Pagina:Fausto, tragedia di Volfango Goethe, Firenze, Le Monnier, 1857.djvu/494

486 fausto.

        Che tedio t’invada,
        Noi spirti celesti,
        Apostoli sanli,
        Farem che si desti
        Correndo a’ tuoi pianti
        L’antica virtù.
          Chè sol si consente
        L’eterno splendor
        All’animo ardente
        Nel foco d’amor!

Mefistofele.

     Tutto il cerebro è in fiamme, il sangue bollemi
    Entro le vene; inver più che diabolico
    Elemento è cotesto! assai men cuocono
    Le vampe istesse che i dannati cruciano! —
    Ben ora intendo che in amor si spasimi.
    Poveri amanti! or dato emmi conoscere
    Quanto sia quel martir che vi dilania;
    O voi che a un motto, a un atto, o al sol sorridere
    Di lei che idolatrate il cor vi sanguina;
    Voi che, turbati in vista e melanconici,
    Torcete il collo, e di perdono e grazia
    Supplicate a colei quando più sdegnavi.

    Ed io, per qual destino al vostro misero
    Stuolo m’aggiungo? O amor, odio implacabile
    Non ti giurai fors’io? Quel tuo svenevole
    Sguardo, atroce non m’è forse supplizio?
    Qual di repente mi penetra incognita
    Dolcezza! Or donde vien questo che sorgere
    In me sento piacer, mirando il nobile
    Aspetto, il volto, e le venuste, candide