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Novella I

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Giornata prima - Ragionamento della prima giornata Giornata prima - Novella II

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NOVELLA I


Lodovica ama Carlo de’ Viustini, dal quale abbandonata per altra donna, tien modo che la nuova amata gli uccide; onde egli, di ciò accortosi, doppo gran querela fatta con essa lei, se stesso avvelena.

Fu adunque, e non ha gran tempo, nella nobilissima cittá di Piacenza un giovanetto leggiadro, bello e gentile e d’infinite chiare virtuti ornato, il quale per la sua bellezza e per le sue qualitá era da molte nobili e gentil donne sommamente amato; fra le quali una vedova fu che di gran lunga a tutte le altre in amar costui, che Carlo de’ Viustini era detto, passava binanti. Era costei giovane, bella, de bellissimi costumi e di gentili maniere, e nel vero valorosa donna, ancoraché nel fine di questo suo amore male e con poca ventura Io dimostrasse. Seppe costei nella impresa di questo giovanetto cosi bene e cautamente governarsi, che Carlo, quantunque da molte altre piú nobili e per aventura piú belle fusse stimolato, non però fece dono dell’amor suo giamai per lo adietro ad altra che a lei; laonde gran tempo, senza saputa di persona vivente fuorché d’una serva, si goderon felicemente il loro amore. Ma la fortuna, sollecita disturbatrice delle altrui contentezze, non volendo che i due amanti piú in lungo menassero la vita loro fra tanta dolcezza, rivoltò gli occhi di Carlo un giorno nel viso d’una leggiadra giovanetta, alla quale nell’uscir del tempio era per aventura caduto uno guanto nello arrivare che egli ivi fece; il quale, peroché tutto gentile era e cortese, piú presto d’ogni altro ch’ivi fusse, ancoraché molti per mirar cosi bella fanciulla ve ne fussero adunati, si chinò e raccolse il guanto e, con quella piú bella maniera e grazia che mai fusse veduta, riverentemente alla bella giovane Io porse; la quale, non men costumata e saggia che bella e leggiadra, modestissimamente sei prese e lui della fatica, [p. 18 modifica]quanto era allo stato suo dicevole, ringraziò. Affissandogli poscia gli occhi nel viso, che ne’ suoi s’incontrarono, e con tal forza e in tale stella gli dierono colpo, che il misero tal divenne in un subito quale per qualche spazio diviene rosa in terra calpestata. Il cuore, impaurito per cotal percossa, richiamò la virtú alla diffesa, con la quale unitamente in compagnia n’andò di molto sangue; ond’egli senza colore in viso e senza alcuna forza rimase, ancoraché pur tanto in sé si raccogliesse che gli bastasse per esprimere pian piano, si che a pena dalla giovane fusse inteso: — Io son morto. — Partitasi Fioretta, ché cosí nome aveva la bella giovane, con grandissima maraviglia di ciascuno, fu sommamente commendata di bellezza, di grazia e di costumi. Lo infelice Carlo, che ricevuto aveva l’amoroso e mortal colpo, ritiratosi in una delle piú secrete parti del tempio, cominciò fra se stesso a pensare e a considerare in qual guisa potesse cosí maravigliosa bellezza godersi, sempre piú fra sé commendando la leggiadria e i costumi della giá d’ogni suo pensiero vincitrice fanciulla. Né per allora potendosi imaginare altra cosa che in ciò gli potesse giovare, s’avisò non poter pervenire a cosí desiderato fine senza fare con una lunga servitú accorta la giovane dell’ardentissimo amor suo, con speranza ch’ella non gli dovesse poi negare la sua grazia. Dispostosi dunque Carlo a questo, incominciò, con tutti quei modi che a lui, che saggio era, parvero migliori, a fare ogni opera onde Fioretta potesse conoscere l’amore incredibile che egli le portava; in tutto giá disciolto dallo amore che per lo adietro aveva portato a Lodovica, ché cosí nomata era la vedova a cui egli era cotanto caro; la quale guari, come persona accorta e sempre di ciò timorosa, non stette ad accorgersi l’amor di Carlo essersi verso di lei intiepidito, anzi pure in tutto spento. Peroché egli, come persona che poco ogni altra cosa curava, solamente procacciava d’ottener la grazia della nuova amata; laonde rade volte si lasciava da Lodovica vedere, non pure all’usato godere da lei, che piú che la stessa vita l’amava. E dove egli era usato di non lasciar notte fuggire giamai che nelle costei braccia non si ritrovasse, ora per mille lettere e mille prieghi apena, in un [p. 19 modifica]mese, di una voleva rendetesi cortese. Dimorò in questo travaglio quasi uno anno intiero la innamorata vedova, tolerando le sue pene e simulandole con incredibile pazienza, considerando il giovane essersi di lei saziato, né avendo fin allora, quantunque diligentissimamente cercato avesse, potuto sapere che altra bellezza glielo avesse furato. Carlo da altra parte non cessava con ogni pruova tentar lo acquisto cui era prigione; ma poco gli giovava ogni cosa, peroché la giovane, castissima e continentissima, non solamente a’ suoi prieghi né a’ suoi lamenti non si piegò giamai, ma si fattamente ogni sua servitú si recò a noia, che udirlo ricordar non voleva. O Amore, per qual cagione ti piace nel tuo regno cosí tenere le voglie disuguali? Il misero Carlo fu per divenire insano, e in poco tempo, del piú bello e affabile giovane che in Piacenza fusse, divenne il piú brutto, e tanto solitario che quasi per selvaggia fiera n’era da tutti dimostrato. Né però mai si seppe la cagione di tanta e si compassionevole sua mutazione. Chi diceva che egli era o per gelosia o per invidia stato ammaliato, chi che umore di malinconia oppresso l’aveva, e chi altro giudizio del suo male faceva; ma da niuno fu creduto amore dover essere di ciò cagione, si perché egli era da tutti avuto per crudelissimo giovane, e si perché cosí erano estreme le bellezze sue, che troppo diffidi cosa pareva a tutti il pensare che donna alcuna si fosse trovata giamai che gli avesse potuto negar la grazia sua. Tratanto il misero si struggeva, con pochissima speranza di salute e con grandissimo dolore di sé e di chiunque il conosceva; ma piú con le lagrime di Lodovica, la quale non solamente, ancoraché per qual cagione si fusse non sapesse, si vedeva priva d’ogni suo contento, ma morirselo avanti agli occhi senza potergli donare aita. Credette costei finalmente altro che una fiera passione amorosa non aver potuto aver forza di levarlo da lei, che tanto lo amava e che per infiniti altri meriti non doveva essere giamai da lui abbandonata, né che altro che tale infirmitá lo potesse aver condotto al passo ove egli era gionto. Però, fatta buona deliberazione, pensò quello, che mai in altra guisa non aveva potuto intendere, volere, se possibil fosse, da lui stesso sapere. [p. 20 modifica]Laonde, mandata la fante con lettere, e imponendole mille prieghi e parole che a lui da sua parte facesse e dicesse, lo richiese per una sola ora della seguente notte in casa sua; e di tal tempra, come volle fortuna, lo ritrovò, che, come ebbe letta la lettera, giurò d’andare dove ella lo richiedeva. Per che, venutane la notte, senza altro pensare, tutto solo, come usato era, a casa della Lodovica ne andò; la quale, in tutto nascondendo la passione che per lui sopportava, con lietissima faccia lo raccolse e, postasi a sedere sopra un letticciuolo che ivi era, a Carlo comandò che allo incontro le sedesse, e poscia con aspetto giocondo cosí gli cominciò a dire: — Carlo mio, io credo averti per lo passato in tal maniera dimostrato l’amor mio, che molto ben dèi credere che niuna donna giamai amasse uomo con si caldo alletto né si perfettamente come tu sei stato amato da me, come veramente le tue virtuti, i tuoi costumi e le tue bellezze, piú d’ogni altro uomo che mai vivesse, t’hanno fatto degno. Avendoti adunque con effetto mostrato qual sia l’affezion mia verso di te, a me non pare né lecito né necessario qual io mi sia con parole farti chiaro; e credendo tu, come creder dèi, perché egli è vero e perché lo meriti, esser cotanto amato da me, crederai ancora che quello ch’io bramo e ch’io cerco saper da te sia piú tosto per clonarti aiuto, s’io potrò, che per volermi teco della tua ingratitudine dolere. Però disponti a ragionarmi il vero nelle cose delle quali tu ora da me sarai ricercato: né a celarmi cosa alcuna t’induca vergogna né pietá d’avermi cosí mal remunerata dello amore e della ferie mia; ch’io ti giuro per quello immenso amore ch’io ti porto e porterò sempre inviolabilmente. malgrado di quanti torti mi potrai usare, che la contentezza ch’io ho fin qui teco goduta è nasciuta dal veder te lieto di goder me. Né voglio giá dire che il vedermi degna di godere tanta bellezza qual è la tua non mi arreccasse infinito diletto, ch’io direi la bugia; ma giurati ben di novo che il mio sommo piacere era di mirar te sommamente contento di amar me. Ricevendo adunque lo piacer del tuo contento, non ti dèi né vergognare né temer d’avermi fatto oltraggio per lasciar d’amarmi, né dèi aver pietá di me in parte alcuna, perché affanno non sent’io [p. 21 modifica]del vedermi abbandonata da te, avendoti solamente avuto caro per tuo interesse. Ma, perché l’obligo mio verso di te, che ti sei degnato un tempo amarmi, è troppo grande, voglio che tuo guiderdone sia il sempre amarti e il sempre servirti: alla qual servitú e amore, ch’io m’apparecchio eternamente portarti, voglio che per tua cortesia lasci teco tanto di merito acquistare, che sia a sofficienza per constringerti a palesarmi la cagione delle tue pene, accioch’io, che di ugual forza, senza potermi procacciar salute, le sento, possa ad uno stesso tempo te colmar di piacere e me liberare di cosí estremo dolore. Deh, dimmi, Carlo, s’amore è cagione che cosí miseramente consumi la tua vita! Dilmi, ti priego. A cui vuoi palesare i tuoi dolori, a cui con piú speranza d’essere aitato, se a chi tanto t’ama e a chi tanto t’è obligata li celi? Deh cágliati di te stesso, overamente abbi pietá del dolore nel quale me per tua pietá giá vedi sepolta! Dimmi il tuo male, sicurissimo d’esserne per me liberato tosto. — Qui tacque Lodovica con desiderio grandissimo d’udir ciò che in questo proposto il giovane le rispondesse. Il quale, quasi piangendo, con voce fioca e tremante cosí disse: — Lodovica, a negar l’amor vostro sarei io piú empio assai ch’io non sono a cosí malamente remunerarlo. Io confesso a mille segni e a mille pruove essermi accorto l’amor vostro verso di me essere stato infinito e aver di grandissima lunga avanzato il merto mio. Il qual vostro amore quanto manco da me è stato remunerato, tanto piú sono io degno di scusa appo di voi; che, essend’io uomo di ragione, e commettendo errore del quale per aventura si guarderebbe ogni bruto animale, si deve conchiudere che forza del cielo sia e non mio difetto. Non celarò adunque per vergogna la mia passione, essendo forza seguire ciò che piace al cielo. Per pietá de’ vostri dolori resterei ben io di manifestarlavi, s’io non mi conoscessi degno, palesandovi il tutto, del vostro odio eterno. Troppo, troppo v’ho fatto torto, troppo male ho guiderdonato il piacer che voi sentivate del mio contento. Accettate questo in ragguaglio del merito vostro. Accettate l’udir ch’io sia d’altra donna innamorato. Sia questa parola che vi liberi dello amore che voi mi [p. 22 modifica]portate, del qual piú non son degno. L’obligo, che voi dite portarmi cosí grande, potete molto bene e con giusta mercede in un punto disciogliere, svenandomi, ora che qui m’avete, con un coltello. Certamente in tale stato mi truovo, che non solamente mi chiamerei sodisfatto a pieno d’ogni mio merito, ma a voi ne sarei tenuto eternamente, perché io non so desiderar cosa che piú dolce mi fusse che la morte. — Qui tacque il giovane, dirottissimamente lacrimando. Al qual Lodovica, quantunque piena di veleno per la udita cagione della perdita di lui fusse, con assai fermo viso disse: — Io t’ho giá detto, e di nuovo te lo ridico, che appresso di te non ho mai creduto aver merito alcuno d’essere amata, ma si bene grandissime e infinite cagioni di amar te, cui amo e amerò sempre piú che la stessa vita. Per la qual cosa tu puoi esser sicuro, oltra alle passate ragioni ch’io t’ho detto poco innanti, che non solamente te non chiamo ingrato né me ingannata, ma mi glorio e di te mi lodo allo estremo. E sii pur certo che, ancorach’io non mi conosca per effetto d’amore inferiore al merito di qual altra donna viva, non son però mai vivuta senza timore della tua fede. La qual paura m’ha temprata la dolcezza ch’io prendeva teco, che per aventura avrebbe avuta forza privarmi di vita. Presupponendo tu ancora d’avermi offesa, la qual cosa non ti concedo, poca offesa ni’ hai fatta, ché ben sai che «piaga antiveduta assai men duole». Ma perché m’hai tu fatto torto essendomiti ritolto? Giá non t’aveva io comperato per ischiavo, giá io non ti reputai mio giamai, se non quanto la tua cortesia di giorno in giorno mi ti donava. Alla qual tua cortesia, per lo godimento ch’io n’ho avuto di te, pur troppo sono obligata. Rimuovi adunque ogni pensiero, se qualche uno n’hai d’avermi offesa, ed entri in vece loro nel tuo petto ferma credenza che in ogni guisa io sia tua e per obligo e per volere, e fidati di me. Dimmi veramente chi è che ti possiede il cuore, ché io farò si, e sia chi esser si voglia, che tu n’avrai tosto ogni tuo desiderio. — Carlo, ancoraché in parte assicurato dalle parole di Lodovica fusse, taceva vergognandosi; ché ben, come giovane valoroso, conosceva egli che tanto piú ella l’obligava [p. 23 modifica]quanto piú di disubligarlo s’ingegnava. Pure, da lei molestato, alla fine si risolvette, e d’ogni suo amore la misera fece consapevole. La quale, celando l’occulto veleno, larghissimamente s’offerse e promise trarlo d’affanno; riprendendolo di poco animo e dimostrandogli, al meglio che seppe, essere questa sua impresa poco difficile, quantunque egli, che ogni avvenimento narrato le aveva, avesse fatta accorta la Fioretta esser giovane crudelissima e lontana da tutti i pensieri amorosi. Cosí poscia, partitosi Carlo quasi sicuro di non avere offesa Lodovica, non che sicuro averne conseguito perdono, ella, ch’aveva il cuore per le sopraudite cose pieno di tosco e d’amaritudine, gittatasi boccone sopra il letto, cosí cominciò lamentandosi a dire: — Aimè, con quanto mio danno ora mi aveggio che la maggiore sciocchezza che possa commettere una femina è il darsi in preda a giovane amante, per natura instabile e inconstantissimo! Ma chi avrebbe fatto diffesa contra si pungenti e valorose armi, come sono le bellezze, i costumi e le virtú di questo ingrato? Aimè! che sí bello e si gentile lo mi rappresenta Amore avanti gli occhi della mente, che, quantunque egli cosí crudelissimo mi sia e che per amarlo io patisca pena che non si può soffrire, io non mi so però imaginare stato felice al mondo con il quale io cangiassi la miseria e infelicitá mia; e si temo il suo male, che con ogni ragione desiderar doverei, ch’io non oso dolermi di lui, temendo che i giusti dèi, dalla mia pietá commossi, gli diano castigo di tanta crudeltá cosí senza cagione usatami. O mortali, che nulla potete, desiderate esser privi di luce, ché cosa di grandissima salute bramerete! Quanto meglio era per me d’esser nata cieca! ché il minor dolore, che per troppo aver veduto ora mi tormenta, avanza ben di gran lunga quanti piaceri per non aver veduto avrei perduti. O Amore, ove rivolgi tu ora gli occhi, che non miri e non odi i miei dolori e le mie querele? a chi debb’io ricorrere per soccorso, se tu, a cui fui sempre serva si fedele, mi abbandoni? Ah giovane ingrato! per qual cagione meritai io giamai essere da te per altra lasciata? O Giove, perché non m’aiti? Aimè, che bene a ragione mi nieghi il tuo favore, posciaché piú che te ho amato, anzi adorato questo [p. 24 modifica]perfido e disleale. Ahi, ingrata Lodovica! per qual cagione chiami tu perfido e disleale chi solamente della sua rimembranza ti tien viva? Non conosci tu che, mentre egli è stato suo, che di sé ti ha sempre fatto larghissimo dono? Che colpa n’ha egli, se altri lo ti ha furato? E altri ne porterá crudelissima pena. Io non voglio consentire che altri si nodrisca del mio cibo, e ne faccia me d’ogni tempo miseramente languir di fame. — E, ciò detto, e di molte altre cose discorse e composte dentro dal travagliato petto, incominciò ad aspettare il giorno per dar principio al suo fiero proponimento.

Venuta la nuova luce, fece secretamente invitar Fioretta seco a diporto ad un suo giardino fuor della cittá, e in compagnia della madre, a lei congiunta di sangue, ne la menò; nel qual giardino, doppo cena e doppo infinito piacere preso, dentro ad un pomo con cauto modo le fece pigliare il veleno: e, venutene di brigata alla cittá, e ognuna tornatasi alla sua casa, incominciò con desiderio ad attendere la morte della bella e infelice giovane. Né guari andò che il veleno fece l’operazione; onde la sfortunata Fioretta, con le lagrime di tutta la cittá, parti di vita e fu onorevolissimamente sepolta, senza sapere alcuno a chi darne, di cosí violente e acerba morte, cagione; percioché il tosco, che adoprò la disperata femina, poco mostrava segno di fuori dell’operazion fatta di dentro. Ma l’infelice Carlo, a cui solamente era manifesta la cagione onde Lodovica potesse essere stata spinta a commettere sceleraggine tale, peroché egli stesso confessato le aveva lo amore che alla sventurata giovane portava, e appresso sapeva quanto era quello che Lodovica a lui altresi portava, e oltre ciò aveva saputo Fioretta essere stata a diporto con essa Lodovica, subito indovinò e fece giudicio, senza punto dal vero allontanarsi, nel modo che la cosa era accaduta, avvisandosi ciò aver fatto la vedova per levargli l’oggetto per lo quale ella lui perduto aveva. Sopra la qual cosa avendo prima lungamente pensato, deliberò seco stesso di piú non stare in vita, cosí a fuggire la troppa acerba pena che egli sopportava per la morte di Fioretta, come ancora per fare che Lodovica non vivesse lieta nella speranza di farlosi [p. 25 modifica]ancor suo, avendogli cagione, che egli da se stesso le si fusse tolto, levata. Laonde egli prese il veleno, e poscia prese partito, avanti che lo spirito se n’andasse, di darne egli stesso la novella alla crudele Lodovica, cosí per trarla in tutto fuor di speranza che piú mai il suo fiero proponimento avere effetto dovesse, come anco per udire ciò che ella, o per sua scusa o negando il vero, dicesse; e ancora per piú sua maggior pena morirle innanzi, ché ben sapeva egli non poter piú di quattro o cinque ore restare in vita, come quello che benissimo anco sapeva la natura e la quantitá del veleno che preso aveva. Non badò adunque lo avvelenato e disperato giovane a girsene a casa della vedova, dalla quale fu raccolto con lietissima faccia; ma non si però che egli, che saggio e accortissimo era e che il vero imaginato s’aveva, non s’avedesse a mille segni lei ad uno stesso tempo e vergognarsi e aver pietá di lui. Ma né di questo né d’altro le volle parlare prima che solo con essa sola nella camera, giá consapevole de’ suoi tanti piaceri, non si ritirasse. Giunti adunque nella camera, e dato licenza alla fante ambasciatrice, che solamente presente ivi si ritrovava, e postosi a sedere sopra il letto, avendosi a dirimpetto fatto seder Lodovica e avendola pregata che contra parola nessuna, che da lui intendesse, né far querela né scusa insino al fine non dovesse, cosí a dire incominciò: — La prima cosa ch’io t’ho a dire, Lodovica, è che tu procacci, mentre io ti ragionerò, di esser breve nel respondermi al fine del mio ragionamento, se pure alcuna risposta vorrai darmi; avisandoti ch’io sono a tale stato giunto della mia vita, ch’io non sono ancora certo che di lei tanto spazio mi avanzi che mi basta per ragionarti quanto meco ho divisato a dirti. — Lodovica, considerando che egli volesse con tai parole esprimere il dolore che egli sopportava per la fresca e acerba morte di Fioretta piú tosto che egli avelenato si fosse, e avendo in comandamento da lui di non rispondere a cosa che ella udisse insino al fine, niente disse; ma tuttavia, guatandolo in viso, attese il resto. Ed egli cosí soggiunse: — L’animo fiero che tu hai, o Lodovica, e il malvagio effetto che n’è seguito, so che non negarai, si perch’io so che [p. 26 modifica]cotanto pazzo non mi conosci che tu possa sottraggere speranza nessuna ch’io lo ti credessi giamai, e sia poi perché tu medesima piú lo manifesti quanto piú di celarlo t’ingegni: ché, oltre che questo lieto viso, con il quale tu ora raccolto m’hai, sia tutto offuscato di quei segni che rendono altrui certo di vera simulazione, tu pure col mostrarti lieta la dimostri maggiore. Ché invero, se tu studiato tanto non avessi di celarmi quello che in alcuna guisa nasconder non mi puoi, pure ti saresti doluta e mostrata trista della morte di Fioretta per lo dolore che tu, che consapevole sei stata del mio ardore, ti dovevi imaginar ch’io sopportassi. Ma tu, come ho detto, tanto hai cercato di nascondermi il tutto, che il tutto in ogni guisa m’hai manifestato. Tu adunque puoi esser certa ch’io certo sia che tu della morte della innocente giovane sei stata cagione; la qual cosa non potendo negare, non so con quai parole né con quai ragioni vorrai difendere. Forse dirai che tu hai ciò fatto perch’io, privo in tutto di speranza di mai piú vederla non che acquistarmi la grazia sua, a te ritornar dovesse; nella qual cosa forte ti saresti ingannata, perché tu dèi ben pensare che, amandola a quello estremo grado d’amore ch’io ti diceva, non solamente non avrei giamai piú potuto amare chi la mi avesse tolta, ma si bene preso odio mortale contra chi, benché invano, avesse cercato tôrlami, non che privarla di vita. E questo dovevi tu piú ch’ogn’altra persona considerare; tu, dico, che nel medesimo tempo ti movevi per me, che caro tenevi, a fare lo istesso in una persona innocente. Se tu vorrai poscia dire che tu fatto l’abbi per vendicarti di chi mi t’aveva tolto, tu non dirai il vero; percioché dalle mie parole tu hai benissimo potuto comprendere, e ancora dalle pene che amando io sopportava (che quasi al fine della vita condotto m’avevano), che dalla morta giovane non m’era giamai stato conceduto tanto di cortesia che a te m’avesse né dovuto né potuto tôrre. La qual cortesia quanto ver’ me in manco abbondanza veniva, tanto piú te verso di lei obligava; senza che, in ogni guisa, altri che me non poteva aver colpa dello abbandonarti. Se ti pareva tanto ricever torto a vederti da me lasciata, perché non far cadere [p. 27 modifica]la pena in giusta parte? Se tu vorrai similmente dire che per piú mio dolore, e appunto perché la sentenza in giusta parte cadesse, tu m’hai voluto, col privarmi di cosa cotanto cara, farmi sentire e considerare il dolore incredibile che tu similmente, per essere priva di me a te cosí caro, sentivi; io ti rispondo, crudelissima Medea, che tu mi dica se nel privarti di me ho io fatto soffrire la morte ad alcuno. Ahi perfida! se tu fussi nasciuta con iscintilla di pietá, ti saria mai caduto nell’animo di privar cosí crudelmente di vita chi non aveva colpa veruna nel danno tuo? Tu non fusti mai né gentile né amorevole, e tutta quella cortesia, che a me un tempo hai dimostrata, fu piú tosto mossa da estremo desiderio di furiosa libidine che da dramma di umanitá, che in te si ritrovi; e ora mi giova di conoscere che in te non alberga amore. Percioché quello appresso di me ti farebbe in qualche parte degna di scusa, poiché egli ha similmente condotto me stesso a darmi morte. Io mi sento giunto al fine della vita: di lá pregherò il cielo che sempre piú in te e con tuo maggiore dolore rinfreschi la rimembranza e del tuo errore e della morte mia. E ora prego Amore che cosí di me t’accenda com’io della infelice Fioretta acceso sono; e questo, non giá perché mi piaccia vivere nella memoria di chi m’ha tolto ogni pace, ma si bene perché tu pruovi dolore a tutti gli altri primo, vivendo in estremo desiderio e fuori d’ogni speranza. — Qui tacque il giovane, né piú potendo e sentendosi giunto al fine, strinse le braccia e, senza potere ascoltare altra risposta, chiuse gli occhi e alla morte si rese. Questo fine ebbe l’amore degli sventurati amanti. Nel qual fine dubbio mi nasce se la cagione, che a volontaria morte l’infelice Carlo spinse, si possa dare od allo amore che a Fioretta portava, overamente piú tosto ad odio inconsiderabile che, e degnamente, egli contra la vedova, che tolto ogni suo bene gli aveva, conceputo avesse.


— Bellissimo certo — disse il Badovaro — e degno di lungo ragionamento è il vostro dubbio, Contarino. Al quale risponderò io, piú tosto perché non mi fugga dalla memoria quello che [p. 28 modifica]dirvi intendo, che perché piú degli altri mi si convenga d’esser il primo occhio né creda dare giusta sentenza. E dirò credere che piú amore, che Carlo a Fioretta portava, lo indusse a darsi morte che altra cosa. Perché, se odio che alla vedova portasse l’avesse indotto a questo, poteva egli, con minor suo danno, molto meglio e piú sicuramente dimostrarlo con lo avvelenare similmente essa vedova o con le propie mani, come quello che troppo bene lo poteva fare, ucciderla; overamente, manifestando la impietá sua, porla in mano della giustizia e farla mal capitare; e in piú di mille altre maniere che egli non fece. Ma, perché solamente amore lo spinse a darsi morte, egli si contentò che l’amata sua, dal cielo guardando, vedesse in questo lo affetto grandissimo dello amor suo, il quale nel danno o nella morte della vedova non avrebbe potuto vedere, essendoché la vendetta arreca sempre smisurata dolcezza nel petto di colui che la fa. Onde il giovane, che perfettamente amava, volle tôr via ogni occasione a Fioretta di pensare che egli, piú tosto mosso dalla dolcezza che si sente nel vendicarsi che da amore che ad essa portasse, la vedova uccisa avesse: a se stesso la morte diede nella guisa ch’abbiamo inteso. E, se la ragione prevale che Catone e tanti altri valorosi, per lo amore che alla patria portavano, si donassero similmente morte, cosí prevalere potrá questa mia: che, cosí come quelli si contentavano morire e credevano morir gloriosi, posciaché morendo facevano chiaro al mondo quale e quanto era il loro amore verso la patria, io posso conchiudere che similmente Carlo dallo amore che a Fioretta portava fusse spinto a morte e che si credesse felicissimamente morire, posciaché morendo faceva conoscere alla giovane amata l’ardentissimo amore che egli le portava. — Rispose allora il Veniero: — Con bellissime e potentissime ragioni ci avete fatto intendere la sentenza vostra. Alle quai ragioni io risponderò quattro parole, piú tosto per averne ancora cento delle vostre, che perché non abbiate forza di acquetarmi e sodisfarmi con una sola. Ditemi adunque: perché non si potrá credere che piú tosto odio abbia cagionato nel giovane tal effetto che amore, essendoché egli ne prende quella dolcezza [p. 29 modifica]nel vendicarsi, che voi con bellissimo e acutissimo artificio nascosa avete? — E dove è — disse il Badovaro — questa vendetta? — Questa è — rispose il Veniero — che il giovane ragionevolmente non può pensare che la vedova per altro gli abbia tolta, e cosí repente e crudelmente, la nuova amata, che perché egli, non vedendo piú né piú sperando ritrovare lo amato obietto, ritorni di nuovo a riamar lei; e, essendo certo di questo, non solamente non si contenta di sentirsi forte e costante per odiarla sempre, ma vuole ancora che ella per maggior suo tormento ne perda per sempre in tutto ogni speranza. E cosí al danno e alla pena della vedova intento si ritruova, che non risguarda ch’egli la vita ne perde; anzi, pure riguardandogli, cosí dolce estima e sente la dolcezza della vendetta che egli ne prende, che di rimanerne morto non cura. — Rispose allora il Badovaro: — Veniero, questa è una delle vostre solite sottigliezze, con le quali solete a chi non ha gli occhi d’Argo involar sempre assai parte delle sue ragioni. Io vi rispondo adunque che non può essere che il giovane fusse intento alla vendetta: prima perché in questa, che voi «vendetta» chiamate, non ci è posto quel piacere per lo quale ci moviamo e che voi volete che il giovane si sia mosso a farla; perché il giovane era forzato, morendo, a lasciare prima ogni speranza d’averla mai fatta, che egli la si facesse. Senza che, voi accompagnate, benché artificiosissimamente, due contrari. Percioché la vendetta prendiamo contra coloro che ci odiano e non contra coloro che ci amano. Laonde, se mi concederete che la vedova amasse, io dirò che il giovane è stato crudele, ingiusto e ingrato a darsi morte per cosí colmarla di tormento. Se voi direte poscia che ella odiasse, io non vi concederò che esso giovane ne facesse vendetta uccidendosi, anzi conchiuderò ch’egli a lei facesse piacere infinito. — Rispose il Veniero: — Per rispondervi alla prima, quando dite che, avanti che la vendetta fusse fatta, il giovane non ne poteva sentire quella dolcezza che ci muove a farla; io dico che ogni volta che precipitando me stesso io credessi precipitare il mio nemico, che, in quanto al piacere che me ne potesse avvenire, esso piacere sarebbe quello istesso, cosí vedendolo [p. 30 modifica]come credendolo fermamente. Quanto poi al credere che la vedova ami o non ami, io non ho da aver questa considerazione. — Anzi — disse il Badovaro — vi conviene averla in ogni modo, percioché voi non potreste credere d’offenderla, se prima non aveste ferma credenza ch’ella v’amasse. — Io so bene — disse il Veniero — dove voi mi volete, come si suol dire, pigliare in corso. — Soggiunse il Badovaro: — Io crederei ancora d’essere piú veloce che damma, s’io credessi potervimi appressare, non pure pigliarvi in corso. — Orsú, di grazia, lasciamo andar queste parole — rispose il Veniero, — ch’a me non si conviene parlar di corso, poiché io non posso, colpa della mia infirmitá, reggermi appena sopra le gambe. Ma io voglio conchiudere che il giovane si credesse d’essere amato e d’essere odiato. — E come accompagnerete voi questo? — rispose il Badovaro? — Può stare benissimo — disse il Veniero, — ché essa vedova apertissimamente gli lo dimostra. — In qual modo? — soggiunse il Badovaro. Rispose il Veniero: — Nello uccidere che ella fece la giovane. Percioché da questo effetto egli non poteva altro che credersi fermamente che ella e l’amasse e l’odiasse. D’essere amato doveva credere, perché doveva pensare che per riaverlo ella avesse commessa sceleragine tale. D’odiarlo poi gli mostrò segno grandissimo, quando ella non restò di privarlo di cosa di cosí gran contento; e tanto piú non avendo cagione alcuna d’incrudelire nella giovane, la quale era stata sempre piú aspra e dura contra esso Carlo, come del tutto fatta consapevole egli l’aveva. — Disse allora l’Aretino: — Chi dubita che, se all’altezza e acutezza de’ vostri intelletti voi vorrete sodisfare, non si venghi di parecchi mesi a fine di quistionare? — Cosí è apunto — soggiunsero tutti. Per la qual cosa il Contarino, voltatosi al signore Ercole, il pregò che novellando seguisse. Il quale cosí al Contarino disse: — Poiché cosí vi piace, io seguirò l’ordine; e cosí lo potess’io seguire nella grandezza del soggetto e nella leggiadria delle parole, come altamente l’ha incominciato Vostra Signoria! — Incominciate pure — rispose il Contarino, — ché, se non mi passarete innanti, io lo giudicherò sempre piú tosto dalla vostra troppa modestia che dal vostro poco sapere.