I promessi sposi (Ferrario)/Capitolo XIX

Capitolo XIX

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CAPITOLO XIX.


Chi, vedendo in un campo mal coltivato, un’erbaccia, per esempio, un bel lapazio, volesse proprio sapere se sia venuto da un granellino maturato nel campo stesso, o da un granellino portatovi dal vento, o lasciatovi cader da un uccello, per quanto vi stesse a pensar sopra, non ne verrebbe mai a una conclusione. Così anche noi non sapremmo mai dire se dal fondo naturale del suo cervello, o dalla insinuazione d’Attilio, venisse al conte zio la risoluzione di servirsi del padre provinciale per troncare nel miglior modo quel gruppo imbrogliato. Certo è che Attilio non aveva gittato a caso quel motto; e quantunque dovesse ben aspettarsi che ad un suggerimento così scoverto, la boria ombrosa del conte zio avrebbe ricalcitrato, ad ogni modo volle fargli balenar dinanzi l’idea di quel ripiego, e fargli avvertire la strada, nella quale [p. 193 modifica]desiderava che si mettesse. Dall’altra parte il ripiego era talmente consentaneo all’umore del conte zio, talmente indicato dalle circostanze, che, senza suggerimento di chi che sia, si può scommettere che l’avrebbe pensato e abbracciato. Si trattava che, in una guerra pur troppo aperta, uno del suo nome, un suo nipote non istesse al di sotto: punto essenzialissimo alla riputazione del potere che gli stava tanto sul cuore. La soddisfazione che il nipote poteva pigliarsi da sè, sarebbe stata un rimedio peggior del male, un seminario di guai; e bisognava stornarla a ogni partito, e senza perder tempo. Comandargli che partisse in quel momento dalla sua villa, già non avrebbe obbedito; e quando avesse, era un cedere il campo, una ritirata della casa dinanzi ad un convento. Ordini, forza legale, spauracchi di tal genere, non valevano contra un avversario di quella condizione: il clero regolare e secolare era affatto immune da ogni giurisdizione laicale; non solo le persone, ma i luoghi ancora abitati da esso; come dee sapere anche chi non avesse letta altra storia che la presente; che starebbe fresco. Tutto quel che si poteva contro un tale avversario era cercar di rimuoverlo; e il mezzo a ciò era il padre [p. 194 modifica]provinciale, in arbitrio di cui era l’andare e lo stare di quello.

Ora, tra il padre provinciale e il conte zio passava un’antica conoscenza: s’erano veduti di rado, ma ogni volta con gran dimostrazioni d’amicizia, e con proferte sperticate di servigi. E alle volte è più facile aver buon mercato d’uno che sia sopra a molti individui, che non d’un solo di questi, il quale non vede che la sua causa, non sente che la sua passione, non cura che il suo punto; mentre l’altro scorge in un tratto cento relazioni, cento contingenze, cento interessi, cento cose da scansare, cento cose da salvare, e si può quindi pigliare da cento parti.

Tutto ben pensato, il conte zio invitò un dì a pranzo il padre provinciale, e gli fece trovare una corona di commensali assortiti con un intendimento sopraffino, qualche congiunto dei più titolati, di quelli il cui solo casato era un gran titolo, e che col solo contegno, con una certa sicurtà nativa, con una sprezzatura signorile, parlando di cose grandi con termini famigliari, riuscivano, anche senza farlo apposta, ad imprimere e rinfrescare ad ogni tratto l’idea della superiorità e della potenza; e alcuni clienti legati alla casa per una devozione ereditaria, e al personaggio per [p. 195 modifica]una servitù di tutta la vita: i quali, cominciando dalla minestra a dir di sì colla bocca, cogli occhi, cogli orecchi, con tutta la testa, con tutto il corpo, con tutta l’anima, alle frutta vi avevano ridotto un uomo a non ricordarsi più del come si facesse a dir di no.

A tavola, il conte padrone fece cader ben presto il discorso sul tema di Madrid. A Roma si va per più strade; a Madrid egli andava per tutte. Parlò della corte, del conte duca, dei ministri, della famiglia del governatore, delle cacce del toro ch’egli poteva descriver benissimo perchè le aveva godute da un posto distinto, dell’Escuriale di cui poteva render conto appuntino perchè un creato del conte duca lo aveva condotto per ogni buco. Per qualche tempo tutta la compagnia stette, come un uditorio, attenta a lui solo, poi si divise in colloquii particolari; ed egli allora continuò a raccontare altre di quelle belle cose, come in confidenza, al padre provinciale che gli era seduto vicino e che lo lasciò dire, dire e dire. Ma a un certo punto, diede una svolta al discorso, lo staccò da Madrid, e di corte in corte, di dignità in dignità, lo tirò in sul cardinale Barberini che era cappuccino e fratello del papa allora sedente Urbano VIII. Il conte zio dovette [p. 196 modifica]anch’egli lasciar parlare un poco, e stare a udire, e ricordarsi che finalmente in questo mondo non c’era soltanto i personaggi che facevan per lui. Poco dopo levati da tavola, egli pregò il padre provinciale che passasse con lui in un altra stanza.

Due potestà, due canizie, due esperienze consumate si trovavano a fronte. Il magnifico signore fe’ sedere il padre molto reverendo, s’assise anch’egli e comincio: “stante l’amicizia che passa fra noi, ho creduto di far parola a vostra paternità d’un affare di comune interesse, e che vuol essere conchiuso fra noi, senza andare per altre vie, che potrebbero..... E però, alla buona, col cuore in mano, le dirò di che si tratta; e in due parole son certo che andremo d’accordo. Mi dica: nel loro convento di Pescarenico v’è un padre Cristoforo da ***?”

Il provinciale accennò di sì.

“Mi dica un po’ vostra paternità, schiettamente, da buon amico..... questo soggetto.... questo padre..... Di persona io non lo conosco; e sì che di padri cappuccini ne conosco parecchi, uomini d’oro, zelanti, prudenti, umili: sono stato amico dell’ordine fino da ragazzo.... Ma in ogni famiglia un po’ numerosa.... v’è sempre qualche [p. 197 modifica]individuo, qualche testa.... E questo padre Cristoforo, so per certi riscontri che è un uomo.... un po’ amico dei contrasti.... che non ha tutta quella prudenza, tutti quei riguardi...... Giucherei che ha dovuto dar più d’una volta da pensare a vostra paternità.”

— Ho capito; è un impegno, — pensava intanto — tra sè il provinciale. — Mia colpa; lo sapeva pure che quel benedetto Cristoforo era un soggetto da farlo girare di pulpito in pulpito e non lasciarlo posar sei mesi in un luogo, massime in conventi di campagna. —

“Oh!” disse poi ad alta voce: “mi spiace da vero sentire che vostra magnificenza abbia in codesto concetto il padre Cristoforo; perchè, a quanto ne so io, è un religioso.... esemplare in convento e tenuto in molta stima anche al di fuori.”

“Capisco benissimo; vostra paternità dee.... Però, però, da amico sincero, io voglio avvisarla d’una cosa che le importa di sapere; e se anche ne fosse già informata, senza mancare ai miei doveri, io posso farle avvertire certe conseguenze.... possibili: non dico di più. Questo padre Cristoforo, sappiamo che teneva in protezione un uomo di quelle parti, un uomo..... vostra paternità ne avrà inteso parlare; quello che con [p. 198 modifica]tanto scandalo scappò dalle mani della giustizia, dopo aver fatte in quel terribile giorno di san Martino, cose..... cose..... Lorenzo Tramaglino!

“— Ahi! — ” pensò il provinciale; e disse: “questo particolare mi riesce nuovo; ma vostra magnificenza sa bene che una parte del nostro uficio, è appunto di andare in cerca dei traviati, per ridurli....

“Va bene; ma la pratica coi traviati di una certa specie....! Sono cose spinose, affari delicati.....” E qui, invece di gonfiar le gote e di soffiare, strinse le labbra, e tirò dentro tant’aria quanta soffiando ne soleva mandar fuori. E riprese: “ho stimato bene di darle questo cenno, perchè se mai sua eccellenza.... Potrebbe esser fatto qualche uficio a Roma.... non so niente.... e da Roma venirle....

“Sono ben tenuto a vostra magnificenza di codesto avviso; però mi assicuro che, se si prenderanno informazioni su questo proposito, si troverà che il padre Cristoforo non avrà avuta pratica con l’uomo ch’ella dice, se non a fine di mettergli il cervello a partito. Il padre Cristoforo, lo conosco.”

“Già ella sa meglio di me che soggetto [p. 199 modifica]fosse al secolo, le cosette che ha fatte in gioventù.”

È la gloria dell’abito questa, signor conte, che un uomo, il quale al secolo ha potuto far dire di sè, con questo indosso, diventi un altro. E da che il padre Cristoforo porta quest’abito....

Vorrei crederlo, lo dico di cuore, vorrei crederlo; ma alle volte...... come dice il proverbio..... l’abito non fa il monaco.”

Il proverbio non veniva a taglio esattamente, ma il conte lo aveva citato in sostituzione d’un altro che gli passava in mente: il lupo muta il pelo, ma non il vizio.

“Ho dei riscontri,” continuava, “ho dei contrassegni....

“Se ella sa positivamente,” disse il provinciale, “che questo religioso abbia commesso qualche mancamento, (tutti possiamo errare) mi farà favore d’informarmene. Son superiore; indegnamente; ma lo sono appunto per correggere, per rimediare.”

“Le dirò: insieme con questa circostanza spiacevole del favore spiegato di questo padre per chi le ho detto, interviene un’altra cosa disgustosa, e che potrebbe..... Ma, fra noi accomoderemo tutto in una volta. [p. 200 modifica]Interviene, dico, che lo stesso padre Cristoforo ha preso a cozzare con mio nipote, don Rodrigo * * * ”

“Oh questo mi spiace! mi spiace, mi spiace da vero.”

“Mio nipote è giovane, caldo, si sente quel che è, non è avvezzo ad esser provocato....

“Sarà mio dovere di prender buone informazioni d’un fatto simile. Come ho già detto a vostra magnificenza, ed ella, con la sua gran pratica del mondo e con la sua equità, conosce queste cose meglio di me, tutti siamo di carne, soggetti a fallare...... tanto da una parte, quanto dall’altra: e se il nostro padre Cristoforo avrà mancato....”

“Veda vostra paternità, son cose, come io le diceva, da finirsi fra noi, da seppellirle qui, cose che a rimescolarle troppo.... si fa peggio. Ella sa come accade: questi urti, queste picche, principiano talvolta da una bagatella, e vanno innanzi, vanno innanzi..... A voler trovarne la radice, o non se ne viene a capo, o danno in fuora cento altri garbugli. Sopire, troncare, padre molto reverendo: troncare, sopire. Mio nipote è giovane; il religioso, da quel che sento, ha ancora tutto lo spirito, le..... [p. 201 modifica]inclinazioni d’un giovane; e tocca a noi, che abbiamo i nostri anni, (pur troppo eh, padre molto reverendo?) tocca a noi di aver senno pei giovani; e di rattoppare le loro malefatte. Per buona sorte siamo ancora a tempo; la cosa non ha fatto chiasso; è ancora il caso d’un buon principiis obsta. Separare il fuoco dalla paglia. Alle volte un soggetto che non fa bene, o che può esser causa di qualche inconveniente in un luogo, riesce a maraviglia altrove. Vostra paternità saprà ben trovare la nicchia conveniente a questo religioso. S’incontra appunto anche l’altra circostanza del poter essere egli caduto in diffidenza di chi..... potrebbe aver caro che fosse rimosso: e collocandolo in qualche posto un po’ lontanetto, facciamo un viaggio e due servigi; tutto s’aggiusta da sè, o per meglio dire, non v’è nulla di guasto.”

Questa conclusione, il padre provinciale se l’aspettava fino dal principio della parlata. — Eh già! — pensava tra : — vedo dove mi vuoi riuscire. Siamo alle solite; quando un povero frate è in urto con voi altri, con uno di voi altri, o vi dà ombra, subito, senza cercare se abbia torto o ragione, il superiore ha da farlo passeggiare. — [p. 202 modifica]

E quando il conte tacque ed ebbe messo un lungo soffio, che equivaleva ad un punto fermo, “capisco benissimo,” disse il provinciale, “quel che vuol dire il signor conte: ma prima di fare un passo....

“È un passo e non è un passo, padre molto reverendo: è una cosa naturale, una cosa ordinaria; se non si viene a questo, e subito, io prevedo un monte di disordini, un’iliade di guai. Uno sproposito.... mio nipote non crederei.... ci son io, per questo.... Ma, al punto a cui la faccenda è arrivata, se non la tronchiamo fra noi, senza perder tempo, con un colpo netto, non è possibile che si fermi, che resti segreta..... e allora non è più solamente mio nipote.... Destiamo un vespaio, padre molto reverendo. Ella vede: siamo una casa, abbiamo attinenze.....

“Cospicue.”

“Ella m’intende: tutta gente che ha sangue nelle vene, e che a questo mondo.... è qualche cosa. C’entra il puntiglio, diviene un affare comune; e allora.... anche chi è amico della pace..... Sarebbe un vero crepacuore per me di dovere..... di trovarmi.... io che ho sempre avuta tanta propensione pei padri cappuccini....! [p. 203 modifica]Loro padri, per far del bene, come fanno con tanta edificazione del pubblico, hanno bisogno di pace, di non aver brighe, di stare in buona armonia con chi..... E poi, hanno parenti al secolo.... e questi affaracci di puntiglio, per poco che vadano in lungo, s’estendono, si ramificano, tiran dentro.... mezzo mondo. Io mi trovo in questa benedetta carica che mi obbliga a sostenere un certo decoro..... Sua eccellenza.... i miei signori colleghi.... tutto diviene affar di corpo.... massime con quell’altra circostanza...... Ella sa come vanno queste cose.”

“Veramente” disse il padre provinciale, “il padre Cristoforo è predicatore; e già io aveva qualche pensiero.... Mi viene appunto domandato...... Ma in questo momento, in tali circostanze, potrebbe parere una punizione: e una punizione prima di aver ben messo in chiaro....

“Oibò punizione oibò: un provvedimento prudenziale, un ripiego di comune convenienza, per impedire i sinistri che potrebbero.... mi sono spiegato?”

“Tra il signor conte e me, la cosa sta in codesti termini; capisco. Ma, stando il fatto come fu riferito a vostra magnificenza, [p. 204 modifica]è impossibile, dico io, che qualche cosa nel paese non sia traspirato.... Da per tutto c’è degli attizzatori, dei commettimale, o almeno dei curiosi maligni che, se possono vedere alle prese signori e religiosi, ci hanno un gusto matto; e notano, ciarlano, gridano..... Ognuno ha il suo decoro da conservare; ed io poi, come superiore (indegno) ho un dovere espresso..... L’onor dell’abito...... non è cosa mia.... è un deposito del quale..... Il suo signor nipote, giacchè è così alterato, come dice vostra magnificenza, potrebbe prender la cosa come una soddisfazione data a lui, e.... non dico menarne vampo, trionfarne, ma....

“Mi burla vostra paternità? mio nipote è un cavaliere che nel mondo è considerato.... secondo il suo grado e il dovere; ma dinanzi a me è un ragazzo; e non farà nè più nè meno di quello che gli prescriverò io. Le dirò di più, che mio nipote non ne saprà niente. Che bisogno abbiam noi di render conti? Son cose che facciamo tra noi, da buoni amici; e tutto ha da rimaner sotterra. Non si dia pensiero di questo. Debbo essere avvezzo a tacere.” E soffiò. “Quanto ai cicaloni,” riprese, “che [p. 205 modifica]vuol ella che abbiano a dire? L’andare di un religioso a predicare in un’altra parte, è cosa così ordinaria! E poi, noi che vediamo.... noi che prevediamo..... noi che dobbiamo.... non abbiamo a curarci delle ciarle.”

“Però, affine di prevenirle, sarebbe bene che in questa occasione il suo signor nipote facesse qualche dimostrazione, desse qualche segno palese di amicizia, di deferenza.... Non per noi, ma per l’abito....

“Sicuro, sicuro; questo è giusto.... Però non fa bisogno: so che i cappuccini sono sempre accolti come si dee da mia nipote. Lo fa per inclinazione; è un genio in famiglia: e poi sa di far cosa grata a me. Del resto in questo caso.... qualche cosa di più segnalato.... è troppo giusto. Lasci fare a me, padre molto reverendo; che ordinerò a mio nipote..... Cioè bisognerà insinuargli con prudenza, affinchè non si avvegga di quel che è passato fra noi. Perchè non vorrei alle volte che mettessimo un impiastro dove non c’è ferita. E per quello che abbiamo conchiuso, quanto più presto, meglio. E se si trovasse qualche nicchia un po’ lontano.... per toglier proprio ogni occasione....[p. 206 modifica]

“Mi vien chiesto appunto un soggetto per Rimini; e fors’anche, senza altra cagione, avrei potuto metter gli occhi.....”

“Molto a proposito, molto a proposito. E quando...?

“Giacchè la cosa s’ha da fare, si farà presto.”

“Presto, presto, padre molto reverendo: meglio oggi che domani. E,” continuava poi, alzandosi da sedere, “se posso qualche cosa, io e i miei attenenti, pei nostri buoni padri cappuccini....

“Conosciamo per prova la bontà della casa,” disse il padre provinciale, alzato anch’egli e avviatosi verso l’uscio, dietro al suo vincitore.

“Abbiamo spenta una favilla”, disse questi, procedendo lentamente, “una favilla, padre molto reverendo, che poteva destar un grande incendio. Fra buoni amici, con due parole si acconciano di gran cose.”

Giunto alla porta spalancò le imposte, e volle assolutamente che il padre provinciale andasse innanzi: entrarono nell’altra stanza, e si mescolarono al resto della compagnia.

Un grande studio, una grand’arte, di gran parole metteva quel signore nel maneggio di un affare; ma produceva poi anche effetti [p. 207 modifica]corrispondenti. In fatti, col colloquio che abbiam riferito, egli riuscì a fare andar fra Cristoforo a piedi da Pescarenico a Rimini; che è un bel passeggio.

Una sera, giunge a Pescarenico un cappuccino di Milano, con un piego pel padre guardiano. V’è l’obbedienza per fra Cristoforo di portarsi a Rimini, dove predicherà la quaresima. La lettera al guardiano porta l’istruzione d’insinuare al detto frate che deponga ogni pensiero d’affari che potesse avere avviati nel paese da cui dee partire, e che non vi mantenga corrispondenza: il frate latore debb’essere il compagno di viaggio. Il guardiano non dice nulla la sera; al mattino, fa chiamar fra Cristoforo, gli mostra l’obbedienza, gli dice che vada a prendere la sporta, il bordone, il sudario e la cintura, e con quel padre compagno, che gli presenta, si metta poi tosto in cammino.

Se fu un colpo pel nostro frate, pensatelo. Renzo, Lucia, Agnese gli corsero tosto in mente; e sclamò, per così dire, tra sè: — Oh Dio! che faranno quei tapini, quando io non sia più qui? — Ma tosto levò gli occhi al cielo, e si accusò di aver mancato di fiducia, d’essersi creduto necessario a qualche cosa. Pose le mani in croce sul petto, in segno di [p. 208 modifica]obbeedienza, e chinò la testa dinanzi al padre guardiano; il quale lo trasse poi in disparte, e gli diede quell’altro avviso, con parole di consiglio, e con significazione di precetto. Fra Cristoforo andò alla sua cella, tolse la sporta, vi ripose il breviario, il suo quaresimale, e il pane del perdono; si cinse le reni con una correggia di pelle, si accomiatò dai confratelli che si trovavano in convento, andò per ultimo a prender la benedizione del guardiano, e col compagno prese la via che gli era stata prescritta.

Abbiam detto che don Rodrigo, rinfervorato più che mai di venire a fine della sua bella impresa, s’era risoluto di cercare il soccorso d’un terribile uomo. Di costui non possiamo dare nè il cognome, nè il nome, nè un titolo, nè anche una congettura sopra niente di tutto ciò: cosa tanto più strana, che del personaggio troviamo memoria in più d’un libro (libri stampati, dico) di quel tempo. Che il personaggio sia quel medesimo, l’identità dei fatti non lascia luogo a dubitarne; ma da per tutto un grande studio a scansarne il nome, quasi avesse dovuto bruciar la penna, la mano dello scrittore. Francesco Rivola, nella vita del cardinale Federigo Borromeo, avendo a parlar di quell’uomo, lo dice “un [p. 209 modifica]signore altrettanto potente per ricchezze, quanto nobile per nascita,” senza più. Giuseppe Ripamonti, che nel quinto libro della quinta decade della sua Storia Patria, ne fa più distesa menzione, lo nomina uno, costui, colui, quest’uomo, quel personaggio. “Riferirò,” dic’egli nel suo bel latino, da cui traduciamo come ci vien fatto; “il caso di uno, che essendo dei primi fra i grandi della città, aveva stabilito in villa il suo domicilio; e quivi assicurandosi a forza di delitti, teneva per niente i giudizii, i giudici, ogni magistratura, la sovranità. Posto sull’estremo confine dello stato menava una sua vita indipendente; raccettatore di fuorusciti, fuoruscito un tempo egli stesso, poi tornato a man salva....” Da questo scrittore piglieremo in seguito qualche altro passo, che venga a taglio per confermare e per dilucidare la narrazione del nostro autore anonimo, col quale tiriamo innanzi.

Fare ciò ch’era vietato dagli ordini pubblici, o impedito da una forza qualunque; essere arbitro, padrone negli affari altrui, senza altro interesse che il gusto di comandare; esser temuto da tutti, aver la mano da coloro che erano soliti averla dagli altri; tali erano state in ogni tempo le passioni principali di [p. 210 modifica]costui. Fino dall’adolescenza, allo spettacolo e al romore di tante prepotenze, di tante concussioni, di tante gare, alla vista di tanti tiranni, egli provava un misto sentimento di sdegno e d’invidia impaziente. Giovane, e vivendo in città, non tralasciava occasione, anzi ne andava in cerca, di pararsi dinanzi ai più famosi di quella professione, di mettersi loro tra piedi, per provarsi con loro e fargli stare, o tirargli a cercare la sua amicizia. Superiore alla più parte di ricchezze e di seguito, e forse a tutti d’ardire e di fortezza, ne ridusse molti a recedere da ogni rivalità, molti ne conciò male, molti ne ebbe amici; non già amici alla pari, ma, come soltanto potevano piacere a quel suo animo tracotato e superbo, amici subordinati, che facessero una certa professione d’inferiorità, che gli stessero a mano manca. Nel fatto però veniva anche egli ad essere il faccendone, lo stromento di tutti coloro: essi non mancavano di richiedere nei loro impegni l’opera d’un tanto ausiliario; per lui, tirarsene indietro sarebbe stato scadere dalla sua riputazione, venir meno al suo assunto. Tal che, per conto suo e per conto d’altri, tante ne fece, che non bastando nè il nome, nè il parentado, nè gli amici, nè la sua audacia a sostenerlo contra i bandi [p. 211 modifica]publici, e contra tanti odii potenti, dovette dar luogo, e uscir dello stato. Credo che a questa circostanza si riferisca un tratto notabile raccontato dal Ripamonti. “Una volta che egli ebbe a sgombrare il paese, la segretezza che usò, il rispetto, la timidezza furono tali: attraversò la città a cavallo, con un seguito di cani, a suon di tromba; e passando dinanzi al palazzo di corte, lasciò alle guardie una imbasciata di villanie pel governatore.”

Nell’assenza egli non ruppe le pratiche, nè intermise le corrispondenze con quei suoi tali amici, i quali rimasero uniti con lui, per tradurre letteralmente dal Ripamonti, “in lega occulta di consigli atroci, e di cose funeste.” Pare anzi che allora contraesse in più alti luoghi certe nuove terribili pratiche, delle quali lo storico summentovato parla con una brevità misteriosa. “Anche alcuni principi esteri si valsero più volte dell’opera sua per qualche importante uccisione, e spesso gli ebbero a mandar di lontano rinforzi di gente che servisse sotto i suoi ordini.”

Finalmente, (non si su dopo quanto tempo) o fosse levato il bando per qualche potente intercessione, o l’audacia di quell’uomo [p. 212 modifica]gli tenesse luogo d’ogni altra franchigia, egli si risolvette di tornare a casa, e vi tornò in fatti; non però in Milano, ma in un castello d’un suo feudo, sul confine col territorio bergamasco, che allora era, come ognun sa, dominio veneto; e quivi fissò la sua dimora. “Quella casa,” cito ancora il Ripamonti, “era come una officina di mandati sanguinosi: servi banditi nella testa e troncatori di teste: nè cuoco, nè guattero dispensati dall’omicidio: le mani dei ragazzi insanguinate.” Oltre questa bella famiglia domestica, ne aveva, come afferma lo stesso storico, un’altra di simili soggetti dispersi, e posti come a quartiere in varii luoghi dei due stati, sul lembo dei quali viveva, e pronti sempre ai suoi ordini.

Tutti i tiranni, a un bel giro all’intorno, avevano dovuto, chi in una occasione e chi in un’altra, scegliere fra l’amicizia e l’inimicizia di quel tiranno straordinario. Ma ai primi che avevano voluto tentar la prova di resistergli, ne era incolto così male, che nessuno si sentiva più di tentarla. Nè pur coll’attendere ai fatti suoi, collo stare, come si dice, ne’ suoi panni, uno poteva tenersi indipendente da lui. Capitava un suo messo ad intimare che si desistesse dalla tale impresa, [p. 213 modifica]che si cessasse di molestare il tal debitore, o cose simili: bisognava rispondere si o no. Quando una parte, con un omaggio vassallesco, era andata a rimettere nell’arbitrio di lui un negozio qualunque, l’altra parte si trovava a quella dura eletta o di stare alla sentenza sua, o di chiarirsi suo nemico; il che equivaleva all’essere, come si diceva altre volte, tisico in terzo grado. Molti, avendo il torto, ricorrevano a lui, per aver ragione in effetto; molti vi ricorrevano avendo ragione, per preoccupare un tanto patrocinio e chiuderne l’adito all’avversario: gli uni e gli altri divenivano più specialmente suoi dipendenti. Accadde qualche volta che un debole oppresso, angariato, amareggiato da un prepotente, si voltò a lui; ed egli, pigliate le parti del debole forzò il prepotente a rimanersi dalle offese, a riparare il torto, a discendere alle scuse; o renitente lo schiacciò, lo costrinse a sfrattar dai luoghi che aveva tiranneggiati, o gli fece anche pagare un più spedito e più terribile fio. E in questi casi, quel nome tanto temuto e abborrito era pure stato benedetto un momento: perchè, non dirò quella giustizia, ma quel rimedio, quel ricambio qualunque, nelle circostanze dei tempi, non si sarebbe potuto aspettarlo da nessun’altra forza nè privata [p. 214 modifica]nè publica. Più sovente, anzi per l’ordinario, la sua era stata ed era ministra di voleri iniqui, di soddisfazioni atroci, di capricci oltraggiosi. Ma gli usi così diversi di quella forza producevano pure un effetto medesimo, d’imprimere negli animi una grande idea di quanto egli potesse volere ed eseguire in onta dell’equità e dell’iniquità, quelle due cose che frappongono tanti impedimenti alla volontà degli uomini, e li fanno così spesso tornare addietro. La fama dei tiranni ordinarii rimaneva per lo più ristretta in quel picciolo tratto di paese dove erano continuamente, o spesso presenti ad opprimere: ogni distretto aveva i suoi; e si rassomigliavan tanto, che non v’era ragione perchè la gente si occupasse di quelli di cui non sentiva il peso e l’infestazione. Ma la fama di questo nostro era già da gran tempo diffusa in ogni angolo del milanese: da per tutto la sua vita era un soggetto di racconti popolari; e il suo nome significava qualche cosa di strapotente, di scuro, di favoloso. Il sospetto che da per tutto si aveva de’ suoi collegati e de’ suoi sicarii contribuiva pure a tener viva da per tutto la memoria di lui. Non erano più che sospetti; giacchè, chi avrebbe professata apertamente una tale dipendenza? ma ogni tiranno poteva [p. 215 modifica]essere un suo collegato, ogni malandrino, un de’ suoi; e l’incertezza stessa rendeva più vasta l’opinione, e più cupo il terrore della cosa. E ogni volta che in qualche parte si vedessero comparir figure di scherani incognite e più brutte dell’ordinario, ad ogni fatto enorme, di cui non si sapesse alla prima disegnare o indovinar l’autore, si proferiva, si mormorava il nome di colui, che noi, grazie a quella benedetta, per non dir altro, circospezione dei nostri scrittori, saremo costretti di chiamare l’innominato.

Dal castellaccio di costui al palazzotto di don Rodrigo non v’era più di sette miglia: e quest’ultimo, appena divenuto padrone e tiranno, aveva dovuto vedere che a così poca distanza da un tal personaggio, non era possibile far quel mestiere senza venire alle prese, o andar d’accordo con lui. Gli s’era perciò offerto e gli era divenuto amico, al modo di tutti gli altri, s’intende: gli aveva renduto più d’un servigio (il manoscritto non dice di più); e ne aveva riportate ad ogni volta promesse di ricambio e d’aiuto, in qualunque congiuntura. Poneva però molta cura a nascondere una tale amicizia, o almeno a non lasciare scorgere quanto stretta e di che natura ella fosse. Don Rodrigo voleva bensì [p. 216 modifica]fare il tiranno, ma non il tiranno salvatico: la professione era per lui un mezzo, non uno scopo: voleva dimorare liberamente in città, godere i comodi, gli spassi, gli onori della vita civile; e perciò gli bisognava usar certi riguardi, tener conto delle parentele, coltivar le amicizie di personaggi graduati, avere una mano sulle bilance della giustizia, per farle all’uopo tracollare dalla sua parte, o per farle sparire, o per darle anche in qualche occasione sulla testa di qualcheduno che in quel modo si potesse aggiustar più facilmente che con l’armi della violenza privata. Ora, l’intrinsichezza, diciam meglio, una lega con un famigerato di quella sorte, con un aperto nimico della forza pubblica, non gli avrebbe certamente fatto buon giuoco a ciò, massimamente presso al conte zio. Però quel tanto d’una tale amicizia che non si poteva nascondere, poteva passare per un uficio indispensabile verso un uomo la cui inimiciza era troppo pericolosa, e così ricevere scusa dalla necessità: giacchè chi ha l’assunto di provedere, e non ne ha la voglia, o non ne trova il verso, alla lunga consente che altri provegga da sè fino ad un certo segno ai casi suoi; e se non acconsente espressamente, chiude un occhio. [p. 217 modifica]

Un mattino don Rodrigo uscì a cavallo, in treno da caccia, con una picciola scorta di scherani a piede; il Griso alla staffa, e quattro altri in coda; e si avviò al castello dell’innominato.