Guida di Castiglione dei Pepoli/XIV
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XIV.
Memorie Storiche
Dei tempi storici, ma antichissimi non abbiamo memorie sicure, sennonchè può arguirsi che in quel periodo, questi luoghi, come quelli di tutta la penisola, per non estenderci di più, dovettero essere abitati da varie genti, che consecutivamente se ne osteggiavano il possesso e si succedevano le une alle altre. — Le invasioni dei popoli, che dall’Oriente — la fucina del genere umano — vennero a stabilirsi nei paesi occidentali, possono uguagliarsi all’inseguirsi continuo delle onde marine1.
Certamente i Romani — popolo pratico e colonizzatore per eccellenza — dovettero conoscer bene questi luoghi importantissimi per la difesa dell’Etruria, e per assicurarsi il passaggio alla Gallia Cisalpina, che fu, per tanto tempo, pericolo temibilissimo alla repubblica invadente, e dove per secoli si nutrirono sentimenti tutt’altro che benevoli verso di lei.
Le monete dei vecchi tempi romani ritrovate a più riprese in varii scavi ed i frequenti vocaboli dell’idioma latino, sacro-militari specialmente, che vi si incontrano, attestano il fatto.
Tra gli altri, i nomi di Vallo e Vallese alle posizioni prossime al luogo ove si trova il M. Acuto Vallese, non indicano origine romana, militare?
Abbiamo poi molti nomi, di monti, in ispecie, aventi origine romana e spesso ieratica, essendo soliti gli antichi consacrare con piccoli templi, delubri, lustrazioni, riti religiosi svariatissimi, alle loro divinità mitologiche, le vette montane, i fiumi, le sorgenti, i boschi. E non solo gli antichi nostri, ma anche gli orientali, nel loro ascetismo, consideravano le montagne, appartate e lontane dal moto, dal rumore mondano, luoghi attissimi al culto dei numi. E certamente le vette aeree dei monti, la loro quiete solenne, la loro maestà, ci fanno sentire la nostra piccolezza di fronte al Creatore di tutte le cose, ci commuovono, c’invitano alla prece, al raccoglimento, alla meditazione.
Non lontano dall’attual Castiglione, al disopra delle rovine del Castellazzo, v’ha un ripiano detto «Ara di Castro» ove rimangono ancora le basi solidissime di mura, che dovettero inalzarvisi sopra. I vocaboli latini tuttora rimasti dopo tanti secoli, non indicano chiaramente che ivi fu l’Ara, l’altare di un fortilizio, o forse di un accampamento?
Camugnano (cacumen Iani), Monte Pallense, Monte Venere, Verzunno (Mons Vertumni), tutti appellativi di luoghi non lontani da qui, hanno una significazione ieratica, pagana, così spiccata, che non ha bisogno si conforti con altri argomenti.
Molti e molti altri esempi inoltre potremmo citare dall’antichità classica Greca e Romana, ma ci sembra che non ne valga la pena.
Facendosi degli scavi e dei restauri, tempo indietro, alla così detta Chiesa Vecchia, sotto Castiglione, furon trovati alcuni idoletti. Parte di questi furon murati ad una parete di sacrestia e vi si veggono ancora.
Lasciamo in disparte l’idea bizzarra di porre quei simboli idolatrici in luogo sacro al culto della Religione nostra, ma il fatto conforta la tradizione che ivi fu un tempio dedicato agli dei falsi e bugiardi.
L’idolatria insaniva sul Tevere e da per tutto; le genti si dividevano in un gregge di schiavi e pochi padroni generalmente crudeli: si gavazzava nel sangue. Una nota di pace e d’amore, come un raggio di stella in un cielo senza astri, vibrò misteriosa, e gli uomini avvedutisi d’un’èra nuova, salutarono il vessillo della Redenzione, che sorgeva col Cristianesimo. All’Uomo-Dio dovevano inchinarsi popoli e re: per i meriti suoi divini, per le sue dottrine, pe’ suoi prodigi doveva rinnuovarsi il mondo, ma non senza sacrifici immensi, non senza milioni di martiri, non senza che l’antica infamia facesse i suoi sforzi supremi per impedire, o almeno ritardare l’avanzarsi trionfale dei Veri Eterni.
I secoli che corsero fra la Nascita del Redentore e il crollo della città regina del mondo, furono secoli di lotte atroci, forieri di una nuova vita, di una nuova civiltà.
In quest’epoca solenne, i nostri monti serviron d’asilo ai confessori della Fede, o furono propugnacolo ai devoti delle antiche deità?
⁂
Caduta Roma, i barbari, immensa fiumana, inondarono la bella penisola: Roma aveva potuto contro di tutti, tutti poterono contro di lei — l’antica, esecrata tiranna. — La Provvidenza, a quella guisa, che la bufera aggira in vortice la polve, parve rimescolare i popoli, acciò le scintille della nuova fede più rapidamente si spandessero nell’universo: nazioni, dianzi ignorate, da altre più remote cacciate fuori delle loro sedi, dal fondo dell’oriente, e dalle aspre regioni del settentrione piombarono sulla Europa2.
Di quest’epoca travagliata non rimane per Castiglione nessun documento storico, come non ne rimangono per regioni di ben altra importanza.
Certamente, quando le genti barbariche mettevano a ferro e fuoco le città e le grasse, ricche terre del piano, quelli tra i cittadini e gli abitanti, che poterono, portarono a salvamento sè e le cose loro più preziose nei luoghi più ermi e meno accessibili, fortificandovisi il meglio che loro riuscì. Da questo, in ispecial modo, il numero sorprendente di ròcche, di torri, di fortilizi, onde furono irti i monti nostri — munizioni, che poi, in parte, disparvero al sorgere del feudalismo.
Succedette l’età feudale e troviamo che Castiglione, Baragazza, Sparvo, Piano, Bruscoli e Vernio vengono infeudati con mèro e misto imperio dell’imperatore Ottone II nel 1209 agli Alberti, Signori di Mangona e di Prato.
Innanzi a quest’epoca, innanzi alla discesa di Carlo Magno — ed alla sua famosa, troppo famosa incoronazione nella Basilica di S. Pietro, — il Natale del 799, — vi erano stati altri feudatari? —
Noi dobbiamo collegare il sorgere del feudalismo in Italia3 colla venuta’dei barbari e specialmente colla calata dei Longobardi.
Mentre i barbari invasori non avevano idea di Municipio, o Comune, — cosa tutta romana, — avevano invece esempi di governo feudale, governo ben conforme alla loro indole individualistica ed alla loro maniera di vivere4. Il feudalismo non è pianta italiana.
Del governo degli Alberti, detti Conti Rabbiosi, del cui sangue uscì la bella e buona Adelaide, madre di Ezelino da Romano, e i due fratricidi danteschi, Napoleone ed Alessandro troppo lungo sarebbe parlare.
Passiamo adesso ad un episodio luttuoso.
L’antico Castiglione (il Castellazzo) fu atterrato dai Bolognesi nel 1317. — Era divenuto — consenzienti o no i feudatari — un covo di masnadieri, che capitaneggiati da un Guidicello di Montecuccoli, o da Prato — come altri vogliono — appartenente esso pure, di certo, alla consorteria degli Alberti, tagglieggiavano le strade, riempiendo il paese di ruberie e d’ingiustizie.
Il Comune di Bologna decise di distruggere quel covo di malviventi e spedì sue milizie.
La resistenza fu ostinatissima da parte dei difensori della ròcca, che nulla di pietà avevano a sperar dai nemici: non confidavano di ottener quartiere e nol concedevano. La vittoria finale fu dei Bolognesi: il castello fu raso al suolo, dispersi i suoi abitanti.
I superstiti, calmata la bufera, tornarono a rivedere le rovine del nido natio; costruirono non lontano, nuove abitazioni ed i loro Signori edificarono un altro fortilizio, che corrisponde, sottosopra, all’attuale ròcca di Castiglione. Questa fu la sede nuova del governo feudale: ivi la potesteria, l’amministrazione, i famigli.
Pochi anni sono facendosi degli scavi al disotto del Castellazzo, — così nomansi i ruderi dell’antico fortilizio, rovinato dai Bolognesi nel 1317 — sotto un enorme macigno, si trovò lo scheletro d’un guerriero, chiuso nella sua ferrea armatura. Si tratta sicuramente d’una vittima di quelle lotte scellerate ed infelici.
Al tempo stesso che l’antico Castiglione, i Bolognesi distrussero, per quanto si narra, anche altri fortilizi, come S. Giusto, le Crocicchie, Civitella... che erano nelle mani dei banditi.
I Bolognesi ebber vittoria: fu rintuzzata la baldanza dei facinorosi, anzi furono, per allora, addirittura schiacciati e, al tempo stesso, la potenza, il prestigio degli Alberti ebbero un colpo mortale.
I Comuni italiani avean compiute opere meravigliose, fiaccata a Legnano la tracotanza straniera, inalzati monumenti d’arte imperituri, colle ricchezze accumulate coi commerci attivissimi e prosperi e colle industrie alacremente esercitate. — Le fatali divisioni, però, in Guelfi e Ghibellini e in tante altre fazioni, le lotte civili, le dissenzioni continue, accese anche per futili motivi, dalle famiglie magnatizie e più potenti ingeneravano indifferenza a prender parte diretta alla cosa pubblica, che finì poi nel volontario rifiuto alle libertà Comunali. Si sentì allora il bisogno di accentrare i poteri dello stato: si dette quindi piena balia, prima a consigli ristretti molto, o ad alcuni determinati capi di una fazione e quindi a una sola persona, — e questo formò il carattere principale delle Signorie.
Generalmente, però, era il suffragio popolare che dava il dominio al Signore, il quale obbliga vasi a rispettare i diritti e le libertà del popolo: solo in appresso tal dominio divenne ereditario.
A Firenze trionfò sui ghibellini il popolo grasso, che assicurò al Comune un lungo e florido governo democratico: a Bologna non fu così, i partiti si bilanciavano e conseguentemente le lotte aspre e continue.
Prima verso il 1275 dopo 40 giorni di lotta, il popolo bolognese riconobbe come dittatore Rolandino de’ Passeggeri, che assicurò la supremazia di parte guelfa, ma alla morte di lui i Ghibellini riprendono animo, tornano i fuorusciti e con essi anche i Bianchi fiorentini, festosamente accolti.
Di fronte al pericolo che lo minaccia, cerca e trova il popolo un gonfaloniere e un difensore delle venti società — corporazioni d’arti — in Romeo de’ Pepoli, — i Pepoli erano una delle più grandi e ricche famiglie di Bologna e d’Italia — come lo aveva già trovato in Rolandino de’ Passeggeri5.
Nè Romeo fallì alle speranze riposte in lui: conservò religiosamente le forme repubblicane, promulgò leggi rigorose onde si osservassero gli ordinamenti per la soppressione della schiavitù, governò con equanime giustizia; e l’amore del popolo per lui — come in molte altre circostanze, — si manifestò variamente.
Ma i nobili ghibellini esclusi dal governo, e per giusta ragione, dal Pepoli, congiurarono contro di lui: sollevarono il popolo, che quanto è pronto ad inalzare gli idoli, è pronto altrettanto ad atterrarli, — cogliendo il pretesto di errori ed ingiurie vere, o meno — e Romeo si vide cacciato, costretto a prendere l’amara via dell7 esilio il 17 Luglio del 1321.
Raccontasi che il Pepoli per poter trarsi a salvamento, gettasse, a pugni, monete alla plebaglia inferocita.
Segue un periodo torbido: hanno il sopravvento i nobili, non il ghibellinismo schietto: è gonfaloniere di giustizia un Pecciolo Rodoaldi (1323); ma impauriti i Bolognesi dall’ingrandirsi dei Ghibellini, per la minacciata discesa di Lodovico il Bavaro, si danno in balia di Bertrando du Poïet (Del Poggetto) Legato Pontificio.
Questi, in prima, parve ispirato a miti sensi di conciliazione rispondendo degnamente così al fine per cui era stato chiamato al potere, ma poi apparve quello che veramente era, prepotente e crudele: tiranneggiò la città; violò leggi e costumanze, volle, per togliersi qualunque ostacolo, annientare le fazioni dei Maltraversi (Gozzadini e soci) e degli Scacchesi, (cosi chiamavansi i partigiani dei Pepoli, dallo stemma di costoro, uno scacchiere a dadi bianchi e neri) disaccordi tra loro, ma pieni d’affetto per la città; finchè il popolo indignato, dopo lungo sopportare, lo cacciò via, ai 17 Marzo 1334.
Il popolo era assetato di pace, ma essa non fiorì durevolmente neppure dopo la cacciata del Legato.
Prevalevano nel Comune gli Scacchesi, e i loro anziani emanavano bandi d’esilio contro i rivali Maltraversi, non credendosi poter vivere in pace con siffatti nemici in casa.
I Gozzadini, capi dei Maltraversi, contendevano fieramente il primato della città ai Pepoli, ma Brandiligi loro capo non valeva di gran lunga Taddeo, mente cultissima, provato alla scuola della sventura e padrone d’immense ricchezze.
Nacquero dei torbidi: Taddeo ed i suoi cercarono di acquietarli e mentre essi andavan sempre guadagnando terreno, l’opposto avveniva degli avversarii, che finalmente risolverono di ricorrere all’estremo mezzo delle armi, per riuscire nei disegni lungamente carezzati.
Furon vinti, e il 7 Luglio 1337, Brandiligi con tutti i suoi vien bandito da Bologna.
Rimasto il Pepoli senza competitore, avrebbe potuto, per forza d’armi, farsi signore, lo stesso giorno della cacciata dei Gozzadini; ma egli si contenta di essere considerato come il primo cittadino del Comune.
Fu il 28 Agosto del 337 che gli Scacchesi e i soldati del Comune, alle grida di «Viva Messer Taddeo de’ Pepoli» occuparono la piazza e che gli anziani quasi tutti Scacchesi, dalla ringhiera del palazzo ordinarono la proclamazione di costui a nuovo Signore di Bologna. Ed era un signore, almeno paesano!
Quel giorno stesso furono invitate le società d’arti e d’armi per deliberare circa l’operato degli anziani, e il giorno appresso il consiglio del popolo, alla quasi unanimità, acclamò alla nomina del Pepoli. Tanto era il favor popolar per lui!
Non volle il Pepoli il titolo di Signore di Bologna, ma solamente quello di capitano generale della città.
Pu veramente conservatore della pace e della giustizia, amministrò e governò equamente, introdusse utili riforme, e compatibilmente ai diritti conferitigli dall’alto officio, rispettò le vecchie forme repubblicane.
Per sostenere i diritti e le libertà cittadine ebbe il Pepoli coi suoi a sopportare i danni gravissimi — a quei tempi, specialmente per lo Studio celeberrimo di Bologna — di due interdetti e, colla equanimità, coll’accorta e sagace politica riuscì a vincer tutto, a venire a pace definitiva, il 21 Agosto 1340. — Pontefice Clemente V senza deteriorare in nulla le condizioni della nativa città.
Ebbe Lugo per conquista: Baragazza e Bruscolo (nov. 1340) per cessione dai Fiorentini in compenso per l’aiuto prestato da lui, nella cacciata degli Ubaldini e dei Frescobaldi, e, consenziente lui, una parte del territorio di Mangona che apparteneva agli Alberti di Mangona, fu comprata da suoi figli Giacomo e Giovanni (28 Gennaio 1446). Ebbe la terra d’Imeldola dal C. di Romagna (1340) in retaggio. — Così allargavasi il territorio di Bologna.
Fu Taddeo, politico saggio ed avveduto, e seppe far valere, anche di più di quel che doveasi, la sua non estesa signoria, nel cozzo degli interessi de’ vari stati italiani. Fu alleato dei Visconti, strinse lega con altri, cogli Scaligeri, cogli Estensi, ma le sue più grate relazioni furon con la Repubblica Fiorentina, che aiutò di uomini, di consiglio e di danaro.
Fu principe grande e splendido; amato dai sudditi per la bontà dell’animo, e perchè sapientemente e paternamente nelle difficoltà annonarie provvide: favorì le arti e le industrie: supremo suo pensiero fu l’indipendenza della città sua: giurista insigne, ebbe a cuore lo Studio Bolognese, vanto paesano e d’Italia, cui concorrevano alunni da ogni parte d’Europa; battè moneta propria — la pepolesca: — ebbe tal nome da esser chiamato, il Magnifico.
Indefesso, diligente in raccogliere documenti che riguardano gli avi suoi, e quindi anche Taddeo, che può riguardarsi come il capostipite della famiglia gloriosa è stato il C. Agostino Pepoli, anima di gentiluomo, di patriotta e d’artista. Tali tesori si accolgono nell’antico palagio fatto costruire da Taddeo e che appartiene al Conte Agostino.
La morte del Pepoli avvenuta nel 1847 ebbe largo rimpianto nel popolo, e le onoranze funebri resegli furono degne d’un tanto Signore.
Le sue spoglie mortali sono accolte in un suntuoso monumento, ricco di marmi a scacchi neri e bianchi, nella Chiesa di S. Domenico famosa per l’arca del Santo «benigno ai suoi ed ai nemici crudo» non molto distante dal sepolcro del vinto di Fossalta, del misero Re Enzo. — Sul basamento rettangolare elevasi l’urna, ornata ai fianchi da quattro bassorilievi, rappresentanti vari momenti della vita del Pepoli ed assai lodati dal Cicognara.
Accennammo come, in compenso di segnalati servigi prestati, qual fedele alleato, Taddeo ebbe nel 1340 buona parte della Villa di Baragazza con Bruscolo e parte di Sparvo, dai Fiorentini, che ne aveano spossessato gli antichi padroni.
Resulta poi da un istrumento del 27 Ottobre 1340 rogito Isnardi e Dozza che — consenziente il padre, — Giacomo — generosus miles — e Giovanni Pepoli di Taddeo, comprarono Castiglione col suo territorio, la terza parte della villa di Baragazza, metà della Villa di Sparvo, con tutti i diritti annessi e consueti in simili compre, per 20000 lire Bolognesi dal Conte Ubaldino del fu Napoleone degli Alberti di Mangona, che possedean quelle terre come feudo imperiale6.
Unito questo dominio a quello che venne poi donata dai Fiorentini a Taddeo, venne a formare un tutto non dispregevole.
Giacomo per cessione del fratello rimase solo padrone del feudo.
I Pepoli ricevettero dall’Imperatore Carlo IV l’Imnperiale investitura di Castiglione e sue dipendenze il 12 Luglio 1369 «cum mero et mixto imperio gladii potestate, ac omnimoda jurisdictione» ebbero conferma di questo dall’Imp. Rodolfo II il 23 Agosto 1579 da Leopoldo 1. il 28 8bre 1693; da Carlo VI il 22 Marzo 1714 e da Francosco 1. il 17 Aprile 1749.
Castiglione colle sue dipendenze fu non un feudo pontificio, ma imperiale.
Giacomo e Giovanni succeduti al padre, in tempi difficilissimi, senza avere il cuore e la mente di lui, regnarono uniti dal 1347 al 50: non mancaron di valore, Giacomo specialmente, ma non eran pari alle circostanze.
Insidiati dai nobili, rivali implacabili, riuniti dall’odio comune contro di loro; stretti dalle armi del Conte di Romagna, Ettore di Durator, che rappresentava l’autorità pontificia divenuta ostilissima, vendevano la Signoria, che disperavano di poter difendere, per 20000 fiorini d’oro a Giovanni Visconti Arcivescovo di Milano.
Quanti erano in Bologna, amanti della patria indipendenza, per quanto particolaristica, deplorarono il fatto, e i cronisti e gli storici del tempo furon severi verso i fratelli Pepoli.
Furon poi dessi imprigionati pel sospetto d’aver voluto tradire il nuovo Signore; furon temporaneamente privati di gran parte del loro retaggio ed ebbero a subire svariate e dure vicende7.
Riebbero poi tutte le loro montane castella, asilo per essi caro e fidato... (bene erano stati presaghi nell’acquistarle!) poterono rientrare in città, ma non furono più potenti come per lo passato; la supremazia sulla grassa e dotta Bologna era passata ai Bentivoglio, già loro clienti, — ai Canedoli, — ai Lambertazzi, ai Gozzadini, ai Marescotti, ai Malvezzi, ai Geremei8.
Dal 1340 al 1796 per oltre quattro secoli, Castiglione fu governata dai Pepoli, finché la fiumana, che attraversò le Alpi, la gran rivoluzione, non travolse nei suoi gorghi il vetusto, ma piccolo feudo. Prodromo di altri avvenimenti e più gravi!
I Comuni avevano ucciso il Feudalismo: le Signorie avean posto a morte i Comuni, e le Signorie dovean cedere il posto al formarsi delle Nazioni... Eppoi, è ben vero, che la rivoluzione francese portò immensi danni: é ben vero che certe fasi di essa non possono ricordarsi senza raccapriccio; ma era il giusto giudizio di Dio, che avea pesato con equa lance, i delitti dei popoli e quelli dei principi... e questi avean pesato di più.
Nel dominio dei Pepoli vi sono due interruzioni.
La prima avviene nel 1452 quando, pontificando Niccolò V grande eccitatore dei principi cristiani contro la barbarie musulmana, il celebre Card. Bessarione, un greco da Trebisonda, governava per lui. Vennero imputati ai Pepoli atti, che si dissero di ribellione, fu invasa la vecchia Contea e data in feudo dal Cardinale a Mino Rossi col peso annuo d’una tazza d’argento. Non era quello pagar caro un popolo.
Il poter civile pontificio, però, non poteva disporre d’un feudo imperiale e, dietro i reclami delle parti lèse, le cose tornarono nello stato di prima.
Pei soliti motivi, circa un secolo appresso, sotto Pio IV, (Angelo de’ Medici) di bel nuovo, dalle soldatesche pontificie furono invasi i territorii feudali con tutti gli orrori compagni di simili avvenimenti.
I Dinasti alzarono aspre doglianze: il Conte d’Arcos, Ambasciatore di Ferdinando I, a Roma, fece valere con gran clamore i diritti dell’Impero ed i Pepoli ebbero ragione.
Essi governarono con umanità, relativamente ai tempi, secondo il gius comune cesareo e gli statuti paesani, riformati più volte: governarono umanamente e lo attestano le tradizioni, le memorie paesane, l’amore sempre mostrato dai sudditi ai dinasti, ricambiato equamente; il malanimo con cui i paesani, amici nella buona e nella cattiva fortuna, accolsero l’invasione francese nel 17969. I rudi montanari presentirono che dagli stranieri mai nulla deve aspettarsi di buono, ed i famosi principï, mai, purtroppo! veramente applicati, non avean bisogno d’apprenderli dai saccheggiatori d’Italia.
Venivano i Pepoli, di sovente, a Castiglione, (anche quando le vicende turbinose della città loro non li rendevano desiderosi d’un luogo di sicurezza) massime nell’estate, per respirare l’aria profumata di questi monti, e la loro venuta e la loro permanenza eran festa e benefizio per il paese: tanto erano splendidi e generosi.
Gli statuti del feudo non potevano far disamare i dinasti10.
Potremmo riportarli per intiero11 dacchè si conservano e sono ancora inseriti in lavori storici apprezzatissimi; ma questo ci allontanerebbe di troppo dal nostro proposito, di fare cioè un breve lavoro. Non differiscono di gran lunga dagli statuti degli altri feudi, sennonchè, essendo stati questi corretti più volte con amore, meritano una considerazione più grande che non gli altri consimili.
S’intitolano: Statuti di Castiglione de’ Gatti; feudo imperiale degli Illustrissimi ed Eccellentissimi Signori Conti Pepoli, Patrizi Bolognesi e Nobili Veneti, (il gran nome e la potenza di questi feudatari non eran dispiaciuti alla Oligarchia della Serenissima per cui spesso avean combattuto) riformati l’A. MDCXVII divisi in Civile e Criminale11.
Una delle ragioni precipue dell’affetto dei Castiglionesi per i Popoli furono i saggi statuti, poichè, pochi beni, in un paese civile, son tanto apprezzati dai cittadini, quanto quelli, che assicurano a ciascuno ed a’ tutti, l’incolumità personale e la garanzia degli averi.
Nei tredici anni (1572-1585) del Pontificato di Gregorio XIII, (Boncompagni bolognese) il brigantaggio infieriva nel Regno di Napoli e in Toscana, ma, più atrocemente che altrove negli stati ecclesiastici. Sisto V (P. Felice Peretti da Montalto, dall’Aprile 1585, al Settembre 1590) succeduto a Gregorio XIII, bandì addirittura una crociata contro i masnadieri e se non riuscì a sterminarli affatto, recò loro immensi, irrimediabili danni.
Anche il patriziato bolognese dà il suo contingente al brigantaggio; tra gli altri un Conte Antonio dei Rossi, uno degli Orsi, e, sopra tutti tristamente famosi, un figlio naturale del Conte Guido Pepoli, il Conte Luigi, conosciuto comunemente col nome di Conte Aloisio.
Uccide un Malvasia, nemico di sua famiglia e ne ha il bando: ottiene dopo alcun tempo il perdono e combatte da prode, sotto i vessilli della Serenissima, nella guerra che dovea chiudersi coll’eroica caduta di Famagosta e col martirio dell’invitto Marcantonio Bragadino.
Reduce da questa impresa si mescola ai banditi, che infestano la montagna bolognese; sconfigge, a più riprese i papali; tien fronte ai Corsi mercenarï, ma, finalmente, stanco della lotta impari e per le esortazioni dei parenti, e specialmente del Conte Giovanni che pel suo valore l’amava assai, accetta dal terribile Sisto V la relegazione negli Stati Estensi e viene amorevolmente accolto dal duca Alfonso.
Gli scherani, perduto Aloisio, si sbandano: non pochi, presi, vengono condannati al supplizio.
Il degno Acàte d’Aloisio era Grazzino di Scanello12, famosissimo bandito. Vien costui preso a tradimento, da un Prediera, in quel di Sparvo: assisicurato poi nelle cupe, paurose carceri di Castiglione13.
Le Autorità pontificie vogliano sia loro consegnato Grazzino: il Conte Giovanni, capo della famiglia dei Dinasti, forte de’ suoi diritti vuol far da sè, nel territorio suo, giustizia del micidiale14.
Intanto una quarantina di masnadieri, il 6 Agosto 1885, guidati da Batistino del Tolè e da Gregorio della Villa, di Scanello, scendono, rapidi come la folgore, dal Gatta selvoso, penetrano nel castello malcustodito e, probabilmente coll’aiuto di paesani e militi favoreggiatori, liberano il prigionerio; si ritraggono (conducendo loro il Commissario, o Governatore di Castiglione, che poco dopo rilasciano) per la strada che conduce alla Chiesa Vecchia, e Grazzino liberato prende la via dei monti, riparando in Toscana.
Appena saputasi a Bologna questa fuga, il Cardinal Salviati, Legato del Pontefice, fa arrestare il C. Giovanni come complice del fatto (15 Agosto 1585), e a guisa del più vile dei malfattori lo rinchiude nel terrione del palazzo comunale, nella saletta, dove sono gli apparecchi per i tratti di corda, presso le stanze del carnefice.
Fu imbastito un processo, condotto da persone tutt’altro che miti e favorevoli al povero vecchio: il Card. Salviati, il vicelegato Mons. Domenico Toschi ed un Giovacchino Scaino, fiscale.
Dal processo resultò che il Conte non aderì a consegnare il Grazzino alla Curia Bolognese, per sostenere i propri diritti di feudatario imperiale, non per favorire il Grazzino, che era al bando dell’impero e cui il Conte intendeva punire coll’estremo supplizio; che egli fu estraneo all’evasione del masnadiere), avvenuta per forza maggiore, contro il voler suo.
Non poteva esser perciò tenuto reo di fellonia, tanto più, che, ricusando l’estradizione dal suo feudo imperiale, protestò sempre di voler osservare, come patrizio bolognese, la bolla di Sisto V, «Hoc Pontificatus initio» 1585 per la distruzione dei malviventi.
Giovanni Pepoli del Conte Filippo e di Elena Fantuzzei nacque il 28 Maggio 1521, fu battezzato il 9 Giugno ed ebbe a compare l’Arcivescovo di Pisa. Era uomo dei tempi suoi, ma non degli uomini peggiori. Servì col grado di Colonnello nella milizia pontificia, e poi in varie imprese sotto le bandiere di S. Marco; fu grande e magnifico signore, Senatore, dei Quaranta, d’animo compassionevole e generoso.
Nella notte dal 30 al 31 Agosto 1586, dopo essersi devotamente confessato a uno dei due Cappuccini improvisamente mandatigli — gli fu negato il S. Viatico — e fatto testamento pietoso e misericorde, il Pepoli viene strozzato con un cordone di seta...15
Sia pace a questa povera vittima degli umani giudizi e della ferocia dei tempi16.
La salma venne nottetempo, subito dopo l’eccidio, portata in S. Petronio, e il dì appresso — era un sabato — pochi frati e diciotto battuti, in mezzo ad un’onda di popolo mesto e atterrito, l’accompagnarono al tempio monumentale di S. Domenico. Ivi giacciono ancora le sue ossa, nella splendida, magnifica tomba dei Pepoli17.
Nulla sors longa est, dolor ac voluptas |
Misera fine ebbe pure, tra i dinasti di Castiglione, il Conte Ercole figlio a Girolamo.
Con fasto regale gli andò a sposa Vittoria Cybo de’ Principi di Massa e Carrara, spagnuoli venuti qua, ed al matrimonio, celebrato il 6 Luglio 1609, presero parte precipua gli Estensi da cui usciva Marfisa, madre della giovane.
Ercole era un prode, Celebrato in tutta Italia per la sua splendidezza: tutto dava a credere che l’altera donna dovesse trovarsi lieta della sua sorte18.
I primi anni del matrimonio scorrono senza nubi; di nuovi germogli s’accresce l’antica pianta pepolesca, quando ecco nascono dei dissidii. Ercole per togliere ogni causa di discordia propone alla consorte di ritirarsi nel romito Castiglione: invano... convien giungere alla separazione, al divorzio.
Vittoria trova in Alfonso d’Este un patrocinatore potente e senza scrupoli, ostile ai Popoli anche per antichi rancori.
La notte del 17 Decembre 1617, mentre Ercole usciva da una splendida festa data dalla Contessa Turchi in Ferrara vien pugnalato da tre sicari dell’Estense.
Cosa da notarsi: Alfonso dopo alcuni anni, penduta (1624) la sposa diletta, Isabella di Carlo Emanuele di Savoia, perduto il padre, Duca Cesare, cui succede nel principato di Modena, abbandonata la corte, veste il saio di Cappuccini col nome di Fra Giambatista e chiude la sua vita in un Convento.
Furono i rimorsi che condussero a tanto quell’uomo di sangue e di corrucci?
Castiglione si mantenne, fino agli ultimi tempi, corte feudale assai brillante, anche per la ragione del campofranco, serbatovi dai Pepoli, pei duellanti.
Occupata dalle milizie francesi Bologna (12 Giugno 1796), alcuni mesi appresso Castiglione de’ Pepoli, Vernio de’ C. Bardi, Piano dei C. Bianchi formarono un sol Cantone, o Distretto, quello del Bisenzio.
Ma per ottenere questa aggregazione, il Senato della Repubblica stabilita a Bologna, ebbe a ricorrere a più d’un bando, nonchè alla minaccia della forza.
Riporto, ma solo in parte, uno degli ultimi proclami o meglio editti, che è dei più austeri. Gli ukase russi non possono esser diversi.
«Popoli dei già feudi di Castiglione, Sparvo e Baragazza, disingannatevi... Mancaste all’invito; ora è forza succeda il comando.... I vostri antichi signori perdettero, già, ogni ragione su voi, dacchè occupate queste contrade dalle vittoriose armate francesi, abbandonarono eglino stessi quei diritti, che non erano e non potevano essere nei principï di una nazione amica, e sostenitrice dei diritti dell’uomo... Dentro il termine di cinque giorni, il Senato e il popolo bolognese vi accoglieranno con gioia...
» Che, se persistete a ricusarvi, non lasceranno intentato alcun mezzo, onde mettervi presto al dovere».
«Dato in Bologna il dì 1 Agosto 1797. Anno 1 della Repubblica Cispadana una ed indivisibile».
«Gerolamo Legnani, Gonf. di Giustizia. |
E queste intimazioni son nulla, al paragone di certe altre. Ricordo ancora con amarezza i bandi, i proclami diretti da Massena — ed era un italiano! — nei medesimi casi, un poco appresso però — nel 1799, ai popoli della Valle di Fontana Buona, bagnata dalla limpida Lavagna e dal Neirone, ai montanari della Liguria di Levante, forti e valorosi amatori della loro Repubblica e dei loro feudatarï, i Fieschi. Quei prodi furono oppressi, ma non morirono invendicati.
Nel 1809, l’8 di Agosto, una mano d’insorti contro il dominio francese, e detti, naturalmente briganti dal governo invasore, occuparono il distretto del Bisenzio, e quindi anche Castiglione.
Commisero un monte di follie: bruciarono gli stemmi francesi, gli archivi, ove si trovavano anche gli antichi statuti del feudo; venderono, per accaparrarsi il favore dei paesani, quasi per nulla, il sale in deposito.
Ma il pazzo tentativo andò fallito: non era giunto ancora il tempo in cui l’astro napoleonico dovea tramontare. Anche in Val di Bisenzio, a Vernio, si ricordan tuttavia coteste bande stolte, allucinate, ma non feroci. Alcuni di quegli sciagurati dettero, incoscienti, al loro fanatismo tributo della vita.
Castiglione fece parte della Repubblica Cispadana, poi della Cisalpina, poi del Regno Italico, primo in questo secolo, vero feudo di colui, che
..... «Imperator fu, che potea |
Venuta meno la fortuna francese, Castiglione fu annesso alla legazione pontificia di Bologna.
Non ritesso la storia dal 1814, al 1846. Furono anni di fremiti, di conati, di illusioni, di tranquillità apparente....... «incedis per ignes — suppositos cineri doloso».
Sembrò all’elezione del Pontefice Pio IX che un’èra novella fosse per sorgere: l’arra ne era stata largita ed abbondantemente... Per colpa delle sètte strapotenti, per le discordie degli italiani, le belle speranze finirono sui campi infausti di Novara, dopo tanto sangue generoso versato, dopo Pastrengo, dopo S. Lucia, dopo Cornuda, Montanara e Curtatone, dopo Goito, dove Carlo Alberto si era mostrato il cavaliere più prode o più gentile d’Italia, come ne fu poco dopo il martire più immacolato19.
Sorse l’anno 1859; la rivoluzione doveva scoppiare e scoppiò.
Proclamata la guerra contro l’Austria, Bologna seguì l’esempio delle altre provincie Emiliane e della Toscana.
Si dichiarò decaduto il governo pontificio; si formò un governo provvisorio nei 1859, e quindi si proclamò l’annessione al Regno d’Italia, col plebiscito del 12 Marzo 1860, sotto lo scettro di Re Vittorio Emanuele II.
D’allora in poi, Castiglione fa parte della provincia di Bologna, una tra le più fulgide gemme della splendida corona d’Italia.
Note
- ↑ Cantù. Storia Universale. Torino, Tipografia Pomba, vol. VII, in varii luoghi.
Prof. Quinto Santoli. Studi di Storia pistoiese.
Bollettino storico pistoiese. Pistoia, Tip. Flori, 1903. - ↑ Dandolo Tullio. Per la Svizzera. Tip. Guglielmini 1857.
- ↑ Stato. Hallam Enrico — L’Europa nel medio Evo — Firenze. Tip. Barbèra 1874.
- ↑
Se vuoi saper chi son cotesti doe
La valle onde il Bisenzio si dichina
Del padre loro, Alberto, e di lor fue.
D’un corpo uscirò, e tutta la Caina
Potrai cercare e non troverai ombra
Degna più d’esser fitta in gelatina.
Dante, Inferno, XXXII, 19 ecc. - ↑ Redolico Prof. Niccolò. Dal Comune alla Signoria. Saggio sul Governo di Taddeo Pepoli in Bologna, Bologna, Ditta Nicola Zanichelli 1898.
- ↑ Archivio di Stato di Bologna. — Avvocato Fanelli — Voto ecc. ecc. posseduto dal Sig. Cav. Claudio Ruggeri.
- ↑ Dacchè i Pepoli perdettero la Signoria di Bologna, alcuni di essi ebbero concessioni nel mezzogiorno della penisola e in Sicilia, ma non dimenticarono la terra degli avi e ne frequentarono lo Studio, come non dimenticarono l’antico loro propugnacolo, Castiglione. Primo fra tutti il C. Agostino, che possiede il Palazzo antico della famiglia (ora monumento nazionale) in Bologna ed è munifico Signore del Castello di S. Giuliano (Monte Erice de’ Cartaginesi) nella prov. di Trapani.
Prof. Rodolico Niccolò. I Siciliani allo Studio di Bologna. - ↑ Le famiglie senatoriali di Bologna erano 40. Anche ora il popolo per indicare una famiglia appartenente all’aristocrazia, suol dire: «È dei quaranta» Tra le più rinomate tra queste si contavano quelle dei Malvezzi, dei Bentivoglio, dei Marescotti, de’ Pepoli, dei Gamberini ecc. ecc.
- ↑ Memorie estratte dall’Archivio di Stato dal Cancelliere Paolo Cistorni ecc. esistenti nella Cancelleria della R. Pretura di Castiglione. — Effemeridi del tempo, Fignagnani D. Giuseppe Notizie storiche su Castiglione.
- ↑ Gli statuti più antichi andaron perduti nell’incendio appiccato dai briganti agli archivi Castiglionesi nel Luglio ed Agosto del 1809: ma rimanendo tuttora i medesimi statuti colle riforme arrecatevi, fa lo stesso.
- ↑ 11,0 11,1 Fignagnani. Op. cit.
Gorzadini. Op. cit. - ↑ Una volta, per ordine d’Aloisio, Grazzino entra in Castiglione; prende il Governatore Giov. Andrea Campi da Sarzana e sulla pubblica strada, gli fa egli stesso, colle forbici, il maggiore sfregio, che possa farsi ad un uomo. Pompeo Molmenti «I Banditi della Repubblica Veneta». Bemporad, Firenze, 1898.
- ↑ Gozzadini C. Giovanni. Giovanni Pepoli e Sisto V. Bologna, Tip. Zanichelli, 1879.
- ↑ Grazzino, dopo aver tentato inutilmente di farsi cappuccino fu ucciso nel Genovesato, per ordine dei Malvezzi ai 23 Agosto 1586. Batistino del Totè cadde per mano di un C. Cesare Menzoni, al Vergato.
- ↑ Pozzolini-Siciliani Cesira. Castiglion de’ Pepoli. Estratto dalla Nuova Antologia 16 Ottobre 1899.
- ↑ Il C. Giovanni lasciò, avuti da Vincenzia Mamolini, giovane popolana di Bagnacavallo, tre figli Ugo, Giacomo, Ricciardo e una figlia. I figli, Ugo specialmente, tornarono in istato e fecero onore al nome paterno.
- ↑ Mamiani T. Del Papato negli ultimi tre secoli. Milano F. Treves 1885.
- ↑ Niccolò Rodolico. L’Abdicazione d’Alfonso M.se d’Este. Racconto storico. Bologna, Ditta Niccola Zanichelli Dep. 1901.
- ↑
Arca di sette popoli
Re dell’Italia e mio,
Chi ti contrista, o Martire,
Insulta Patria e Dio.
Prati