I promessi sposi (Ferrario)/Capitolo XXVI

Capitolo XXVI

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CAPITOLO XXVI.



A una siffatta domanda, don Abbondio, che pur s’era ingegnato di risponder qualche cosa a delle meno precise, restò senza batter parola. E per verità, anche noi, con questo manoscritto dinanzi, con una penna in mano, non avendo da contrastare, che con le frasi, nè altro da temere, che le critiche dei nostri lettori; anche noi, dico, sentiamo una certa ripugnanza a proseguire; troviamo un non so che di strano in questo metter fuori, con così poca fatica, tanti bei precetti di fortezza e di carità, di sollecitudine operosa per gli altri, di sagrificio illimitato di sè. Ma, pensando che quelle cose erano dette da uno, che poi le faceva, tiriamo innanzi arditamente.

“Voi non rispondete?” ripigliò il cardinale. Ah, se aveste fatto, dalla parte vostra, ciò che la carità, ciò che il dovere richiedeva; comunque poi le cose fossero andate, [p. 27 modifica]avreste ora che rispondere. Vedete dunque e voi stesso che abbiate fatto. Avete obedita l’iniquità, non curando ciò che il dover prescriveva. L’avete obedita puntualmente: si era mostrata a voi, per significarvi il suo desiderio; ma voleva rimanere occulta a chi avrebbe potuto ripararsi da essa, e mettersi in guardia; non voleva che si desse all’arme, voleva il segreto, per maturare a suo agio i suoi disegni d’insidie o di forza; vi comandò la trasgressione e il silenzio: voi avete trasgredito, e tacevate. Domando ora a voi se non avete fatto di più; voi mi direte se è vero che abbiate mendicati dei pretesti al vostro rifiuto, per non rivelarne il motivo.” E stette alquanto, pure attendendo una risposta.

— Anche questa gli hanno rapportata le cicalone — pensava don Abbondio; ma in voce non faceva segno di aver nulla da dire; per lo che il cardinale continuò, “se è vero adunque, che abbiate detto a quei poveretti ciò che non era, per tenerli nell’ignoranza, e nell’oscurità, in cui l’iniquità li voleva... Dunque lo debbo credere; dunque non mi resta che di arrossirne con voi, e di sperare che voi ne piangerete con me. Vedete a che vi ha condotto (Dio buono! e pur e ora voi la adducevate come una [p. 28 modifica]giustificazione) quella sollecitudine per la vita del tempo. Vi ha condotto..... ribattete liberamente queste parole, se vi paiono ingiuste, prendetele in umiliazione salutare, se non lo sono...... vi ha condotto ad ingannare i deboli, a mentire ai vostri figliuoli.”

— Ecco come vanno le cose, — diceva ancora in sè don Abbondio: — a quel satanasso, — e pensava all’innominato, — le braccia al collo; e a me, per una mezza bugia, detta a solo fine di salvar la pelle, tanto romore in capo. Ma sono superiori; hanno sempre ragione. È il mio pianeta, che tutti mi abbiano a dare addosso; anche i santi. — E ad alta voce, disse: “ho fallato; capisco che ho fallato; ma che cosa aveva da fare in un frangente di quella sorte?”

“E ancor lo chiedete? E non ve l’ho io detto? E doveva io dirvelo? Amare, figliuolo; amare e pregare. Allora avreste sentito che l’iniquità può aver bensì delle minacce da fare, dei colpi da dare, ma non dei comandamenti; avreste unito, secondo la legge di Dio, ciò che l’uomo voleva separare; avreste prestato a quegli innocenti infelici il ministero che avevan ragione di ripetere da voi: delle conseguenze sarebbe stato mallevadore Iddio, perchè si sarebbe seguito [p. 29 modifica]il suo ordine: seguendone un altro, ne siete entrato voi mallevadore: e di quali conseguenze! Ma forse che tutti i ripari umani vi mancavano, forse che non era aperta alcuna via di scampo, quando aveste voluto guardarvi appena intorno, pensarci, cercare? Adesso, voi potete sapere che quei vostri poveretti, quando fossero stati maritati, avrebbero essi pensato al loro scampo, erano disposti a fuggire dalla faccia del potente, si avevano già disegnato il luogo di rifugio. Ma anche senza questo, non vi sovvenne dunque che avevate pure un superiore? Il quale, come mai avrebbe questa autorità di riprendervi dell’aver mancato al vostro uficio, se non tenesse obbligo di aiutarvi ad adempierlo? Perchè non avete voi a pensato ad informare il vostro vescovo dell’impedimento che una infame violenza poneva all’esercizio del vostro ministero?”

— I pareri di Perpetua! — pensava stizzosamente don Abbondio, a cui, in mezzo a quei discorsi, ciò che stava più vivamente dinanzi era l’immagine di que’ bravi, e il pensiero, che don Rodrigo era vivo e sano, e, un giorno o l’altro, tornerebbe glorioso e trionfante, e arrabbiato. E sebbene quella dignità presente, quell’aspetto e quel linguaggio, lo [p. 30 modifica]facessero star confuso, e gl’incutessero una tema; era però una tema che non lo soggiogava affatto, nè impediva al pensiero di ricalcitrare: perciò v’era in quel pensiero, che alla fin fine il cardinale non adoperava, nè schioppo, nè spada, nè bravi.

“Come non avete pensato,” proseguiva questi, “che, se a quegli innocenti insidiati non fosse stato aperto altro rifugio, io pur c’era, per accoglierli, per metterli in salvo, quando voi me gli aveste addirizzati, addirizzati dei derelitti ad un vescovo, come cosa sua, come parte preziosa, non dico del suo carico, ma delle sue ricchezze? E quanto a voi, io, sarei divenuto sollecito per voi; io, avrei dovuto non dormire, fin che non fossi sicuro che non vi sarebbe torto un capello. Ch’io non avessi come, dove, porre in sicuro la vostra vita? Ma quell’uomo che fu tanto ardito, credete voi che non avrebbe nulla rimesso dell’ardire, quando avesse saputo che le sue trame erano note fuor di qui, note a me, ch’io vegliava; ed era risoluto d’usare a vostra difesa tutti i mezzi posti in mia mano? Non sapevate che, se l’uomo promette, troppo spesso, più che non sia per attenere, minaccia anche, non di rado, più che non [p. 31 modifica]s’attenti poi di commettere? Non sapevate che l’iniquità non si fonda soltanto sulle sue forze, ma ben’anche sulla credulità e sullo spavento altrui?”

— Proprio le ragioni di Perpetua, — pensò anche qui don Abbondio, senza riflettere che quel riscontro singolare della sua serva e di Federigo Borromeo, a giudicar lo stesso di ciò che egli avrebbe potuto e dovuto fare, voleva dir molto contro di lui.

“Ma voi,” proseguì e conchiuse il cardinale, “non avete veduto, nè voluto vedere, che il vostro pericolo temporale; qual maraviglia che vi sia paruto tale, da metter per esso in non cale ogni altra cosa?”

“Gli è perchè le ho vedute io quelle facce,” scappò a rispondere don Abbondio; “le ho sentite io quelle parole. Vostra signoria illustrissima parla bene; ma bisognerebbe esser nei panni d’un povero prete, ed essersi trovato al punto.”

Appena ebbe proferite queste parole, si morse la lingua; si accorse d’essersi lasciato troppo vincere dal dispetto, e disse seco stesso: — ora vien la gragnuola. — Ma levando dubbiosamente lo sguardo, fu tutto maravigliato, in vedere l’aspetto di quell’uomo, che non gli riusciva mai d’indovinare nè di [p. 32 modifica]comprendere, in vederlo passare, da quella gravità autorevole e castigatrice, ad una gravità, compunta e pensosa.

“Pur troppo!” disse Federigo, “tale è la misera e terribile nostra condizione. Dobbiamo esigere rigorosamente dagli altri quello che Dio sa se noi saremmo pronti a dare: dobbiamo giudicare, correggere, riprendere; e Dio sa quel che noi faremmo, nel caso stesso, quello che abbiamo fatto in casi simiglianti! Ma guai, s’io avessi da pigliar la mia debolezza per misura del dovere altrui, per norma del mio insegnamento. Pure, è certo che, con le dottrine, io debbo dare altrui l’esempio, non rendermi simile al fariseo, che impone altrui importabili pesi, i quali egli non vuol pur toccare col dito. Or bene, figliuolo e fratello; poichè gli errori di quei che presiedono sono spesso più noti altrui che non a loro; se voi sapete che io abbia, per pusillanimità, per rispetto qualunque, trascurato qualche mio obbligo, ditemelo francamente, fatemi ravvedere; affinchè, dove ha mancato l’esempio, sovvenga almeno la confessione. Rimostratemi liberamente le mie debolezze; e allora le parole acquisteranno più valore nella la mia bocca, perchè sentirete più [p. 33 modifica]vivamente, che non son mie, che sono di Chi può dare a voi e a me la forza necessaria, per far ciò che prescrivono.”

— Oh che sant’uomo! ma che tribolatore! — pensava don Abbondio; — anche sopra di sè: purchè frughi, rimescoli, critichi, inquisisca; anche sopra di sè. — Disse poi, ad alta voce: “oh monsignore! mi burla? Chi non conosce il petto forte, lo zelo imperterrito di vossignoria illustrissima!” E in cuor suo soggiunse: — anche troppo. —

“Io non vi domandava una lode, che mi fa tremare,” disse Federigo; “perchè Dio conosce i miei mancamenti, e quel ch’io stesso ne conosco, basta confondermi. Ma avrei voluto, vorrei, che ci confondessimo insieme dinanzi a Lui, per confidare insieme. Vorrei, per amor di voi, che sentiste come la vostra condotta sia stata, come il vostro linguaggio sia opposto alla legge che pur predicate, e secondo la quale sarete giudicato.”

“Tutto si rovescia addosso a me,” disse don Abbondio: “ma queste persone che son venute a rapportare, non le hanno poi detto d’essermisi introdotte in casa a tradimento, per sorprendermi, e per fare un matrimonio contro le regole.” [p. 34 modifica]

“Lo hanno detto, figliuolo: ma questo mi accuora, questo mi atterra, che voi desiderate ancora di scusarvi; che pensiate di scusarvi, accusando; che diate accusa altrui di ciò che dovrebb’esser parte della vostra confessione. Chi gli ha messi, non dico nella la necessità, ma nella tentazione di far ciò che hanno fatto? Avrebbero eglino cercata quella via irregolare, se la legittima non fosse loro stata chiusa?; pensato ad insidiare il pastore, se fossero stati accolti nelle sue braccia, aiutati, consigliati da lui?; a sorprenderlo, se egli non si fosse rimpiattato? E a questi voi date carico? E vi sdegnate perchè, dopo tante sventure, che dico? nel mezzo della sventura, abbiano detta una parola di sfogo, al loro, al vostro pastore? Che il richiamo dell’oppresso, la querela dell’afflitto sieno odiosi al mondo, esso è tale; ma noi! Ma che pro sarebbe stato, per voi, se avessero taciuto? Vi tornava egli conto che la loro causa andasse intera al giudizio di Dio? Non è per voi una nuova ragione di amar queste persone, (e già tante ragioni ne avete) che v’abbiano porta occasione di udire la voce sincera del vostro pastore, che vi abbian dato un mezzo, di conoscer meglio e di scontare in parte [p. 35 modifica]il gran debito che avete con loro? Ah! se vi avessero provocato, offeso, tormentato; vi direi, (e dovrei io dirvelo?) di amarli, per ciò appunto. Amateli, perchè hanno patito, perchè patiscono, perchè son vostri, perchè son deboli, perchè avete bisogno d’un perdono, ad ottenervi il quale, pensate di che forza possa essere la loro preghiera.”

Don Abbondio taceva, ma non più di quel silenzio impersuasibile e dispettoso: taceva come chi ha più cose da pensare, che non da dire. Le parole ch’egli udiva, erano conseguenze inaspettate, applicazioni nuove, ma d’una dottrina antica pure nella sua mente, e non contrastata. Il male altrui, dalla considerazione del quale lo aveva sempre distratto la paura del proprio, gli faceva ora una impressione nuova. E, se non sentiva tutto il rimorso che la predica voleva produrre (chè quella stessa paura era sempre lì a far l’uficio d’avvocato difensore); pur ne sentiva; sentiva un dispiacere di sè, una pietà degli altri, un misto di tenerezza e di confusione. Era, se ci si fa lecito questo paragone, come il lucignolo umido e ammaccato d’una candela, che presentato alla fiamma d’una gran torcia, da principio fumica, schizza, scoppietta, non ne vuol sapere; ma alla fine s’accende e, bene [p. 36 modifica]o male, arde. Si sarebbe altamente accusato, avrebbe pianto, se non fosse stato il pensiero di don Rodrigo; ma tuttavia, si mostrava abbastanza commosso, perchè il cardinale dovesse accorgersi che le sue parole non erano state senza effetto.

“Ora,” proseguì egli, “l’uno fuggiasco dalla sua casa, l’altra in procinto di abbandonarla, entrambi con troppa cagione di starne lontano, senza probabilità di riunirsi mai qui, quando pure Dio abbia disegnato di riunirli; ora, pur troppo, non hanno bisogno di voi; pur troppo, voi non avete occasione di far loro del bene; nè la corta nostra antiveggenza può congetturarne alcuna nell’avvenire. Ma chi sa se Dio misericordioso non ve ne prepara? Ah non le lasciate sfuggire! cercatele, state in agguato, pregatelo che le faccia nascere.”

“Non mancherò, monsignore, non mancherò, davvero,” rispose don Abbondio, con una voce che mostrava di venir dal cuore.

“Ah sì, figliuolo, sì!” sclamò Federigo; e con una dignità piena d’affetto conchiuse: “sa il cielo come avrei desiderato di tener con voi tutt’altri discorsi. Entrambi abbiamo già molto vissuto: sa il cielo se m’è stato duro di dover contristar con [p. 37 modifica]rampogne codesta vostra canizie; quanto avrei amato meglio di racconsolarmi con esso voi, delle nostre cure comuni, dei nostri guai, parlando della beata speranza, alla quale già siam giunti sì presso. Faccia Dio che le parole le quali ho pur dovuto usar con voi, servano a voi e a me. Non vogliate ch’Egli mi chiegga conto, in quel giorno, dell’avervi mantenuto in un uficio, al quale siete così infelicemente venuto meno. Riscattiamo il tempo: la mezza notte è vicina; lo Sposo non può tardare; teniamo accese le nostre lampade. Presentiamo a Dio i nostri cuori, miseri, voti; perchè Gli piaccia riempirli di quella carità, che ammenda il passato, che assicura l’avvenire, che teme e confida, piange e s’allegra, con sapienza; che diventa, in ogni caso, la virtù di cui abbiamo bisogno.”

Così detto, si mosse; e don Abbondio gli tenne dietro.

Qui l’anonimo ci avvisa che non fu questo il solo abboccamento di quei due personaggi, nè Lucia il solo argomento de’ loro abboccamenti; ma ch’egli s’è ristretto a questo, per non andar troppo divagando dal soggetto principale del racconto. E che, per lo stesso motivo, non farà menzione di altre cose [p. 38 modifica]notabili, dette e fatte da Federigo in tutto il corso della visita, nè delle sue larghezze, nè dei disidii composti, dei vecchi rancori tra persone, famiglie, terre intere, spenti o (il che era pur troppo più frequente) sopiti, nè di qualche bravacci o tirannelli, mansuefatti, o per tutta la vita, o per qualche tempo; cose tutte delle quali v’aveva sempre più o meno, in ogni luogo della diocesi, dove quell’uomo eccellente facesse qualche soggiorno.

Segue poi a dire, come, il mattino seguente, venne donna Prassede, secondo il concertato, a prender Lucia, e a complimentare il cardinale; che gliela lodò, e raccomandò caldamente. Lucia si staccò dalla madre, potete pensar con che lagrime, e uscì della sua casetta, disse per la seconda volta addio al suo paese, con quel senso di doppia amaritudine, che si prova lasciando un luogo che fu unicamente caro, e che non può esserlo più. Ma il commiato dalla madre non era l’ultimo; perchè donna Prassede aveva annunziato che si soggiornerebbe ancor qualche giorno in quella sua villa, la quale non era molto lontana di quivi; e Agnese promise alla figlia di andar colà, a dare e a ricevere un più doloroso addio.

Il cardinale era anch’egli sulle mosse, per [p. 39 modifica]portarsi ad un’altra parrocchia, quando capitò, e chiese di parlargli, il curato di quella in cui era il castello dell’innominato. Intromesso, presentò un gruppo e una lettera di quel signore, la quale pregava Federigo di fare accettare alla madre di Lucia un cento scudi d’oro che erano nel gruppo, per servir di dote alla giovane, o per quell’uso che ad entrambe sarebbe paruto migliore; lo pregava insieme di dir loro che, se mai, quando che fosse, avessero creduto ch’egli potesse render loro qualche servigio, la povera giovane sapeva pur troppo dove egli abitasse; e per lui, quella sarebbe una delle venture più desiderate. Il cardinale fe’ tosto chiamare Agnese, le espose la commissione, che questa intese con maraviglia e soddisfazione pari; e le presentò il rotolo, ch’ella, senza molte cerimonie, si lasciò porre in mano. “Dio gliene renda merito, a quel signore,” diss’ella: “e vossignoria illustrissima lo ringrazii tanto tanto. E non dica niente a nessuno, perchè questo è un certo paese... Mi scusi, veda; so bene che un par suo non va a chiacchierare di queste cose; ma.....mi capisce.” Andò a casa, cheta cheta; si chiuse in camera, svolse il gruppo, e, quantunque [p. 40 modifica]preparata, vide con ammirazione, tutti in un mucchio e suoi, tanti di quei ruspi, de’ quali non aveva forse mai veduto più d’un per volta, e anche di rado; li noverò, penò alquanto d’ora a rimetterli insieme, e a farli star di costa tutti e cento, che ad ogni tratto facevano pancia e sguizzavano dalle sue dita inesperte; ricomposto finalmente un rotoletto alla meglio, lo pose in un cencio, ne fece un involto, un batuffoletto, e legatolo bene, attorno attorno, con una cordicella, lo andò a ficcare in un angolo del suo pagliericcio. Pel rimanente di quel giorno, non fe’ altro che mulinare, far disegni nell’avvenire, e sospirare intanto il domani. Postasi a letto, stette buon tempo desta, col pensiero in compagnia di quei cento che aveva sotto: addormentata, li vide in sogno. All’alba, si levò, e si mise tosto in cammino alla volta della villa, dove si trovava Lucia.

Questa, dalla sua parte, quantunque non le si fosse scemata in nulla quella gran renitenza a parlare del voto, pure era risoluta di farsi forza, e di aprirsene colla madre, in quel colloquio, che per lungo tempo doveva chiamarsi l’ultimo.

Appena poterono esser sole, Agnese, con una faccia tutta animata, e insieme in un tuono [p. 41 modifica]sommesso di voce, come se vi fosse stato presente qualcheduno, a cui ella non volesse farsi intendere, cominciò: “t’ho da dire una gran cosa;” e seguitò raccontando della inaspettata ventura.

“Iddio lo benedica quel signore,” disse Lucia: “così avrete da star bene voi, e potrete anche far del bene a qualchedun altro.”

“Come!” rispose Agnese: “non vedi quante cose possiam fare, con tanti danari? Senti; io non ho altri che te, che voi due, posso dire; perchè Renzo, da che ti cominciò a parlare, l’ho sempre risguardato come un mio figliuolo. Il tutto sta, che non gli sia accaduta qualche disgrazia, a vedere che non dà segno di vita: ma eh! ha mo da andar tutto male? Speriamo di no, speriamo. Per me, avrei avuto caro di lasciar l’ossa nel mio paese; ma ora che tu non ci puoi stare, in grazia di quel birbone, e anche solamente a pensare di averlo vicino, colui, m’è diventato amaro il mio paese: e con voi altri io sto da per tutto. Ero disposta, fin d’allora, a venir con voi altri, anche in capo del mondo; e sono sempre stata in proposito; ma, senza danari, come si fa? Capisci adesso? Quei quattro, che quel [p. 42 modifica]poveretto aveva messi da parte, con tanto stento e con tanto risparmio, è venuta la giustizia, e ha fatto netto; ma, in compenso, il Signore ha mandato la fortuna a noi. Dunque, quando avrà trovato il bandolo di far sapere se è vivo, e dov’è, e che intenzioni ha, ti vengo a pigliare io a Milano; io ti vengo a pigliare. Altre volte ci avrei pensato su, ma le disgrazie fanno diventar disinvolti e sperti; fino a Monza vi sono andata, e so che cosa è viaggiare. Prendo con me un uomo di proposito, un parente, come sarebbe a dire, Alessio di Maggianico; chè, a voler dir proprio in paese, un uomo di proposito non c’è mica: vengo insieme con lui: già la spesa la facciamo noi, e... capisci?....

Ma scorgendo che, invece di animarsi, Lucia s’andava accorando, e non mostrava che una tenerezza senza consolazione, lasciò il discorso a mezzo, e disse: “ma che cosa hai? non ti pare?”

“Povera mamma!” sclamò Lucia gettandole un braccio attorno al collo, e chinandole sul seno la faccia piangente.

“Che c’è?” dimandò di nuovo ansiosamente la madre.

“Avrei dovuto dirvelo prima,” disse Lucia, [p. 43 modifica]alzando e ricomponendo il volto; “ma non ho mai avuto cuore: compatitemi.”

“Ma di’ su, dunque.”

“Io non posso più esser moglie di quel poveretto!”

“Come? come?”

Lucia, col capo basso, col petto anelante, lagrimando senza piangere, come chi racconta cosa che, quand’anche fosse sventura, non è mutabile, rivelò il voto; e insieme, giugnendo le mani, chiese di nuovo perdonanza alla madre, d’aver taciuto fino allora; la pregò di non parlar di un tal fatto con anima vivente, e di darle aiuto, di facilitarle la via, ad adempiere ciò che aveva promesso.

Agnese era rimasta stupefatta e costernata. Voleva sdegnarsi del silenzio tenuto con lei; ma i gravi pensieri del caso soffocavano quel cruccio personale: voleva rimproverare il fatto; ma le pareva che sarebbe un pigliarsela col cielo: tanto più che Lucia tornava a dipingere, più vivamente che mai, quella notte, la desolazione così nera, e la salute così insperata, tra le quali la promessa era stata fatta, così espressa, così solenne. E intanto, all’ascoltatrice veniva anche in mente questo e quell’esempio, che aveva uditi raccontar più volt, ch’ella stessa aveva raccontati alla figlia, [p. 44 modifica]di castighi strani e terribili, venuti per la violazione di qualche voto. Stata così alcun poco attonita, disse: “e adesso, che cosa farai?”

“Adesso,” rispose Lucia, “tocca al Signore di pensarci; al Signore e alla Madonna. Mi sono posta nelle loro mani: non mi hanno abbandonata finora: non mi abbandoneranno adesso che... La grazia che domando per me al Signore, la sola grazia, dopo l’anima, è che mi faccia tornar con voi: e me la concederà, sì, me la concederà. Quel giorno...... in quella carrozza....... ah Vergine santissima!... quegli uomini....! chi mi avrebbe detto che mi menavano da quello, che mi doveva menare a trovarmi con voi, il giorno dopo?”

“Ma non parlarne subito a tua madre!” disse Agnese con un certo corruccio smorzato di amorevolezza e di pietà.

“Compatitemi; non aveva cuore...... e a che serviva di affliggervi qualche tempo prima?” “ E Renzo?” disse Agnese, scrollando il capo. “ Ah!” sclamò Lucia, trasalendo subitamente, “io non ci ho più da pensare a quel poveretto. Già Iddio non aveva destinato.... [p. 45 modifica]Vedete come pare che ci abbia voluti proprio tener separati. E chi sa...? ma no, no: il Signore lo avrà preservato dai pericoli, e lo farà esser fortunato anche meglio, senza di me.”

“Ma intanto,” ripigliò Agnese, “se non fosse che tu ti sei legata per sempre, a tutto il resto, quando a Renzo non sia accaduta disgrazia, con quei danari io aveva trovato rimedio.”

“Ma quei danari,” replicò Lucia, “ci sarebbero venuti, se io non avessi passata quella notte? È il Signore che ha voluto che tutto andasse così: sia fatta la sua volontà.” E la parola morì nel pianto.

A quell’argomento inaspettato, Agnese ristette pensosa. Dopo qualche momento, Lucia, comprimendo i singulti, ripigliò: “ora a che la cosa è fatta, bisogna adattarcisi di buon cuore; e voi, povera mamma, voi mi potete aiutare, prima, pregando il Signore per la vostra povera figlia, e poi..... bisogna bene che quel poveretto lo sappia. Pensateci voi, fatemi anche questa carità; che voi ci potete pensare. Quando voi saprete dov’egli sia, fategli scrivere, trovate un uomo.... appunto vostro cugino Alessio, ch’è a un uomo prudente e caritatevole, e ci ha [p. 46 modifica]sempre voluto bene, e non ciarlerà attorno: fategli scrivere da lui la cosa com’è, dove mi son trovata, come ho patito, e che Dio ha voluto così, e che metta il cuore in pace, e ch’io non posso mai mai esser di nessuno. E fargli capir la cosa con buona grazia, spiegargli che ho promesso, che ho proprio fatto voto.... Quando saprà che ho promesso alla Madonna..... è sempre stato dabbene.... E voi, la prima volta che avrete sue nuove, fatemi scrivere, fatemi sapere che è sano; e poi.... non mi fate più saper niente.”

Agnese, tutta intenerita, assicurò la figlia che ogni cosa si farebbe come ella desiderava.

“Vorrei dirvi un’altra cosa,” ripigliò questa: “quel poveretto, se non avesse avuta la disgrazia di pensare a me, non gli sarebbe accaduto quel che gli è accaduto. È attorno pel mondo: gli hanno rotto il suo avviamento, gli hanno portato via la sua roba, quei risparmii che aveva fatti, poveretto, sapete perchè...... E noi abbiamo tanti danari! Oh mamma!, giacchè il Signore ci ha mandato tanto bene, e quel poveretto, è proprio vero che lo risguardavate come vostro.... si come un figliuolo, oh! fate metà per uno; chè, sicuro, Iddio non ci [p. 47 modifica]mancherà. Cercate di aver l’occasione d’un uomo fidato, e mandateglieli; chè sa il cielo come ne ha bisogno!”

“Ebbene? che cosa credi?” rispose Agnese: “lo farò mo davvero. Povero giovane! Perchè pensi tu che io fossi così contenta di quei danari? Ma....! io era proprio venuta qui tutta contenta, io. Basta, io glieli manderò; povero giovane! Ma anch’egli.... so quel che dico; certo che i danari fanno piacere a chi ne ha bisogno; ma questi non saran quelli che lo facciano ingrassare.”

Lucia rendette grazie alla madre, di quella pronta e liberale condiscendenza, con una gratitudine, con un affetto, da far giudicare a chi l’avesse osservata, che il suo cuore faceva ancora a parte con Renzo, forse più che ella stessa non credesse.

“E senza di te, che farò io povera donna?” disse Agnese, piangendo alla sua volta.

“E io senza di voi, mia. povera mamma? e in casa di forastieri? e laggiù in quel Milano......! Ma il Signore sarà con tutte e due; e poi ci farà tornare insieme. Fra otto o nove mesi, ci rivedremo qui; e di qui allora, e anche prima, spero, Egli avrà aggiustate le cose, per consolarci. Lasciamo [p. 48 modifica]fare a Lui. La domanderò sempre sempre alla Madonna questa grazia. Se avessi qualche altra cosa da offerirle, lo farei; ma è tanto misericordiosa, che me la otterrà in dono.”

Con queste ed altre simili, e più volte ripetute parole di lamento e di conforto, di repetìo, e di rassegnazione, di domanda, e di assicurazione del segreto, e con molte lagrime, dopo lunghi e rinnovati abbracciamenti, le donne si separarono, promettendosi a vicenda di rivedersi all’autunno vegnente, il più tardi; come se l’attenere stesse in loro, e come pure si fa sempre in simiglianti casi.

Intanto cominciò a passar molto tempo, senza che Agnese potesse risaper nulla di Renzo. Lettere nè imbasciate da parte di lui, non ne veniva: di tutti quelli del paese, o del contorno, ch’ella ne potè domandare, nessuno ne sapeva punto più di lei.

Nè era essa la sola che facesse invano una tale ricerca: il cardinal Federigo, che non aveva detto per cerimonia alle povere donne, di voler pigliare informazioni del pover’uomo, aveva in fatti scritto tosto, per averne. Tornato poi dalla visita a Milano, aveva ricevuta risposta, in cui gli si diceva, non potersi trovar ricapito dell’indicato soggetto; che [p. 49 modifica]veramente egli aveva fatto qualche soggiorno nel tal Paese, dove non aveva dato nulla da dire, ma, una mattina, ne era scomparso all’improvviso; che un suo parente, il quale lo aveva albergato quivi, non sapeva che egli fosse divenuto, e non poteva se non ripetere certe voci in aria e contraddittorie che correvano, essersi il giovane arrolato pel Levante, esser passato in Germania, perito nel guadare un fiume; che non si mancherebbe di stare alle vedette, se mai venisse fuora qualche notizia più fondata, per farne tosto parte a sua signoria illustrissima e reverendissima.

Più tardi, quelle ed altre voci si diffusero anche nel territorio di Lecco, e vennero per conseguenza agli orecchi d’Agnese. La povera donna faceva il possibile, per appurare quale fosse la vera, per arrivare alla fonte di questa e di quella, ma non riusciva mai a trovar di più di quel dicono, che, pure al giorno d’oggi, basta da per sè ad attestar tante cose. Talvolta, appena glien’era stata contata una, veniva un altro e le diceva che non era vero niente; ma per dargliene in compenso un’altra, egualmente strana o sinistra. Tutte ciarle egualmente; ecco il fatto.

Il governatore di Milano e capitano generale in Italia, don Gonzalo Fernandez di [p. 50 modifica]Cordova, aveva fatto un gran risentimento col signor residente di Venezia in Milano, perchè un brigante, un ladrone publico, un promotore di saccheggio e di ammazzamento, il famigerato Lorenzo Tramaglino, che, nelle mani stesse della giustizia, aveva eccitato sommossa, per iscampare a forza, fosse accolto e ricettato nel territorio bergamasco. Il residente avea risposto che non sapeva niente; scriverebbe a Venezia, per poter dare a sua eccellenza quella spiegazione che fosse del caso.

A Venezia si aveva per massima di secondare e di coltivare l’inclinazione degli operai di seta milanesi a traspiantarsi nel territorio bergamasco, e quindi di far che vi trovassero molti vantaggi e, sopra tutto, quello senza di cui ogni altro è nulla, la sicurezza. Siccome però, fra due grossi litiganti, qualche cosa, per poco che sia, bisogna sempre che il terzo goda; così Bortolo fu avvisato in confidenza, non si sa da chi, che Renzo non istava bene in quel paese, e che farebbe saviamente a mettersi in qualche altra fabbrica, mutando anche nome, per qualche tempo. Bortolo intese il latino, non istette ad obiettare, spiegò la cosa al cugino, lo tolse con sè in un calessetto, lo condusse ad un altro nuovo filatoio, discosto da quello forse [p. 51 modifica]quindici miglia, e lo presentò, sotto nome di Antonio Rivolta, al padrone, ch’era pur natìo dello stato di Milano, e suo antico conoscente. Questi, quantunque i tempi fossero scarsi, non si fece pregare a ricevere un operaio che gli era raccomandato, come onesto e abile, da un galantuomo intelligente. Alla prova poi, non ebbe che a lodarsi dell’acquisto; salvo che, in sul principio, gli era sembrato che il giovane dovesse essere un po’ stordito di natura, perchè, quando si chiamava: Antonio!, le più volte non rispondeva.

Poco dopo, si ordinò da Venezia, in istile pacato, al capitano di Bergamo, che pigliasse e desse informazione, se nella sua giurisdizione, e segnatamente nel tal paese, si trovasse il tale soggetto. Il capitano, fatte le sue diligenze, al modo che aveva capito che si volevano, trasmise la risposta negativa, 1a quale fu trasmessa al residente in Milano, che la trasmettesse a don Gonzalo Fernandez de Cordova.

Non mancavano poi curiosi, che volessero sapere da Bortolo, perchè quel giovane non c’era più, e dove fosse andato. Alla prima inchiesta quegli rispondeva: “ma! è scomparso.” Per mandare in pace i più insistenti, senza dar loro sospetto di quel che [p. 52 modifica]n’era davvero, aveva trovato di regalar loro, a chi l’una, a chi l’altra delle notizie da noi riferite di sopra: però, come cose incerte, che aveva anch’egli intese raccontare, senza averne un ragguaglio positivo.

Ma quando la domanda gli venne fatta per commissione del cardinale, senza nominarlo, e con un certo apparato d’importanza e di mistero, lasciando intendere ch’egli era in nome di un gran personaggio; tanto più Bortolo s’ingelosì, e giudicò necessario di attenersi al suo metodo di rispondere; anzi, trattandosi d’un gran personaggio, diede in una volta tutte le notizie che aveva stampate ad una ad una, in quelle diverse occorrenze.

Non si creda però che don Gonzalo, un signore di quella sorta, la avesse proprio davvero col povero filatore di montagna; che informato forse della irriverenza usata e delle male parole dette da colui al suo re moro incatenato per la gola, volesse fare una sua vendetta; o che lo credesse un soggetto tanto pericoloso, da perseguitarlo anche fuggente, da non lasciarlo vivere anche lontano, come il senato romano con Annibale. Don Gonzalo aveva troppe e troppo grandi cose in testa, per pigliarsi briga dei fatti di Renzo; e se parve che se ne pigliasse, ciò venne da un [p. 53 modifica]concorso singolare di circostanze, per cui il poveraccio, senza volerlo, e senza saperlo, nè allora nè mai, si trovò, con un sottilissimo e invisibile filo, appiccato a quelle troppe e troppo grandi cose.