Il Governo Pontificio o la Quistione Romana/Capitolo 5
Questo testo è completo. |
◄ | Capitolo 4 | Capitolo 6 | ► |
CAPITOLO V.
La plebe.
I sudditi del Padre santo sono divisi, per nascita e per censo; in tre classi ben distinte: nobili, borghesi, plebei. L’Evangelio ha obliato di consacrare l’ineguaglianze umane: ma, vivaddio! che la legge dello Stato pontificio, ciò è dire, il voler dei Papi, ha colmo il vuoto. Benedetto XIV, nella bolla del 14 gennajo 1746, dichiaravale orrevoli e salutari, e Pio IX ne ha ricalcato le orme nel principio del suo chirografo del 2 maggia 1855. Fra le classi sociali non annovero la cheresia, perchè ella è straniera alla nazione
per interesse, per privilegi, sovente per origine. Cardinali e prelati, a imberciar nel segno, non sono sudditi del Papa, sì affini in Dio, e colleghi, proporzionatamente, della sua onnipossanza.
La division delle classi, che a misura che l’uom dilunga dalla sorgente (come ogni altro abuso), menoma, fa sfoggio di sé in Roma dattorno al soglio pontificio.Un abisso sta fra il patrizio ed il borghese romano, un abisso fra questo ed il plebeo, il quale, da suo canto, sdegnato dello spregio che le due caste superiori gli versano a man piena sul capo, ne getta alcuno sprazzo sui villici che vanno a mercato; carità di tigri. In Roma, merce le tradizioni della storia e la educazione papesca, chi è da meno crede uscir dal proprio nulla e divenir un gran fatto, sol che mendichi il favore e l’appoggio di un superiore. Il sistema di patronato e di clientela fa piegare il ginocchio al ’plebeo nanti al borghese, al borghese nanti al principe, al principe nanti al clero-sovrano. A cento chilometri da Roma non s’inginocchiano guari; di là dagli Appennini, punto. A Bologna, a mo’ d’esempio, ammirasi nel costume eguaglianza spartana: perché i suoi abitanti veder, grazie ai monti, Roma non ponno.
Il valore assoluto degli uomini di ciascun ordine cresce nel modo stesso secondo il quadrato delle distanze. Voi potete sodare che un nobile romano (fatta eccezione de’ buoni, che però si posson tenere chiusi in pugno) è manco istrutto, abile e libero che un gentiluomo delle Marche e delle Romagne. La classe mediana, non tenuto conto di alcune eccezioni di cui vi parlerò fra poco, è assai più numerosa, più ricca, più fiorente a levante degli Appennini che nella capitale e nei dintorni. Gli stessi plebei dannosi a vedere più onesti, secondo che vivono a maggior distanza dal Vaticano.
I plebei della Città eterna sono fanciullacci male allevati, dal costume variamente pervertiti; ed il Governo che, stando in mezzo ad essi, conosceli e temeli, usa a dolcezza con essi. Di lieve imposte li gravita, sollazzali con spettacoli, e talvolta loro dà pane: panem et circenses. Loro non insegna leggere; ma non vieta il mendicare ed il lotto. Manda cappuccini a domicilio; il frate tarchiato dà numeri pel lotto alla moglie, trinca a garganella col marito, forma i bimbi, e talvolta presta aita alla fabbrica. Ne i romani plebei paventano la fame al segno di averne a morire; se mancano di pane a casa, se ne provveggono, senz’obolo sborsare, nella gerla del fornajo, consentendolo la legge. Da essi null’altro si chiede, se non che siano buoni cristiani; che s’inchinino riverenti ai preti, che s’umiliino innanzi ai grandi, che ai facoltosi cedano la mano, e sopratutto, che si guardino, come dal finimondo, dal sorgere in turbamenti politici. Pene sono ad essi statuite se ommettono il precetto pasquale, o se prendono a sberteggiare i Santi ed i loro miracoli. Il tribunale del Vicariato su questo capitolo non accorda tregua; per ogni resto la polizia fa vista d’essere scema d’un occhio, e sorda in ambo gli orecchi. Il delitto è spesso ad essi perdonato; ma guai se loro saltasse il ticchio di conquistare un pochissimo di libertà, se osassero dire qualche parola a strappo contro un abuso, se sentissero e ne dessero cenno altrui di essere uomini!
Il perchè meco stesso meraviglio pensando che dopo siffatta educazione non sieno in più miserevole condizion traboccati. La più abbietta parte di popolo è quella che abita il Rione dei Monti. Se andando, a mo’ d’esempio, a cercare il convento dei Neofiti, o la casa di Lucrezia Borgia, v’avvenite fra cotesti chiassuoli, cospersi d’immondezze, non n’uscirete prima d’aver tocco del gomito centinaia di perduti, ladri, scrocconi, suonatori di mandolino, modelli, accattoni, ciceroni, ruffian, baralli, e simile lordura. Che se avete a trattar con essi, vi daranno dell’Eccellenza, vi baceranno la mano, e nell’infraltanto vi ruberanno il moccichino o l'oriuolo. Niente di peggio nelle più popolose città d’Europa, non esclusa Londra. Del resto sono tutti praticanti, senza credere punto in Dio; ma la polizia va rimessa, e raro inquietali, chè nullo avria a farvi guadagno. Se sono talvolta sostenuti, una commendatizia o l'angustia del carcere che non può capirli sono motivi per essere ridonati alla libertà. I loro vicini, buoni operai, trascinati dall’esempio, fuorviano anch’essi: i loro ingordi guadagni del verno, secondo la costumanza, sono sfumati nel carnesciale. Giunge la state; gli stranieri partono a stormi, il lavoro manca, manca la moneta. L’educazion morale, che potrebbe incuorarli, non esiste. La mania dell’apparire (malattia indigena ed appiccaticcia ) li pone in guai; le donne fan mercato di sè per danaro, gli uomini corrono agli eccessi.
Ma non denno essere giudicati con soverchia severità cotesti poveri plebei: ricordivi che nulla han letto, che non han messo piede fuori delle mura di Roma, che lo esempio del fasto sfolgorato ad essi vien pôrto dai cardinali, l’esempio di mala condotta dai prelati, l’esempio della venalità dai funzionarii e magistrati, l’esempio dello sperpero dal ministro della finanza. Ricordivi che grande cura sonosi data di sbarbicare dal loro cuore, quasi fosse erba velenosa, ogni nobiltà di sentimento dell’umana dignità, che è il vero barbacane della virtù.
A voler essere giusti, si dee dire che il sangue che scorre nelle vene della razza italiana sia di tempra assai generosa, se una parte notevole della plebe romana ha potuto serbar orma di virtù fra cotanto rovinio di vizii. Ho io incontrato nel Rione di Trastevere uomini semplici, grossieri, violenti, talvolta, terribili; ma uomini davvero, apprensivi pel loro onore fino al segno di uccidere su due piè colui che si attenti di offenderlo. Ignoranti come gli abitanti dei Monti, con le stesse lezioni e coi medesimi esempii addottrinati, hanno pari imprevidenza, pari desiderio dei piaceri, brutalità pari nelle passioni; ma non si piegano se non forse per sollevar di terra il pugnale che loro guizzò dal seno, e di cui, come sposa dal monile, mai non si dividono.
Governo degno di governare farebbe suo pro di tanta vigoria naturale. Ammansirebbela dapprima, drizzerebbela dipoi a fine laudabile. V’ha chi adopera a maraviglia il pugnale nelle taverne, che emulerebbe i Ferrucci nei campi di battaglia. I Trasteverini non sono teneri nè di Dio nè del Governo, nè di religione nè di politica; è ciò che da essi unicamente vuole il paterno governo, il quale ne guiderdona la docilità comportando che si sgozzino fra loro.
Ma ne Trasteverini nè Montigiani hanno alito di vita politica; di che i cardinali ingalluzziscono, maravigliati d’aver tenuti tanti è si fieri uomini nella ignoranza completa di tutti gli umani diritti. Ma è poi tutt'oro ciò che luccica? Poniamo caso che un messo dei comitati democratici di Londra o di Livorno giunga nella capitale del Papa a far proseliti: un plebeo di buona pasta, ma non privo di discorso, penserebbe due volte innanzi di scarabocchiare nell’albo di aggregazione il suo nome, e forse rimarrebbe nella scelta peritoso. Ma la bordaglia dei Monti saria tosto inuzzolita alla immagine di un tafferuglio: e la fierezza dei Trasteverini si scatenerebbe all’idea di un attentato all’onore. Meglio metterebbe aver popolo discorsivo, comecchè non bene affetto: il Papa avrebbe spesso a discendere per trattar con esso; ma non mai a tremare innanzi ad esso.
E tenga Iddio lontano il tristo augurio. La plebe romana si lasciò andare alle arti seduttrici dei mestolatori del 1848, abbenché il nome di repubblica nei tempi moderni suonasse nuovo al suo orecchio. E lo ha ora dimentico? Risponda in coro Antonelli e Nardoni. Quel nome magico, la cui mercè i grandi erano stati pareggiati ai piccioli, le sta fiso in cuore: E intanto i mazziniani non radunano operai nel Rione Regola per insegnar loro a mondar nespole, e piegare la cervice ai preti.
I villici, comecchè spregiati dalla plebe romana, anche nel piovente del Mediterraneo non son punto di spregi meritevoli; chè gl’influssi vaticani poco han potuto su di loro. Son dessi infelici, ignoranti, creduli, rubesti, ma retti, ospitali e generalmente onesti. Per conoscerli da vicino conducetevi in alcuno dei paeselli della provincia di Frosinone, ad esempio. Traversate le sterminate pianure deserte per mal'aria; seguite l’alpestro dirupato cammino dei monti; v’imbatterete in piccola città di 5000 a 10,000 anime che serve di dormentorio ad altrettanti villici. Di lontano la cupola di una chiesa, le ampie mura di una badia, la torre merlata di feudal castello vi fan credere che siavi del ben di Dio. Legioni di avvenenti fanciulle con anfore di rame in sulla testa discendono ad attignere alla fonte che polla sotto lo scoglio. Ma sta qui tutto: entrate nell’abitato; allo squallore, al silenzio, alla solitudine, vi credereste in mezzo a città abbandonata, se grandi cedoloni in sulle sudicie e affumicate pareti non testimoniassero di recente missione. «Viva Gesù! Viva Maria! Viva il sangue di Gesù! Viva il cuor di Maria! Bestemmiatori, tacete per amor di Maria!» Religiose sentenze che depongono a favore della bonarietà degli abitanti. Dopo un quarto d’ora di giri e andirivieni, si sbocca sulla piazza maggiore, ove una mezza dozzina d’officiali civili stannosi sbadigliando a canto fermo assisi presso ad una botteguccia da caffè. Sedete con essi, i quali vi chieggono in sul serio novelle di Luigi Filippo, e voi, per rimando, quale epidemia spopolo il paese: quando un paio dozzine di venditori e rivendugliole pongono in mostra, disposte a cerchio, le loro mercanzie, tali che frutta, legumi, insalate. Ma chi compera? Ecco i compratori. La notte s’avanza, e tutta la popolazione riede dal lavoro dei campi al riposo del tugurio. Bella e robusta popolazione, come saresti formosa al riguardante, ordinata in reggimenti di fanti od in isquadroni di cavalieri! Questi uomini, vestiti à mezzo, sono usciti due ore prima del levar del sole per sarchiare un campicello, o per altra bisogna agricola. Taluno ha il poderetto a cinque o sei chilometri dal villaggio: ed ei vi si conduce tutti i di col figliuoletto, col ciacco e col cane. Il maiale ed il cane sono stecchiti, l’uomo ed il fanciullo non sono tarchiati; e pure, l’aspetto loro è composto a soave letizia. Il padre compera dell’insalata ed una focaccetta di meliga che forniranno la cena della famiglia. Un sacco di paglia accoglierà al riposo le stanche membra. Se vi talenti seguirli alle loro case, vi pregheranno di cenar con essi. Povera ogni cosa nella casa; povera, come le case, la suppellettile della mente.
La donna attende alla porta il signor suo. Fra gli animali domestici la donna è quello che il villico romano meglio adopera d’ogni altro. Ella fa il pane e la galletta di meliga: fila, tesse, cuce; va tutti i giorni a provvedere legna a cinque chilometri e l’acqua a due e mezzo; réca in sulla testa il carico di un mulo; lavora dal sorger del di a notte senza piatire, e senza un lamento. I fanciulli che partorisce in buon numero, e si reca alla poppa, sonole di grande aiuto: imperciocchè all’età di quattr’anni li adopera alla custodia di altri animali.
Non chiedete a cotesti poveri campagnuoli che cosa pensino di Roma e del suo governo, chè parlereste arabo, Governo nel loro comprensorio è un gramo impiegato a 15 scudi il mese, il quale loro ministra e vende ciò che chiamasi giustizia: governo è il cumulo delle pesanti imposte su la casetta, sul campo, sulla famiglia, sugli animali, sul focatico e cosi via via; e dazii sul vino, sulla carne, quando avvien che ne cibino. Muovono doglianza, ma senz’ira, riguardando le imposizioni come gragnuola periodica sui loro raccolti. Se venissero a sapere che Roma fu distrutta da violente tremuoto, non ne prenderebbono affanno; e seguendo lor maniera di vegetazione, solo gioirebbero di minori imposie. È questo ritratto fotografico delle popolazioni delle campagne romane. Separati, senza commercio, senza industrie, senza affari, senza idee, senza vita politica: l’agricoltura è tutto; la vegetazione è nelle campagne come nelle famiglie, in agraria ed in zoologia; gli è un pien medio-evo.
Capitale non hanno cotesti poverelli che il Paradiso, a cui han fede, e sospirano con ogni lor possa. Vi è cui è grave pagare una tassa di dieci baiocchi; intanto ne spende venti per fare iscrivere sull’uscio di sua casetta: Viva Maria! Vi è cui paion troppi quei miseri (15 scudi del governatore o del priore; intanto corre volenteroso a pagare sua quota per sagginare dieci o quindici preti che han compito d’insegnare la modestia alle fanciulle. La fede compensali di tutti mali; chè se non basta a frenare loro il pugnale in mano, quando il razzente del vino infonde in cuore novella vita, bene è da tanto da vietar loro mangiar carni in venerdi.
Mirateli in giorno di festa solenne. Uomini, donne, bimbi tutti alla Chiesa. Fiori sono spanti per le vie; la gioia è nei volti. Oh che c’è egli ora? Che c’è? C’è sant'Antonio! Messa in musica in onor di sant’Antonio; una processione per festeggiar sant’Antonio; i bambini vestiti da angeli; gli uomini imbacuccati con vesti di loro confraternita: son costì i confrati del Cuore di Gesù; sono là quei del Nome di Maria; vengono dopo le anime del Purgatorio. Ma ecco, la processione si ordina; le file, dopo un po’ di parapiglia, si dispongono: alfin procede. Ma quando la statua di sant Antonio (che è un fantoccio dalle guance rosse) esce di chiesa, misericordia! turate gli orecchi: rimbombano i petardi, suonano a distesa le campane, gracchiano i preti, piangono le pinzocchere, gridano a piena gola i fanciulli: «Viva sant'Antonio!» La sera fuochi pirotecnici, un globo areostatico, dipintovi sopra sant’Antonio, qualche luminaria.... e poi, dopo tanta gazzarra, chi potrebbe lamentare il manco di pane? Chi non si crederebbe aver di catti?
Passiamo l’Appennino. La popolazione, comecchè non affaito differente da quella che abbiamo testè conosciuta, pure quanto ad essa innanzi! Costi gli uomini hanno uso di discorso. Se l’artiere delle città non è in lieto stato, egli ne indovina il motivo, e vi appon rimedio, quanto è da sè. Parimente se stremo di ricchezza è il colono, ei adopera col suo padrone modo di arricchire, e la coltivazion dei campi è in tanto progresso, che, fra non assai, non avrà più progresso a fare. E l’uomo alle prese con la natura ne approda; e coltivando il campo, coltiva insiem lo spirito.
Ma, per essere veritiero, ho da dire che in si belle provincie la religione vive scriata e stenta. Ho indarno cercato nelle città dell’Adriatico i cedoloni di Frosinone, di Fellettino o di Veroli: «Viva Gesù! Viva Maria!» che mi empieron l’animo di santa edificazione di là dai monti. A Bologna ho letto sonetti sui canti delle vie: sonetto al dottor Massarenti che guari la signora Tagliani; sonetto al giovane Guadagni nell’occasione di sua laurea... A Faenza, nelle pareti delle case, appresi nuova specie di entusiasmo per l’arte drammatica: «Viva la Ristori! Viva la divina Rossi!» ... A Rimini, a Forli bo letto:«Viva Verdi! Viva la Lotti! Vivano Ferri, Cornaro, Rota, Mariani! ed anche (ne chiedo perdono agli abbuonati all’Opera ): Viva la Medori!»
Lorchè visitai, dopo Ancona, la Santa Casa di Loreto che, come sapete, fu recata di Palestina, co’ suoi mobili, a spalla di angeli; vidi truppa di pellegrini entrare in chiesa trascinandosi ginocchioni, versando lacrime, e leccando con la lingua i mattoni. Pensavo, sgomento, che fossero paesani del vicinato: ma un operaio d’Ancona, ivi presente, mi sgannò. «Signore, disse, quei miseri che vedete abitano di là dell’Appennino, poichè vanno ancora in pellegrinaggio. Or fan cinquant’anni che noi abbiamo smesso; ma noi lavoriamo.»