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gli tenesse luogo d’ogni altra franchigia, egli si risolvette di tornare o casa, e vi tornò in fatti; non però in Milano, ma in un castello d’un suo feudo, sul confine col territorio bergamasco, che allora era, come ognun sa, dominio veneto; e quivi fissò la sua dimora. “Quella casa,” cito ancora il Ripamonti, “era come una officina di mandati sanguinosi: servi banditi nella testa e troncatori di teste: nè cuoco, nè guattero dispensati dall’omicidio: le mani dei ragazzi insanguinate.” Oltre questa bella famiglia domestica, ne aveva, come afferma lo stesso storico, un’altra di simili soggetti dispersi, e posti come a quartiere in varii luoghi dei due stati, sul lembo dei quali viveva, e pronti sempre ai suoi ordini.
Tutti i tiranni, a un bel giro all’intorno, avevano dovuto, chi in una occasione e chi in un’altra, scegliere fra l’amicizia e l’inimicizia di quel tiranno straordinario. Ma ai primi che avevano voluto tentar la prova di resistergli, ne era incolto così male, che nessuno si sentiva più di tentarla. Nè pur coll’attendere ai fatti suoi, collo stare, come si dice, ne’ suoi panni, uno poteva tenersi indipendente da lui. Capitava un suo messo ad intimare che si desistesse dalla tale impresa,