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il gran debito che avete con loro? Ah! se vi avessero provocato, offeso, tormentato; vi direi, (e dovrei io dirvelo?) di amarli, per ciò appunto. Amateli, perchè hanno patito, perchè patiscono, perchè son vostri, perchè son deboli, perchè avete bisogno d’un perdono, ad ottenervi il quale, pensate di che forza possa essere la loro preghiera.”

Don Abbondio taceva, ma non più di quel silenzio impersuasibile e dispettoso: taceva come chi ha più cose da pensare, che non da dire. Le parole ch’egli udiva, erano conseguenze inaspettate, applicazioni nuove, ma d’una dottrina antica pure nella sua mente, e non contrastata. Il male altrui, dalla considerazione del quale lo aveva sempre distratto la paura del proprio, gli faceva ora una impressione nuova. E, se non sentiva tutto il rimorso che la predica voleva produrre (chè quella stessa paura era sempre lì a far l’uficio d’avvocato difensore); pur ne sentiva; sentiva un dispiacere di sè, una pietà degli altri, un misto di tenerezza e di confusione. Era, se ci si fa lecito questo paragone, come il lucignolo umido e ammaccato d’una candela, che presentato alla fiamma d’una gran torcia, da principio fumica, schizza, scoppietta, non ne vuol sapere; ma alla fine s’accende e, bene