I divoratori/Libro secondo/XVII
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XVII.
La casetta di Fräulein a Staten Island nel crepuscolo, coi lumi accesi e con una piccola cuffia di neve sul tetto, pareva una cartolina d’auguri Natalizi; e Nancy vedendola da lontano affrettò i trepidi passi. Era arrivata a New York un’ora fa, e aveva lasciato tutte le sue cose al porto, per correre al Gartenhaus senza perdere un istante. Le dita rosee di Anne-Marie le serravano il cuore. Bisognava vederla subito! subito!
Fräulein, che era sempre vaga e nebulosa in fatto di orarii e di arrivi di bastimenti, aveva deciso che era meglio non andarle incontro, anche per evitare alla bambina l’attesa allo sbarco, sotto le gelide arcate piene di gente e di correnti d’aria. Da tre giorni ella tratteneva in casa Anne-Marie colla frase: «La tua mamma può essere qui da un momento all’altro». Ma dopo le prime ore di febbrile aspettativa e di folli corse al cancello per vedere se la mamma arrivava, Anne-Marie aveva detto a Fräulein che era una bugiarda, ed essendo stata punita per ciò (Fräulein l’aveva con gravità privata di un immaginario dolce di crema che Anne-Marie sapeva essere inesistente) la bimba aveva sussurrato nel peloso orecchio di Schopenhauer, che non crederebbe mai più una parola di ciò che Fräulein le direbbe. Schopenhauer, di cui il nome era stato scelto da Fräulein con intenti educativi, (cioè, come ella scrisse nel suo diario «per sviluppare la mente infantile, familiarizzandola di buon’ora coi nomi di Autori e di Filosofi») aveva abbaiato scetticamente, dandole ragione; poichè anche a lui Fräulein con sibilanti incoraggiamenti aveva detto: «Adesso viene mistress! Schopenhauer, senti mistress! Cercala, Scioppi!»
Scioppi aveva subito cercato e annasato per tutto il giardino, fiutando e graffiando lungo la siepe e scavando rapidi buchi nelle aiuole e intorno ai cavoli primaticci; ma ben presto aveva compreso che «Mistress» era una vana parola, un mero suono — eccitante, ma illusorio.
E così, per averla troppo presto e troppo a lungo attesa, nessuno aspettava Nancy quando essa entrò per il piccolo cancello e traversò correndo i minuscoli viali del giardino.
Il cuore le batteva in trepida gioia. Quante paure, quante ansie aveva avuto per Anne-Marie! Durante gli ultimi giorni della traversata, era stata assalita da angoscianti e tragiche immaginazioni. Mio Dio! Se Anne-Marie correndo attorno per l’isola fosse caduta in mare? Se il piccolo fox-terrier fosse diventato idrofobo e l’avesse morsicata? Se un automobile — il cuore di Nancy diede un balzo, e ricadde come una palla di piombo, facendola venir meno per il terrore di quella reminiscenza... No! non ci penserebbe più a queste terribili cose! Non ci penserebbe più affatto.
Ma — se Anne-Marie avesse la scarlattina?! D’un tratto Nancy si sentì convinta che Anne-Marie aveva la scarlattina, e che arrivando a Staten Island vedrebbe sventolare dal balconcino del Gartenhaus la bandieretta rossa che avverte...
Nancy era sulla soglia e si apprestò a battere alla porta. Poi, prima di osarlo, si lasciò cadere in ginocchio sul gradino coperto di neve, e congiunse in puerile gesto di preghiera le mani:
— Signore, fate ch’io trovi Anne-Marie sana e felice! Così sia.
Quasi in risposta alla sua preghiera un suono le colpì l’orecchio: un accordo di dolcezza e d’armonìa... poi una lunga nota tenuta e vibrante, seguìta da un rapido gruppetto di note, scoppiettanti e perlate come una risata —
Il violino!
Nancy balzò dalla soglia e corse sotto la finestra del pian terreno illuminata. S’arrampicò sulle roccie ornamentali ammonticchiate sotto alla finestra e, lacerandosi le mani ai spogli rami dei rosai, riuscì ad afferrare il davanzale della finestra e a spingere lo sguardo traverso i vetri chiusi e le lievi tende di mussola. E vide Anne-Marie.
Ritta nel cerchio di luce della lampada, col violino alto sul braccio sinistro e la guancia lievemente posata allo strumento, essa pareva un piccolo angelo musicante di Beato Angelico. Teneva le palpebre abbassate, fluttuanti capelli biondi le ondeggiavano sul viso, lievi e increspati come l’acqua d’un ruscello d’oro.
La gola di Nancy si strinse, e il divino quadro tremò e si confuse davanti ai suoi occhi. Poi la mente di Nancy vacillò, ascoltando. La bambina suonava come un’artista. Trilli e arpeggi le scorrevano dalle dita come cascatelle d’argento. Talvolta un accordo pieno e sonoro ne arrestava la saltellante leggerezza; poi subito scaturivano nuovi trilli, nuove scale rapide e chiare come razzi di luce, sprizzando di musica il crepuscolo.
La mano di Nancy scivolò dall’orlo del davanzale, e un ramo del rosaio picchiò nel vetro. Subito s’udì l’acuto e insistente abbaiare del cane; rapidi passi nel corridoio — e la porta fu aperta dalla sorridente Elisabeth.
Ed ecco Fräulein tutta esclamazioni e domande, ed ecco — ecco Anne-Marie chiusa nelle materne braccia!
Palpitante e viva e stretta se la tenne sul cuore, la sua creatura, ringraziando Iddio per i morbidi capelli che le sfioravano il viso, per la fresca guancia che odorava di sapone, per l’alito dolce che sentiva d’erba e di fiori.
— Anne-Marie! Anne-Marie! Adorata! Sei stata triste? Dimmi, dimmi. Mi hai desiderata tanto? Hai avuto nostalgia di me?
Anne-Marie singhiozzava disperatamente:
— No! no! no! solo adesso! solo adesso!
— Ma adesso mi hai, tesoro mio!
— Non importa! Ma adesso ho la nostalgia, ho la nostalgia, — gridò Anne-Marie incoerente e disperata.
E sua madre la comprese. — Le madri comprendono.
— Anne-Marie! Non ti lascierò mai più. Te lo prometto.
Anne-Marie la guardò traverso le luccicanti lagrime. Sporse la manina umida.
— Parola d’onesto Indiano? — disse gravemente.
— Parola d’onesto Indiano, — disse Nancy mettendo solennemente la sua mano in quella di sua figlia.
Schopenhauer, contorcendosi per gli abbaiamenti e i dimenamenti di coda, fu carezzato e ammirato, e dimostrò la sua bravura nello stare seduto sulle zampe posteriori, colla schiena appoggiata al muro. E Fräulein narrò tutte le notizie riguardo ai cibi che aveva mangiato Anne-Marie, a cui la tapioca non dispiaceva più, ma a cui le prugne cotte dispiacevano sempre. Poi siccome era tardi e Anne-Marie doveva andare a letto, tutti la accompagnarono disopra, anche Schopenhauer. E mentre Elisabeth slacciava nastrini e bottoni, e Fräulein spazzolava i capelli dorati e ne faceva due treccie, Nancy in ginocchio davanti alla piccina rideva con lei e la baciava; e Schopenhauer le mangiava le scarpette.
Quando fu in letto, Nancy e Fräulein la lasciarono; ma Elisabeth e Schopenhauer dovettero rimanere — come sempre — seduti nel buio vicino a lei, finchè si addormentava.
— Ma Fräulein, Fräulein! come la vizii! — disse Nancy scendendo, a braccetto con lei, le piccole scale.
— Zitta, — disse Fräulein misteriosamente. — Ti spiegherò.
E quando furono nel salotto — dove il violino di Anne-Marie era sul tavolo, e il suo arco su una sedia a bracciuoli, e un suo pezzetto di pece sul sofà — Fräulein si fermò e disse con voce solenne:
— Ma tu non sai che quella creatura è un Genio? — Nella voce di Fräulein, pronunciando la parola «Genio» eravi timore riverenziale, omaggio e genuflessione.
Nancy sedette, e fissò con sguardo distratto il pezzetto di pece attaccato al quadrello di panno verde, buttato sul sofà. «Un Genio!» La parola, e il tono di trepidante stupore in cui fu pronunciato, le destò nel cuore un ricordo.
Anni fa, quando la Gloria si era schiusa come un immenso fiore di luce innanzi a lei, e che, all’improvviso fragore del suo successo, tutti i poeti d’Italia erano venuti a felicitarla e ad adularla — Uno non era venuto. Quegli era il grande Cantore della rivolta, il Poeta pagano della nuova Roma. Egli era il Genio, il puro e formidabile Genio latino, ora glorificato, ora vituperato dall’impetuosa ed esaltata gioventù d’Italia. Viveva solitario e lontano dal mondo, sordo ai clamori che si facevano intorno al suo nome; disdegnoso di laudatori come di detrattori; impassibile dinanzi all’invettiva o all’acclamazione.
A trovar lui — dietro suo laconico consenso — Nancy stessa era andata. Un discepolo, lungo di barba e breve di parola, era venuto a prenderla, per condurla alla casa del Poeta, sulle mura d’una turrita città...
Era una vecchia casa; e davanti ad essa Nancy ricordava di aver veduto una sentinella che camminava in su e in giù col fucile sulla spalla. Nancy, allora, aveva riso frivola e stolta:
— Oh! il Poeta ha il soldato di guardia perchè nessuno gli rubi le sue idee! — aveva detto al discepolo.
Ma questi non aveva sorriso.
Poi ella era entrata sola in quella casa, perchè il discepolo non era invitato.
Lo spirito del Silenzio regnava sulla fredda e buia scala.
La porta le era stata aperta da una pallida serva trasognata, di cui l’unica missione al mondo pareva essere quella di non far rumore. Tre tacite donne, figlie forse del Poeta, le avevano detto con voci sommesse di prendere posto. Tutte avevano un’aria dolce e soggiogata come se vivessero giorno per giorno con qualche cosa che le struggesse, che le divorasse. E pareva che ne fossero contente. Esse esistevano unicamente per badare a ciò che il Genio non fosse disturbato.
Ed ecco che la porta si aprì bruscamente e il Genio entrò. Era un fiero uomo, colla testa grigia e leonina e gli occhi impazienti. E Nancy, vedendolo, comprese che si potesse volentieri traversare la vita in punta di piedi per non disturbarlo. Comprese che si abbassasse la voce e si frenasse il gesto davanti a lui. Comprese che egli aveva il diritto di divorare.
Egli teneva tra le mani il piccolo libro di Liriche. Poi parlò in accenti brevi e staccati. Disse:
— Tre sole donne furono poeti: Saffo; Desbordes Valmore; Elisabetta Browning. Ed ora — voi... Andate; e lavorate.
Pronunciò poche altre parole; e tutte colla voce austera e gli occhi foschi sotto le ciglia aggrottate. Ma Nancy gli aveva detto addio, tremante e abbagliata di felicità.
Le Divorate le avevano silenziosamente aperta la porta, ed ella già scendeva, vacillante e col cuore inondato d’emozione, la scala — quando udì un greve passo sopra a lei; si fermò e si guardò indietro.
Egli era uscito sul pianerottolo e la seguiva cogli occhi saettanti sotto la fiera fronte. Essa si fermò e il cuore le batteva forte.
— Addio, — disse il Poeta. — Aspetto e confido.
Ella aveva mormorato:
— Grazie.
E poi era scesa rapida, colla vista turbata da subite lagrime, e non s’era più voltata indietro. Ma sapeva che egli era rimasto lassù, fermo, a guardarla.
«Aspetto e confido». Le tre parole l’avevano scossa e ridestata. Suonavano come una fanfara nel suo cuore.
Ahimè! egli aveva aspettato e confidato invano.
Ella non aveva mai scritto un altro libro.
Ed ora i severi occhi non leggerebbero più nulla. E il grande cuore non aspettava più.
⁂
...Nancy fissava ancora, con occhi vacui, il piccolo pezzo di pece ambrata, attaccato al pezzetto di panno verde, sul sofà — lo fissava senza vederlo. Un Genio!... Era un Genio la sua piccola Anne-Marie? Quella creaturina tenera e gaia come un uccelletto selvatico, era essa uno dei Divoratori?
Sì. Regnava già nel Gartenhaus quell’atmosfera di peritante attesa, di riverente silenzio, d’anelanza al sacrificio: l’atmosfera del Divoratore. Fräulein parlava a voce bassa; Elisabeth e il cane stavano seduti nel buio, mentre il Genio s’addormentava. Il suo violino possedeva la tavola, il suo arco la poltrona, la sua pece il sofà. E Fräulein aveva nei suoi atteggiamenti tutta la sua stupefazione d’una Divorata.
— Quella bambina è un Genio, — continuava a ripetere. — Sarà come Wagner. Ma molto più grande.
Poi parve risvegliarsi e ricordare le cose di minore importanza, le piccole realtà della vita.
— Ah! ma non m’hai detto ancor nulla del tuo viaggio. Che cos’hai combinato cogli editori? Il tuo libro quando escirà? Ma poverina, poverina! devi essere stanca! devi aver fame!... Zitta! facciamo piano!... La stanza della piccina è proprio qui sopra! — E Fräulein si mise un timoroso indice sul labbro. — Se non ti spiace, ti preparerò la cena in cucina. Anne-Marie, quando non è lei che mangia, non vuol sentir rumore di piatti.