Gli artisti romani potrebbero per amor di gloria e d’indipendenza pagar lo scotto a chicchessia, se meglio fossero allevati. Chè, vivaddio, la razza italiana non è poi dischiattata, siccome vociferano i suoi detrattori, nemici o padroni, torna lo stesso, ed ha ingegno pronto per ogni maniera di arti-belle. Ponete in mano a garzonetto quindicenne un pennello: in men che non pensate, ei diventa sperto dell’operare a colori; e in tre o quattro anni de proprii lavorii campa la vita; peccato che costi s’arresti! Perchè, se tapina quanto gli allievi di Raffaello, non raggiunge quelli di Niccolò Galimard? La colpa a cui tocca: è nato in Roma: a Parigi sorgerebbe forse ai primi seggi dell’arte. Inanimite i giovani con concorsi, esposizioni, consigli, premii; cose che per noi se ne hanno a misura di carbone, e ch’essi conoscono per udito: non obbligateli ad ascoltar la fame, che è suasura di rei propositi: perchè al passar degli stranieri per l’eterna Città, eglino, che mercano pane, non fama, in quattro di vi daranno una copia dell’Aurora di Guido o della Trasfigurazione dell’Urbinate ridotte a piccola dimensione; e poi si rimetteranno sullo stesso lavoro che condurranno con gli stessi ordini, e che venderanno per gli stessi motivi. Che se qualche ambizioso intraprenda opera originale, a cui domanderà se ella è bene o malamente condotta? Nulla ne intende la classe regnanto, nulla i principi. Il proprietario di