Faust/Parte seconda/Atto primo/La sala de' cavalieri
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Traduzione dal tedesco di Giovita Scalvini, Giuseppe Gazzino (1835-1857)
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LA SALA DE’ CAVALIERI.
Luce scarsa e fioca.
L’IMPERATORE e i CORTIGIANI siedono al loro posto.
L’Araldo. Il misterioso dominio degli Spiriti mi pregiudica non poco nell’ufficio ab antico assegnatomi di annunciare gli spettacoli. Indarno vorresti colla sana ragione rinvenire una qualsivoglia spiegazione di codesto confuso rimescolamento. Scannelli e sedie a bracciuoli sono per solito disposti con cert’ordine, sicchè l’Imperatore collocato da presso al muro, vegga a suo bell’agio le battaglie famose de’ secoli andati. Qui all’incontro Imperatore e cortigiani formano un solo circolo. Le dame si accalcano in fondo alla sala, e nell’ora delle visioni misteriose, in dolce atto amoroso, tiensi presso al vago l’amica. Adesso poi che ha preso ciascuno il suo posto, eccoci presti e in attesa che gli spettri appariscano! (Allegre e forti sinfonie.)
L’Astrologo. Abbia dunque tosto principio il solenne dramma, chè ne dava l’ordine il re: spaccatevi, o mura! nulla puote impedirlo, essendo questa l’ora della magia.
Gli arazzi ondeggiano, come fossero voltolati da incendio: fendesi il muro per mezzo e va tutto sossopra, un largo teatro e profondo par di tratto elevarsi, un chiarore misterioso spandesi intorno, ed io salgo sul proscenio.
Mefistofele, sporgendo la testa fuori della nicchia del rammentatore. Quindi io mi confido di ottenere il generale favore; chè nel farla da suggeritore, è il diavolo a gran pezza maestro. (All’Astrologo.) Tu perito nel muovere regolato degli astri, comprenderai senza meno le parole ch’io verrò ponendoti in bocca.
L’Astrologo. Ecco dinanzi a noi sorgere, per incanto, un antico delubro massiccio abbastanza. Come un tempo Atlante portava in sulle spalle il cielo, tante e tante colonne all’intorno il sorreggono: nè paiono essere da meno a sostenere la sterminata testaggine di granito, dacchè due sole basterebbono ad un colossale monumento.
L’Architetto. Fabbrica antica, dite voi? Per verità, la mi par tale da non farne conto veruno: dovrebbesi meglio chiamarla una mole incomposta e pesante. Nobile è a dire ciò che meno ha del comune, sublime ciò che è meno sconcio e manchevole. Piace a me la colonnetta svella, affusolata, sporgentesi maestosa e ardita; una volta ogivale ti sublima lo spirito. L’edifizio ch’io mostro ne farebbe compresi da più grande maraviglia.
L’Astrologo. Salutate rispettosamente quell’ora cui benigne le stelle vi accordano; sia la ragione vincolata alla magica parola, e lascisi invece che la superba e mobile fantasia spicchi liberamente il suo volo; saziate ora lo sguardo vostro tenendolo fiso ed immoto in quegli oggetti cui anelaste por tanto; l’impossibile vi si para dinanzi, e però è da avere in esso tanto più di fidanza.
FAUSTO s’avanza dall’altra parte del proscenio.
L’Astrologo. Un uomo vi annunzio meraviglioso che in veste sacerdotale, e colla fronte inghirlandata, viene ora a dar compimento a ciò ch’ebbe coraggiosamente intrapreso. Reca seco un treppiedi nel salire ch’e’ fa dal capo seno d’abisso. E già parmi sentire gli effluvi grati dell’incenso che fuor del vaso si spandono. Così egli si accinge a benedir la d’opera; nè da tutto questo altro effetto può venirne salvo che un prospero e avventuroso.
Fausto con tuono grave e solenne. Io scongiuro voi, o Madri, che il trono avete nell’infinito, solitarie da tutta l’eternità e non pertanto socievoli, che la testa portate ricinta delle immagini della vita attiva, ma sceme di vita! Quanto ebbe già l’essere si commuove ed agita colaggiù nella sua apparenza e nel suo splendore, però che aneli alla eternità. E voi sapete, o somme potenze, scompartire ogni cosa pel maestoso padiglione diurno, e per la stellata volta notturna. Una vita gradevole e tranquilla questi esseri avvolge nel corso, altri ne tiene in pugno l’ardito incantatore, il quale, nella sua prodigalità generosa, con piena fidanza, consente che sieno aperti a ciascuno que’ misteri ond’esso ha talento.
L’Astrologo. — Appena la chiave ardente ebbe tocco il catino del treppiedi, che tosto una fitta nebbia vagante empie lo spazio, e insinuandosi a poco a poco, e volteggiando a guisa di nube, si dilata, si accartoccia, si compenetra, si aggruppa e sfuma. E qui, attenti all’intermezzo degli Spiriti! un vero capolavoro! Tu li vedi a muoversi per entro a un’atmosfera musicale; da codesti aerei suoni esala un non so che; e nel passare da luogo a luogo cangiasi in melodia. Ne echeggia ad una e il colonnato e il triglifo; diresti che parle abbia nelle armonie totto quanto il delubro. Ma la nebbia s’abbassa, e di mezzo al vapore diafano un leggiadro garzone tragge innanzi in cadenza. — Qui cessa il mio compito. — Qual bisogno evvi di proferirne il nome? Chi è che in lui non riconosca il grazioso Paride?
Prima Dama. Oh! lo splendido fiore di gioventù e di salute!
Seconda Dama. Non par egli una pèsca, spiccata pur ora, e piena di succo saporoso e squisito?
Terza Dama. Ve’ come i suoi labbruzzi dilicali e sottili vanno ripiegandosi in arco voluttuosamente!
Quarta Dama. Tu spasimi, n’è vero, di bere un tratto a codesta tazza!
Quinta Dama. Un amorino, il concedo! Rispetto poi alla eleganza, troveresti certo alcuna cosa a ridire.
Sesta Dama. A cagion d’esempio, un micolino più di flessibilità nelle membra, non gli starebbe male.
Un Cavaliere. Quanto a me, ho un bel fissarlo e squadrarlo, non trovo altro in lui, tranne il pastorello; e nulla, proprio nulla che abbia del principe, e de’ modi che usano nelle corti.
Un altro. Così mezzo ignudo, ti ha l’aria di un bel giovane, nè io vo’ negarlo; ma sarebbe egli tale ove ci comparisse vestito?
Una Dama. Ponsi egli a sedere con molle abbandono.
Un Cavaliere. Non provereste disagio a tenervi seduta sulle ginocchia di lui. La indovino io?
Un’altra Dama. Con qual garbo egli posa io sul capo il tornito suo braccio!
Un Ciamberlano. Il villano! Un tale atteggiamento è sconvenevole al tutto!
La Dama. Voi altri uomini, basta che apriate ognora la bocca per censurare.
Il Ciamberlano. Al cospetto dell’Imperatore starsene a quel modo! ohibò!
La Dama. Quella non è che una positura; egli fa stima di essere solo.
Il Ciamberlano. Che monta? Eziandio il teatro ha da uniformarsi qui agli usi delle buone creanze.
La Dama. Un dolce sopore invade le membra della amabilissima fra le creature.
Il Ciamberlano. Benissimo! Stiamo a vedere ch’e’ porrassi or ora a russare! Oh! la è naturale! a meraviglia!
Una giovane Dama rapita in estasi. Quale soavissima fragranza di rose a un tempo e d’incenso, scende a bearmi fin dentro nell’anima?
Una Dama più attempata. Ma certo, la è così! Un’aura imbalsamata penetra ne’ cuori; e quest’aura viene da lui.
Una Vecchia. Gli è il fior di crescenza e quello d’ambrosia che sbocciano nel giovin petto di lui, e spandono i grati olezzi per tutta l’atmosfera ond’è circondato. (Elena comparisce.)
Mefistofele. Elena dunque è costei? Alla fė! Standole da presso, sento che nulla avrei da temere pel mio riposo! La è bellina, ma non mi sorprende affatto.
L’Astrologo. Ed io, questa fiata, non so più che mi faccia, e da uomo leale mi do per vinto e confesso. La Dea s’avanza, e dov’anco avess’io cento lingue di fuoco.... In ogni età fu decantata ognor la bellezza: chi n’ha il possedimento, sentesi rapire fuor di sè; chi ebbe la ventura di appartenerle, fu oltre ogni umano concetto felice e beato.
Fausto. Stelle del cielo! che veggo io mai? Non ella questà la sorgente della perfetta beltà che si spande a torrenti nell’intimo del cuore? Oh premio incomparabile ch’io raccolgo della mia terribile andata! Oh nulla del mondo, prima d’una rivelazione cosiffatta! Quanto, oh quanto mi ti se’ mutato, da poi ch’io ebbi cotesto sacerdozio compiuto! Questa è la prima fiata che ti riveli a me, desiderabile, saldo, incorruttibile. Spengasi all’istante dentro da me la fiamma vitale, s’io mai cerco altra stanza lungi dal tuo aspetto divino! – La mile creatura che un di mi ebbe rapito, colei il cui riflesso magico mi sedusse, non era più che ombra languida e fioca di una tanta bellezza. Siati votata ora e sempre ogni mia forza operativa, ogni affetto, ogni moto; a le io consacro simpatia, amore, adorazione, delirio....
Mefistofele dalla buca.1 Sappi contenerli, e non mi uscire fuori del seminato.
Una Dama allempata. Alta, di belle proporzioni, la testa solo un po’ troppo piccola.
Una Dama più giovane. Ma non vedeste voi dunque il piede? Dove trovarne uno più materiale del suo?
Un Diplomatico. Vid’io già principesse che le rassomigliavano; a buon conto la mi pare leggiadra da capo a’ piè.
Un Cortigiano. Recasi ella da presso al giovinello che dorme, dolce in vista e maliziosa.
La Dama. Oh! come è laida incontro a quel tipo pretto pretto di giovinezza!
Un Poeta. Raggia ella sopra di lui tutta quanta la sua leggiadria.
La Dama. Endimione e la Luna! un quadro magnifico!
Il Poeta. Per appunto! La Dea sembra discendere, e su lui incurvarsi a suggerne l’alito; oh istante invidiabile! un bacio! Colma è la misura.
Un’Aja. In faccia a tutti! questo poi è fantastico di troppo!
Fausto. Favore stragrande che si dà allo sbarbatello!
Mefistofele. Chètati, una volta! silenzio! lascia che lo spettro faccia quel che gli pare e piace.
Il Cortigiano. Ella si ritira in punta di piè; l’altro si sveglia.
La Dama. La si guarda dattorno, io me l’aspettava.
Il Cortigiano. Egli è attonito! ciò che gli avviene ha del prodigio.
La Dama. Ella invece, di quanto scorge non si meraviglia punto punto. Ve ne sto io mallevadrice.
Il Cortigiano. Vedetela riedere a lui con bel garbo.
'La Dama. Vo osservando, ch’ella dàssi a fargli scuola di galanteria; in tali incontri, tutti tutti sono zotici ad un modo. Colui intanto fa stima di esser egli il primo.
Un Cavaliere. Oh! in grazia! consentite ch’io l’ammiri. — Leggiadria congiunta a maestà!
La Dama. Bricconcella! Ciò invero passa il segno!
Un Paggio. Quanto non pagherei per essere al posto del garzoncello!
Il Cortigiano. Chi mai potrebbe dunque sbrigarsi da que’ lacciuoli?
La Dama. La gemma rara e preziosa scorse già per tante mani, che l’oro s’è un tantino smontato.
Un’altra Dama. Fin da’ suoi dieci anni cominciò a valer poco, o nulla.
Un Cavaliere. Pigliasi ognuno il suo meglio a talento; ed io sarei più che soddisfatto del bello che ci rimane.
Un goffo Pedante. Io me la veggo chiara chiara dinanzi agli occhi, e tuttavia oso porre in dubbio che la sia proprio quella. La realtà ha dello strano; e prima d’ogni altra cosa vo’ altenermi a quanto se n’ha dagli scritti. Pertanto io leggo ch’ella fece proprio impazzire dal primo all’ultimo i primi bacalari di Troja, e ciò, ben calcolato, s’altaglia mollo bene alla circostanza. Io sono uscito oggimai di giovinezza, e nondimeno la mi va a sangue.
L’Astrologo. Ei non è più uno sbarbatello! ma da guerriero ardimentoso la stringe; ed ella appena è che valga a schermirsi. Ei la solleva col braccio nerboruto; che abbia dunque in animo di rapirla?
Fausto. Temerario! insensato! E tu l’osi? tu non mi dài ascolto? Fèrmati! è troppo!
Mefistofele. Per altro tu se’ quel desso che dai luogo alla fantasmagoria.
L’Astrologo. In una parola, da tutto ciò che s’ė visto, io intitolo l’intermezzo: Il rapimento di Elena.
Fausto. Di che rapimento vai tu farnelicando? Ed io qui sonci per nulla? Non istringo dunque tuttora codesta chiave che mi guidò traverso alle orribili, indefinite e fluttuanti plaghe della solitudine e del vuoto, sulla stabile terra? Questa io calco adesso, e vere sostanze e reali sono quelle che stannomi intorno; e da qui può bene lo Spirito agli Spiriti muovere guerra, e al conquisto de’ due regni disporsi. Dalle regioni ov’ella stava, remote cotanto, avrebbe mai potuto trarmisi più da vicino? Io la vo’ salva ad ogni costo; ch’ella è due volte mia! Orsů dunque, o Madri! a voi tocca esaudirmi! Chi l’ha conosciuta, non può a verun patto viver senza di lei.
L’Astrologo. O Fausto! o Fausto! che ardisci tu mai? — Ei l’afferra fortemente; già la visione sì conturba; lanciatosi colla chiave sul giovinello, il tocca con quella! — Tristi a noi! oh guai! guai! guai! (Una forte esplosione succede; Fausto cade boccon sul terreno; gli Spiriti si sciolgono in vapori.)
Mefistofele leva in sugli omeri Fausto. Ecco che si guadagna ad incaricarsi di un malto! Tu n’hai le beffe, e fossi pare un diavolo in carne ed ossa. (Tenebre, scompiglio.)
Note
- ↑ Fin da quando ebbe cominciamento la scena, Mefistofole rannicchiasi nella buca del rammentatore, e di là prend’egli parte allo Intermezzo. Nulla ha che fare il diavolo io tutti codesti artificii di bel parlare, onde un avvocato sa approfittarsi; egli s’ingegna di tentare, non di persvadere; gli è un serpente che per gli orecchi insinuandosi ti sa sino al cuore. Ciò essendo, qual pro trarrebbe da que’ gran giri oratorii, e dallo sbracciarsi che si usa io bigoncia? Non professa egli già il male, lo suggerisce. Abbiasi presente la stupenda scena della Parte Prinia.