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286 fausto.

Di verde il suolo e di bei fior s’ammanta;
E le miriadi d’auree stelle, quando
L’etere imbruna di mia mano al cenno,
Splendono tosto pel divino azzurro
De’ firmamenti. Oh! chi — chi, se non io,
A dispezzar valea delle meschine
Leggi le sbarre ond’era oppresso il mondo?
In quanto a me — vo libero, dovunque
Il cor mi spinga. Ebbro di gioia al verbo
Interiore in balia, movo a gran passi
Inverso l’avvenir, e sempre stammi
Luce dinanzi, e le tenèbre a tergo. (Esce.)

Mefistofele. Vanne in malora, baggiano prosontuoso! — Quanto cruccio non li arrecherebbe questo secondo riflesso: Nessuno vale a concepire un pensiero stupido o saggio, che non sia stato prima di lui concepito! — Guardiamoci però dall’abusare di un cotal principio; chè al volgere di pochi anni andranno le cose ben altrimenti: imbizzarrisca quanto sa il mosto in fermentazione, dovrà pur sempre la tinozza dar vino qual ch’egli sia. (A’ giovani della platea, che non applaudiscono.) Voi rimanete freddi alle mie parole, ed io vo’ scusarvene, bravi ragazzi. — È da por mente che il diavolo è vecchio: invecchiate quindi per mettervi al grado di bene intenderlo!