. Il proprietario di [p. 55 modifica]una delle più belle pinacoteche romane diceva, or fa un anno, nel salotto d’un ambasciatore: «Per me, io non ammiro che lo squisito.» Il principe Piombino, allogando una volta al signor Gagliardi, voleva pagare il pittore tanto per giorno! Il Governo ha altro per lo capo che incoraggiare le arti; que’ pochi diarii o gazzette che sono nelle mani di numerati lettori, registrano i nomi de’ loro amici cui goffamente incensano: nè gli stranieri che vanno e vengono, comecchè forniti di buon gusto, compongono un arbitrato artistico come a Parigi, a Monaco, a Dusseldorf, a Londra, dove la popolazione istrutta direbbesi un solo individuo, un uomo a mille teste. Quando un giovane di bella speme ha scosso la sua attenzione, esso nol perde di veduta, nė vi ha accorgimenti che non adoperi per incuorare chi addimostrisi timido, ritornare in carreggiata i fuorviati, approdare a tutti. E se da talvolta in scerpelloni, l’azion sua è però sempre vitale.

Se di alcuna cosa maraviglio, ella è di imbattermi in Roma in varii artefici cospicui, tali che il Tenerani nella statuaria, il Podesti nella pittura, il Castellani nell’oreficeria, Calamatta e Mercuri nell’incisione: cito i più noti. Ma la maggior parte dei rimanenti romani artefici languisce in una specie d’industria monotona e di vilissimo commercio, per manco d’incoraggiamento; sprecando metà del tempo a ricopiar copie, e l’altra ad approntare articoli per gli stranieri. [p. 56 modifica] Insomma io avevo meco recato da Roma della classe media ben picciol concetto. Artefici illustri, avvocati ingegnosi nė scemi di coraggio, medici sapienti, ricchi e ben veggenti fittaiuoli, quanti a contarli sulle dita le due mani sarebber soperchie, non bastano, secondo mio avviso, a costituire una borghesia; son dessi una eccezione. Ed avvengachè non v’abbia nazione senza borghesia, di qui il mio timore di riconoscere in ultimo, che punto non v’abbia nazione italiana.

Nelle province del Mediterraneo là borghesia non parvemi in più florido stato che a Roma; perchè gli individui della classe mediana semiborghesi e semivillici sono soppozzati in fitta ignoranza. Mezzi al vivere hanno quanti bastano a tenerli, senza abbrustiarsi al sole, in male arredate dimore, ove la noia filtra dalle pareti. I rumori d’Europa che potrebbero destarli, sostano alla frontiera, è la dogana intercetta le novelle idee che potrebbero fecondarne lo spirito. Se cosa leggono, è il Casa Mia o il Giornale di Roma, che narra in stile anfanato le passeggiate del Papa. La vita di tali cittadini sta chiusa nel mangiare, bere, dormire e prolificare aspettando la morte.

Ma di là degli Appennini cammina d’altro passo la bisogna: non il borghese discende a livello del contadino; ma si questi sorge all’altezza di quello. L’uomo e le terre immegliano mercé l’ostinato lavoro; il [p. 57 modifica]contrabbando delle idee, tuttodì più vigoroso si beffa delle dogane: la presenza degli Austriaci aizza il patriottismo, la gravezza delle imposte inasprisce il senso comune, e quindi tutte le frazioni della classe media, avvocati, medici, mercatanti, coltivatori, artefici, si ricambiano il malumore, gli sdegni, le idee, le speranze. La barriera dell’Appennino, che separali dal Papa, ravvicinali all’Europa ed alla libertà. Non mi son mai accontato con un borghese delle Legazioni senza aver detto, soffregandomi le mani: E pure vi ha nazione italiana.

Viaggiando tra Bologna e Firenze nel Corriere, mi trovai in compagnia di un giovane che, giudicato dal gusto squisito del suo abbigliamento, presi in sulle prime per inglese. Appiccatosi fra noi animato favellare, si giusto esprimevasi il nuovo compagno nel mio idioma, che pensai esser con un compatriota. Ei nell’infrattanto cosi mi parlò d’Italia, della sua coltura, industria, commercio, giustizia, amministrazione e politica del suo paese, che ebbi a ravvisare in lui un italiano, e bolognese. Ciò che massimamente in esso ammirai non era l’estensione e la varietà di sue cognizioni, né la dirittura dell’animo, si la nobiltà dell’indole e l’ammodamento del suo linguaggio. Sotto ciascuna parola s’ascondeva altissima stima della dignità di sua patria; cocente dispiacere di mirarla disconosciuta e abbandonata; ferma speranza nella giustizia d’Europa in [p. 58 modifica]generale, in quella d’un gran principe in particolare: felice connubio di fierezza, melanconia e soavità, che m’incielo. Nė Pápa odiava nè altri, parendogli che i preti si governassero a filo di logica, abbenchè esiziali al paese: nè sognava vendette, ma emancipazione.

Appurai tre mesi dipoi, che cotesto gioiello di compagno di viaggio era uomo del mezzo ceto, e che Bologna ne aveva non pochi.

Ma io avevo già scritto nel mio taccuino quest’esse parole, datate dal cortile delle Poste, in piazza del Granduca a Firenze:

«Vi ha Nazione Italiana. Vi ha Nazione Italiana. Vi ha Nazione Italiana.»