I divoratori/Libro secondo/XVIII
Questo testo è completo. |
◄ | Libro secondo - XVII | Libro secondo - XIX | ► |
XVIII.
Dunque Nancy non andò a Porto Venere. Nè alla Spezia. Perchè in quegli azzurri ed incantevoli luoghi non si trovavano dei grandi maestri di violino.
Si trovavano, è vero, dei balconi colla vista sulla immensa vastità del mare; e di fronte all’acqua (azzurra e danzante ispiratrice) Nancy avrebbe potuto vedere le sue visioni, e sognare i suoi sogni, e scrivere il suo Libro. Ma — come diceva così saggiamente Fräulein — un libro si può scrivere dovunque, pur di avere una tavola e un calamaio. Mentre Anne-Marie bisognava che coltivasse il suo dono, e seguisse la sua vocazione. Anne-Marie doveva studiare il violino.
Così scrisse Nancy al Selvaggio spiegandogli tutto ciò; e poi andò con Anne-Marie e Fräulein a Praga, dove viveva il più grande di tutti i maestri di violino. Egli era un boemo, rude, selvaggio e barbuto, e teneva chiuso nel suo aspro petto il suo cuore sensitivo, ferito dalle ingratitudini di grandi artisti. Egli abitava in una brutta strada della vecchia Praga, e la sua casa — vicina a un negozio di casse da morto — era la più brutta di tutta la strada.
Egli passava i suoi giorni tra mani destre e sinistre, tra orecchie intonate e stonate, tra cranii dai capelli lunghi e dai cervelli piccoli. E alle quattro dita delle mani sinistre egli insegnava a danzare e balzare su quattro corde tese; e ai polsi delle destre egli dava forza e flessibilità per controllare il guizzo e il volo d’un arco. E quando aveva insegnato tutto ciò, le mani stringevano le sue, e se ne andavano per il mondo a suonare fantasie e rapsodie e sonate e danze; ma raramente estraevano dalle tasche i non pagati onorarii dovuti al grande maestro. Perciò il grande maestro viveva sempre nella brutta casa, nella brutta strada vicino alle casse da morto.
Questo grande maestro udì Anne-Marie e subito l’adorò. Anche lui la chiamò «das Wunderkind», e prese le due piccole mani e vi mise due paia di piccole ali. Ed Anne-Marie con esse volò sopra a tutte le difficoltà.
Nancy tolse dai bauli il manoscritto del Libro, e lo mise sulla tavola della sua camera. L’appartamento che avevano preso era anch’esso nella brutta strada della vecchia Praga, perchè così erano più vicine al Professore.
Di fronte alla finestra di Nancy era una fila di case gialle, di case grigie e di case rosse. Nancy le vedeva ogni volta che alzava gli occhi dal tavolo.
Ma aveva il suo manoscritto e la sua penna e il suo inchiostro, e poteva lavorare senza che nessuno la disturbasse. È vero che il violino di Anne-Marie si udiva anche traverso le due porte chiuse; ma questo, naturalmente, non era che una gioia per Nancy. E poi, se essa si legava una sciarpa strettamente intorno al capo e sulle orecchie, non sentiva quasi più nulla.
Dunque, Nancy non aveva proprio alcuna scusa per non lavorare. Se lo diceva anche lei, mille volte al giorno, seduta davanti al suo tavolo colla sciarpa legata intorno alle orecchie e gli occhi fissi sulla casa gialla dirimpetto.
Dalla finestra aperta entrava il suono di dure e forti voci czeche: lo strano linguaggio nuovo, di cui Nancy aveva imparato soltanto due o tre parole, le suonava costantemente nell’orecchio: «Kavarna... Vychod... Narodni Dum...» le insensate parole le giravano nella testa come un carosello multicolore.
Anche di notte, in sogno, le pareva di tenere lunghe conversazioni in czeco. Ma a tutto ciò ella si abituerebbe tra poco, e potrebbe alla fine mettersi tranquillamente al suo lavoro.
Poichè ora non aveva più ansie, nè preoccupazioni. Del benessere morale e fisico di Anne-Marie si occupava Fräulein Müller, con incessante ed agitata cura: ritenendo di uguale importanza la passeggiata nel parco e lo studio dei «Zigeunerweisen»; la scodella di minestra, e la preghiera mattutina e serale.
E inoltre, Nancy non aveva preoccupazioni materiali. Ella aveva deciso di accettare — con gratitudine e senza farsi degli scrupoli — tutto ciò che le occorreva, per due anni, dal suo amico il Selvaggio. Assai prima che fossero passati due anni il Libro sarebbe scritto e pubblicato, ed ella gli ripagherebbe tutto. E, del resto, che importava ripagare? Egli non chiedeva che di saperla felice; di poterle procurare due anni di tranquillità in cui essa vivrebbe per sè, e compirebbe la sua missione. Così egli scriveva. Egli doveva ritornare al Transvaal e restarvi, poco più, poco meno, per due anni. Ch’ella frattanto seguisse la chiamata del suo genio, da troppo tempo soffocato dalle meschine cure materiali! vivesse la sua vita, compiesse la sua missione, scrivesse il suo Libro!...
Dunque Nancy sedette davanti ai suoi manoscritti e cercò di vivere la sua vita, e di non udire il violino, e di non badare alle continue interruzioni.
Ma nel cuore le sorgeva insistente ed angosciante il desiderio di rivedere il Selvaggio prima che ripartisse dall’Europa: la straziava, la ossessionava uno struggimento acuto, doloroso, di rivedere i suoi freddi occhi azzurri, di riudire la sua voce grave e severa; di sentire ancora intorno alla sua propria fralezza, la proteggente forza di lui.
E accanto a questa angoscia era l’altro lancinante tormento: il pensiero della sua vita sterile e del suo ingegno sprecato.
Poichè ben lo sapeva, qui, a Praga, ella non avrebbe mai fatto nulla, non avrebbe mai terminato il Libro...
Ancora una volta la percezione acuta della fuga del tempo e della brevità della vita le morse, come un serpe avvelenato il cuore.
La belle qui veut, |
Ed ella gli scrisse: «Non posso lavorare. Sono sommersa da un’onda d’indicibile tristezza. Un chimerico desiderio che non ha nome, si abbatte su me, e mi distrugge. Oh, mio amico diletto, prima di partire, venite a portarmi via! Riportatemi in Italia, e chiudetemi in qualche asilo fiorito e solitario, dove io possa riudire la voce della mia fantasia riparlarmi nel linguaggio di mia madre. Mi sembra che colla dolce cadenza latina, anche la voce dell’estro perduto si risveglierà. Talvolta, io sento tale possanza, tale foga di turbolenta ispirazione in me, che mi sembra di poter scuotere il mondo! Ma poi ecco che il mio Genio s’impiglia e s’imprigiona nelle piccolezze, come un gigantesco angelo a cui fossero legate con del filo da cucire le grandi ali fremebonde...»
La porta si aprì, e Fräulein si affacciò solenne e sibillina, con gli occhi appannati di lagrime.
— Nancy! Oggi per la prima volta Anne-Marie suonerà del Beethoven. Vieni a sentire.
Nancy si alzò, rapida, e seguì Fräulein nella sala dove il Professore e il suo assistente erano venuti a dare la lezione ad Anne-Marie.
Il Professore, che non suonava il pianoforte, aveva condotto l’assistente per gli accompagnamenti, e questi sedeva già davanti al Bechstein, dondolando il capo nero e crespo, pronto a cominciare. Anne-Marie era ritta davanti al leggìo, già in posizione col violino alzato. Il Professore, colle mani dietro la schiena, la guardava.
La romanza in fa del Beethoven principiò.
La semplice melodia iniziale fluì pura e piana dalle dita della bimba, e fu ripetuta dal pianoforte solo. L’ostinato crescendo della seconda frase si sollevò gradualmente fino all’appassionata nota acuta, e poi si lasciò ricondurre alla mitezza, dai trilli ritrosetti e teneri — come un uomo incollerito s’intenerisce alla voce di un fanciullo.
Marziali note al pianoforte. La testa nera ed energica del pianista segnava a scosse il ritmo. Ed ora Beethoven riconduceva l’arco di Anne-Marie dolcemente, a passi indugianti verso la china soave della prima melodia. E ancora una volta la testa dell’assistente si dimenò, ritmica, sull’«a solo», pel pianoforte. Giù, sul «fa» acuto cadde con attacco deciso e veemente l’arco di Anne-Marie.
— Brava! — gridò a un tratto il Professore. — Fa, mi, sol..., suonali sulla quarta corda!...
Anne-Marie senza smettere fece cenno di sì col capo. Ora le otto note accentuate del pianoforte parevano una fanfara, e furono ripetute da Anne-Marie.
— Questo dev’essere come un suon di tromba, — gridò il Professore.
— Si, sì, mi ricordo, — disse Anne-Marie.
Ed ecco, per la terza volta, ritornare la melodia; Anne-Marie la suonò, piano come un sospiro — pareva suonare in sogno — e fece un gruppetto pianissimo, di una leggerezza così vaporosa, che il Professore si cacciò violentemente le mani in tasca e l’assistente stupefatto volse il capo dal pianoforte e la guardò. Era la fine: le scale ascendenti fluttuarono sempre più lene e lenti... si dileguarono... e le tre ultime note chiamanti, solitarie, caddero come stelle — pure, splendide, lontane.
Per un istante nessuno parlò. Poi il Professore si avvicinò alla bambina.
— Perchè hai detto «mi ricordo» quando io ti ho detto di far le note come uno squillo di tromba?
— Non so, — disse Anne-Marie con quell’aria vaga e trasognata che aveva sempre dopo aver suonato.
— Che cosa intendevi di dire?
— Niente, volevo dire che capivo, — disse la bimba.
Il Professore la guardava con le ciglia aggrottate, e le sue labbra movevano nervosamente.
— Tu hai detto «mi ricordo»! Ed io credo che tu «ricordi»; tu non stai imparando nulla di nuovo. Tu stai ricordandoti di cose che hai saputo già.
Fräulein intervenne, agitata:
— Ach, Herr Professor! Le accerto, che la bambina non ha mai veduto questo pezzo! Io sono stata sempre con lei da che ha cominciato a studiare il violino, e le assicuro...
Il Professore agitò una mano impaziente. Teneva ancora lo sguardo fisso su Anne-Marie.
— Chi è? — mormorò scotendo la grigia testa tremula. — Chi abbiamo qui? Che sia Paganini!... Se fosse Mozart? Spero che sia Mozart. — Si volse all’assistente che dalla fine della Romanza era rimasto immobile al pianoforte, coi gomiti sulla tastiera e la faccia tra le mani: — Bertolini! Che ne dici tu? Chi è davanti a noi in questo involucro?
— Io non so, — disse Bertolini, commosso. — Io sono muto.
— Ringrazia il cielo che non sei sordo, — disse il Professore, — e che ti è stato concesso di udire questa meraviglia.
Poi il Professore cercò vagamente il cappello, e, trovatolo, prese commiato perchè aveva molto da fare. Bertolini rimase indietro a riporre nella cassetta il prezioso Guarnerius del Professore, a lui più caro che moglie e figli; e la sua musica; e i suoi guanti; e i suoi occhiali; e tutte le altre cose che il Professore dimenticava, perchè era un uomo molto distratto.
E Nancy disse all’assistente:
— Lei è Italiano?
— Sissignora, — disse Bertolini, facendosi rosso.
— Anch’io, — disse Nancy. E furono amici.
Bertolini venne l’indomani a domandare se poteva studiare un po’ con «la piccola Wunder»; e i due rifecero insieme la romanza in fa, e poi la Romanza in sol.
E poi della musica dei vecchi classici italiani, Corelli e Vivaldi: preludii e correnti, gighe e sarabande. Bertolini tornò anche il giorno seguente; e il giorno dopo; e tutti i giorni. Egli era un violinista di second’ordine, e un pianista di terz’ordine. Ma era un musicista di primissimo ordine — musicista nato: con tutte le manìe, e la sensitività, e la pedantesca minuzia, e la eccitabilità del musicista vero. Arrivava timido e corretto, col suo buon viso grasso, placido sotto ai ben spazzolati capelli. E mezz’ora dopo, lo si sentiva per tutta la casa urlare e vociferare, smaniando e battendo i piedi sui pedali.
Ad Anne-Marie piaceva che gridasse. La interessava di osservare le faccie ch’egli faceva quando lei, apposta, suonava delle note sbagliate: lo vedeva scuotere la testa nera e arricciare il naso, e aprire una gran bocca a gridare. Un giorno ella si divertì, in un pezzo scritto nel tono di «fa», a suonare ogni «si» naturale invece che bemolle.
— Si bemolle, — disse Bertolini la prima volta.
— Bemolle! — gridò alla seconda volta.
— BEMOLLE! — urlò, frenetico, calpestando i pedali, afferrando con mano febbrile le irsute nere chiome che gli coprivano serrate e crespe la testa come un berretto d’astrakan.
— Cos’ha questo «bemolle»? — chiese Fräulein alzando blandi occhi dal suo lavoro.
Anne-Marie rise.
— Io non so che cos’ha. Mi pare diventato matto!
Così fu dato a Bertolini il nome di Bemolle, che gli rimase per sempre.
Bemolle, che era sopratutto compositore, ora non componeva più. Egli fu ben presto uno dei Divorati. Le sue mattinate erano prese dal Professore. I suoi pomeriggi egli li diede ad Anne-Marie. Arrivava ogni giorno, dopo colazione, e senza dir nulla si metteva al pianoforte. Con accordi di dolcezza conturbevole, con arpeggi fluidi e preludianti, egli adescava la piccola Anne-Marie che lasciava giocattoli e racconti delle fate, e s’avvicinava, come attirata da un invisibile magnete.
E poichè il Professore aveva detto:
— Con questa bambina si può cominciare dalla fine, — Bemolle la condusse con inviti astuti e con musicali allettamenti, a traversare lieta e leggiera i trabocchetti del Paganini, gli abissi del Beethoven, le alture di Bach.
E i suoi nove anni non erano compìti ancora.
E venne il giorno in cui Nancy fu chiamata dal suo lavoro per sentire Anne-Marie che suonava la «Chaconne».
Quel giorno Nancy, tornando nella sua camera, piegò e mise via la sciarpa con cui si era coperta le orecchie. Radunò i suoi manoscritti, li legò insieme, li baciò e disse loro addio. Poi li ripose. Per sempre.
In risposta alla lettera di Nancy, il Selvaggio venne a Praga.
Era assai confortante il rivederlo. La sua statura e le sue larghe spalle riempivano l’appartamento; la sua tranquilla forza soggiogava e calmava gli animi. Ben egli era «il baluardo» di cui Clarissa aveva parlato nella Villa Solitudine, tanti anni fa.
Fortunata la donna che appartiene a un baluardo. Dopo ch’ella si sarà sforzata a buttarlo giù, si sarà agitata per smuoverlo, affannata per raggirarlo, e ferita per cozzarvi contro, siederà tranquilla e domata nella sua ombra protettrice, e ringrazierà il cielo d’averlo trovato incrollabile.
Un’ora dopo l’arrivo del Selvaggio, la imperiosa Anne-Marie era soggiogata e rapita; Fräulein, sollecita e felice, s’affaccendava per rifocillarlo e ristorarlo; e Nancy, calma e serena in poltrona, lo contemplava; e le pareva che nulla più al mondo potesse perturbarla o ferirla.
Quando fu sera, e che Fräulein era andata a condurre a letto Anne-Marie, il Selvaggio, fumando il suo sigaro, disse a Nancy:
— Ho fatto ciò che mi chiedeste nella vostra lettera.
— Non so più, — disse Nancy.
— L’asilo fiorito e solitario in Italia vi aspetta. Ha un grande giardino e una immensa vista. Quando vi ci avrò installata, parto subito per il Transvaal.
— Oh Dio! — disse Nancy.
— Come dite? — disse il Selvaggio.
— È proprio necessario che andiate così lontano?
— Sì; nella miniera di San Juan c’è qualche cosa che non va. C’è dell’acqua. Avrei dovuto partire molto prima; tre mesi fa, quando ve lo scrissi. Ma questo non vi riguarda, — soggiunse seccamente il Selvaggio.
— È vero, — disse Nancy, molto mite.
— Dunque parliamo di voi e del vostro lavoro in Italia, — disse lui. — Quando contate di partire?
Quella domanda fece scorrere nelle vene di Nancy un fremito di deliziante agitazione. «Quando contate di partire?» Che allettante, che incantevole frase!
— Potrete essere pronta dopo domani?
Anche in quelle parole che balsamo! che diletto! Nancy avrebbe voluto ascoltare eternamente delle domande simili.
Ma egli aveva cessato di domandare, e aspettava ch’ella rispondesse.
Rispose con esitanza.
— Ma... e il violino di Anne-Marie?
Egli aspettò che ella si spiegasse; ed ella spiegò. Anne-Marie sarebbe diventata uno straordinario virtuoso. Anne-Marie era una portentosa rivelazione di genio musicale — il grande maestro stesso lo aveva detto — e doveva quindi restare a Praga, dove vi era il Professore che le dava delle lezioni che nessun altro le poteva dare, e dove v’era anche Bemolle che dedicava tutto il suo tempo e tutto il suo talento a lei.
Il Selvaggio ascoltò, con gli occhi fissi su Nancy.
— E allora...?
— Ah, — sospirò Nancy. — E allora...?
— Volete lasciarla qui? — chiese il Selvaggio.
— No, — disse Nancy.
— Volete condurla via?
— No, — disse Nancy.
— E allora...?
Nancy alzò lo sguardo, turbato sotto le alate sopracciglia, sul viso calmo e forte di lui.
— Aiutatemi, — disse.
Egli terminò di fumare il suo sigaro senza parlare. Poi la aiutò. La guardò bene in viso coi suoi chiari occhi sicuri, mentre le parlava. Disse:
— Voi non potete seguire due strade diverse. Avete detto che il vostro Genio è una gigantesca aquila imprigionata che cogli artigli vi dilania il cuore.
— È vero. Ma da poi che vi scrissi, il Genio di Anne-Marie si è lanciato a risonante volo verso la luce.
— Avete detto che i vostri pensieri non espressi erano un dolore, che il vostro lavoro non compiuto vi era uno strazio.
— È vero. Ma debbo io arrestare una viva fontana di musica, perchè i miei muti libri non scritti abbiano vita?
Egli non rispose subito; poi disse:
— Non vi è mai venuto il pensiero che forse la bambina sarebbe più felice, se, invece di essere un genio, non fosse altro che una semplice bambina?
— No, — disse Nancy, — non mi è mai venuto in mente.
— E non sarebbe forse stato meglio se anche voi, invece di essere poeta, foste stata semplicemente una donna felice?
— Ah! forse, — disse Nancy. — Ma voi contate senza il mago... quello di Hamlin, sapete pure!
— Non ne so nulla, — disse il Selvaggio.
— Ma come? non sapete la leggenda del Pifferaro d’Hamlin? del mago dalle lunghe gambe, dalle vesti pezzate, che arrivò a Hamlin, la città infestata dai ratti?
— Raccontatemela, — disse sorridendo il Selvaggio.
E Nancy raccontò:
— «Quanto mi pagherete,» disse al borgomastro il Pifferaro pezzato, «se vi libero la città dalla peste dei ratti?» — «Cinquemila corone,» disse il borgomastro, ridendo di lui. — «Cinquemila corone!» gridarono i cittadini, sperando in lui. — «Va bene,» disse il Pifferaro. E scese nella strada; e suonò il suo piffero per le vie della città. Allora da tutte le case sbucarono i ratti, tutti i ratti, piccoli e grandi, e lo seguirono. Giunse così alla montagna che è in fondo alla città. La montagna si aprì davanti al Pifferaro ed egli vi entrò suonando il suo piffero. E dietro a lui, spingendosi ed azzuffandosi, entrarono tutti i ratti, piccoli e grandi. La montagna si richiuse. E i ratti non tornarono mai più a Hamlin... Passò un anno, ed ecco, il Pifferaro riapparve a domandare che gli si pagassero le cinquemila corone. «Ma che!» dissero i cittadini che non avevano più ratti in casa. — «Ma che!» disse il borgomastro che non si ricordava di averne mai avuti. — «Va bene,» disse il Pifferaro. E scese nella strada e suonò il suo piffero per le vie della città. Allora da tutte le case sbucarono i bambini, tutti i bambini, piccoli e grandi, e lo seguirono, ballando e cantando. Giunsero così fino alla montagna che è in fondo alla città. E la montagna si aprì davanti al Pifferaro ed egli vi entrò suonando il suo piffero. E dietro a lui, spingendosi ed azzuffandosi, entrarono tutti i bambini, piccoli e grandi. E la montagna si richiuse. E i bambini non tornarono mai più a Hamlin.»
Nancy tacque, e nelle chiare iridi veleggiarono i sogni. Poi soggiunse:
— Io ero certo tra quei bambini che il Pifferaro chiamò!
E Nancy rise, con un’ombra di tristezza nelle pupille.
Il Selvaggio la guardava pensando che tra pochi giorni non l’avrebbe veduta più. Ma Nancy seguiva il filo dei suoi pensieri.
— Il Pifferaro della Gloria! È lui, che già da bambina m’ha chiamata!... Quelli che l’hanno udito, devono seguirlo. Devono lasciar tutto, calpestar tutto, e via, per vette e balze e precipizii, lo devono seguire!... Nei giorni e nelle notti la sua chiamata mi ha scosso i nervi, mi ha tolto a strappi e a brandelli il cuore. Ma non è, non è la sua chiamata che fa male: è di non poterla seguire! È l’essere fermati e trascinati indietro da tutte le affettuose mani protese! I piccoli doveri quotidiani, come i grandi ed eroici amori, tutti, tutti s’uniscono per fermarci e richiamarci, e trattenerci. E così si resta... E si è vinti e vani e vuoti... Sì, vuoti! Perchè la nostra anima è partita dietro al Pifferaro! — Nancy trasse un lungo sospiro, ricordando molte cose. Poi disse, a voce bassa: — Ma ora il Pifferaro ha zufolato anche per Anne-Marie! Essa lo ha udito, e lo dovrà seguire. E se per seguirlo, il suo cammino passa sulle mie speranze infrante e sui miei libri non scritti, ebbene: glieli metterò sotto ai piedini, e le dirò che calpesti, corra, danzi! E che sia benedetta!
— Che sia benedetta, — ripetè il Selvaggio.
E Nancy disse:
— Grazie.
— Allora sia così, — diss’egli dopo una breve pausa. —
— Ma quando avete preso una decisione, non dovete rimpiangerla. Ricordatevi che se volete che vostra figlia sia un’aquila, dovrete strappare le ali vostre, e darle a lei.
— Ogni singola piuma! — disse Nancy, con un pallido sorriso.
— E quando gliele avrete date, — disse il Selvaggio, — ella le stenderà... e vi volerà via.
— Lo so, — disse Nancy.
— E voi resterete sola.
— Sì, — disse Nancy, pensando agli anni a venire.
E per veder lontano, chiuse gli occhi.