Eugenio Anieghin/Capitolo Primo
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CAPITOLO PRIMO.
Si affretta di vivere, s’affanna a godere.
Viasemski.
“Mio zio, uomo d’illibati costumi, godeva la stima di tutti ed era giunto al colmo dei suoi desiderii, quando in un subito ammalò sul serio. L’esempio suo potrà servir di norma ai posteri; ma che seccatura per me vegliar dì e notte accanto al suo letto nè osare discostarmene di un passo! Che brutta ipocrisia è confortare un moribondo, assettargli i guanciali, porgergli con volto afflitto le medicine, mentre si dice in disparte con un sospiro d’impazienza: “Ti levasse via il diavolo, maladetto vecchio!”
Viaggiando per la posta in mezzo a un nuvolo di polvere, così fantasticava fra sè un giovine scapestrato, erede, per voler di Giove, di tutti i suoi consanguinei. Ammiratori di Ruslano e Liudmila,1 permettete che questa volta io, senza altri preamboli vi faccia fare amicizia col protagonista di questo mio nuovo romanzo. Il mio buono Eugenio Anieghin nacque sulle sponde della Neva ove forse nasceste voi pure, ove forse faceste bella figura, o miei lettori! Anch’io le conosco, e ci ho spesso passeggiato; ma il clima del norte m’è contrario.2
Il padre d’Eugenio, dopo aver servito lo Stato con onore, viveva di debiti; dava tre feste di ballo all’anno e finì spiantato. La sorte dapprima favorì Eugenio; egli ebbe per balia una Madame; quindi un Monsieur per aio. Cresceva un po’ vispo, ma amabile. Quel povero diavolo di abate francese non volendo stancar la mente del suo alunno, lo istruiva scherzando e ridendo. Alieno dai precetti d’una austera morale, non lo sgridava che per celia, e lo menava a spasso nel Giardino d’estate.
Quando Eugenio arrivò all’età delle vaghe speranze e della tenera melancolia, monsieur l’abbè fu licenziato. Ecco Anieghin finalmente libero. Pettinato all’ultima moda, attillato come un dandy di Londra, Anieghin si lanciò nei saloni eleganti. Scriveva e parlava in francese molto bene; danzava con garbo la marcusa; salutava con gran disinvoltura: che potevasi esigere di più! L’alta società lo dichiarò spiritoso e compito.
Tutti abbiamo studiato qualche coserella in un modo qualunque. Possiamo dunque spacciarci per dottori. A detta di giudici competenti e severi, Anieghin era un ragazzo erudito ma un po’ pedante. Aveva il felice talento di ciarlare di tutto con grazia. Quando nasceva una discussione grave, sapeva tacere col muso serio d’un intelligente e divagar le signore coi suoi frizzi satirici e spontanei.
La lingua del Lazio è oggimai fuor d’uso: Eugenio, a dir vero, la conosceva abbastanza per decifrare una epigrafe, per chiacchierare di Giovenale, per cacciare un vale in fondo a una lettera e citare a mente, storpiandoli un poco, due versi di Virgilio. Non si sentiva gran vocazione a rovistar nella muffa cronologica dell’istoria del globo; ma sapeva appuntino gli aneddoti curiosi dai tempi di Romolo ai nostri.
Ricusò di sacrificar mezza la vita a studiar prosodia, e ad onta delle nostre premure non giunse mai a poter distinguere un iambo da un coreo. Bestemmiava Omero e Teocrito; leggeva Adamo Smith e diveniva un profondo economista; esaminava per qual modo uno Stato sussiste e s’arricchisce, e perchè l’oro non gli è necessario quando possiede i prodotti primi. Il padre di Anieghin non capiva niente a queste teorie, e ipotecava i suoi beni.
Mi manca il tempo per dire appieno tutto ciò che Eugenio sapeva. Ma la scienza in cui primeggiava, la scienza a cui dalle fasce egli si applicò con impegno, con studio, con diletto; la scienza che occupava le sue intere giornate e vinceva la sua naturale indolenza, era la scienza di quella tenera passione che Nasone cantò sulla lira e per la quale chiuse la vita, come un martire, nelle atroci steppe della Moldavia, lungi dalla sua cara Italia......
Benchè così novizio, già sapeva comporre il volto a suo beneplacito, occultare le sue speranze, simular la gelosia, asserire, persuadere, mostrarsi or feroce or languido, or superbo, or umile, or attento, or indifferente. Come sapeva a vicenda esser silenzioso e discreto, o focoso ed eloquente! Che espansione, che calore nel suo carteggio intimo! Non sospirava che per un solo oggetto, non adorava che una sola donna e per essa dimenticava il resto. L’occhio suo esprimeva ora la tenerezza e la timidità, ora l’audacia, e a volte s’irrugiadava di obedienti lacrime.
Sapeva comparire sempre nuovo alle belle, sapeva commoverle con finte disperazioni, ammaliarle con melate lusinghe, coglier l’istante di debolezza, accalappiare l’innocenza burlando, sperdere a forza di logica e di passione i pregiudizi dell’inesperienza, aspettare una carezza involontaria, implorare ed esigere una dichiarazione, sorprendere i primi palpiti di un cuore vergine, inseguire senza posa la preda, e alfine ottenere dalla impietosita un misterioso appuntamento in cui le dava lezioni particolari d’amore. Oh, come sapeva confondere l’astuzia delle civette sfacciate! Quando voleva sfrattare, i rivali con che impudenza li denigrava! Che insidie tendeva sui loro passi! Ma voi, fortunati sposi, rimanevate suoi amici. Il marito scaltro, antico discepolo di Faublas; l’incredulo vecchio, maestoso capricorno, sempre contento di sè stesso, del suo secolo e di sua moglie, piaggiavano a gara il nostro Eugenio.
Talvolta, mentre era tuttora in letto gli pioveva in camera un diluvio di bigliettini. Che saranno mai? Inviti? Di fatto, a un tempo stesso è pregato a conversazione in tre case diverse. In una v’è festa di ballo; in un’altra, ricreazione di bambini. In quale di questi posti si condurrà il nostro scapato? Con quale comincerà il suo giro? Poco importa, purchè vada in tutti. Frattanto si veste da mattino, prende il suo largo bolivar,3 corre al boulevard, passeggia in su e in giù finchè il suo infallibile Breguet4 gli segni l’ora del pranzo.
Fa buio. Egli si accomoda in una slitta. “Ehi davanti! Ehi davanti!” gridano da ogni parte i cocchieri. Una polvere bianca inargenta il bavero del suo ì soprabito. Si ferma da Talon, credendo che ivi già lo aspetti N. N. Entra, e i tappi balzano al soffitto e il vino della cometa5 si mesce a torrenti. I servi gli imbandiscono un roast-beef sanguinolento, un piatto di tartufi, delizie della gioventù e onore della cucina francese; e l’incorruttibile pasticcio di Strasburgo6 torreggia davanti a lui fra un formaggio vivente di Limburgo e una piramide d’aurei ananassi.
La sete eccitata dalle bollenti costolette richiede per estinguersi altre libazioni; ma la lancetta dell’orologio già annunzia che è principiata la nuova pantomima. Mordace Aristarco del teatro, incostante adoratore di tutte le attrici, onorato cittadino delle quinte, Anieghin si trasporta al teatro, ove già tutti i dilettanti stanno pronti ad applaudire le capriole delle danzatrici, a fischiar Fedra e Cleopatra, a richiamar Maina7 coll’unico scopo di farsi osservare dalla gente.
Magico recinto nel quale echeggiarono i carmi dell’arguto Von Visin,8 re dell’ironia e amico della libertà! Lì Oseroff9 divise colla giovine Semenova10 l’omaggio del nostro pianto e del nostro fanatismo; lì Catienin11 rivelò al pubblico russo il genio sublime di Cornelio; lì il caustico Sciachovschi lanciò il su surrante sciame delle sue commedie; lì Didelot12 s’incoronò d’immortali allori; lì, all’ombra di quelle decorazioni, passarono i miei dolci anni primieri.
Care dive, che fu di voi? Porgete orecchio alla mia voce addolorata: siete sempre quali io vi vidi, oppure altre dive vi hanno supplite ma non pareggiate? Udrò io ancora i vostri concenti? Mirerò ancora il volo della Terpsicore russa, ovvero la mia vista sconsolata non incontrerà più nessuna fisionomia nota sulla vedova scena, e dovrò io, freddo spettatore dell’allegria comune, appuntare indarno il canocchiale sopra una adunanza sconosciuta, e, sbadigliando in disparte, contentarmi delle reminiscenze del tempo trascorso?
La sala è zeppa di gente; i palchi brulicano; la platea e l’anfiteatro fervono, il lubbione trepida d’impazienza. Il sipario s’alza con un grato stroscío.... Sfavillante di luce, mezza aerea, docile al cenno dell’arco armonico, circondata d’una schiera di ninfe, ecco s’avanza Istomina13 radendo appena il suolo colla cima d’un piede, mentre l’altro lentamente aleggia. Ora essa saltella, ora spazia più lieve che piuma al soffio d’Eolo, ora curva il bel fianco, ora lo drizza, e intreccia e batte in tempo gli agili calcagni.
Tutti gli astanti dan segni di satisfazione. Anieghin entra, calpestando la gente si fa strada fra le poltrone, alza il doppio tubo ottico ai palchi ove stanno signore ch’egli non conosce ed esamina l’un dopo l’altro tutti gli ordini. Ha già veduto ogni cosa e nulla gli garba, nè i sembianti nè le toelette.14 Saluta i conoscenti che scorge in varie parti, poi si volge agli attori con occhio disattento, gira la testa sbadigliando e susurra: “Convien mutar tutto; assai tempo ho sofferto i ballets; persino Didelot m’è venuto a uggia.”
Gli amori, i diavoli tuttora sgambettano e tempestano sulla scena; già i lacchè stracchi russano nel vestibolo sulle pellicce dei padroni. Gli spettatori si soffiano il naso, tossono, fischiano, picchiano le mani. Dentro e fuori rifulgono mille lumi; i cavalli intirizziti dal freddo scuotono i finimenti; i cocchieri, ritti intorno ai braceri, maledicono i loro signori e si percuotono i fianchi colle palme per riscaldarsi. Già Anieghin è uscito; va a casa a mettere un nuovo costume.
Potrò io mai fedelmente descrivere il gabinetto appartato, ove l’esemplare discepolo delle mode si vestiva, si spogliava e si rivestiva? Tutte quelle bagattelle che Londra in sì gran copia fabbrica per contentare i nostri capricci e ci manda quindi a traverso il Baltico in ricambio di legno e di sego; tutte quelle galanterie che il gusto e la provvida industria di Parigi inventa per dilettar la vista, per pascere il lusso e la mollezza del mondo elegante, tutto ciò adornava il gabinetto del nostro filosofo di diciotto anni. Pipe turche con bocchini d’ambra; lavori di porcellana e di bronzo; boccette di cristallo piene d’essenze odorose; pettini e lime d’acciaio; forbici dritte o curve; spazzole di trenta specie per le unghie e per i denti, ingrombravano i suoi tavolini. Rousseau (fo questa osservazione fra parentesi), Rousseau non poteva perdonare a Grimm di essersi nettato le unghie in sua presenza.15 O magniloquente mentecatto! Il propugnatore della libertà e del dritto, in questo caso, ha certamente torto. Un uomo può essere assennato e pulirsi le unghie. Perchè voler lottare senza pro contro il secolo? L’uso è autocrata della società. Il mio Eugenio, paventando come un altro***, i sarcasmi degli invidiosi, era, per dirla in una parola, un pedante della moda, uno zerbino coi fiocchi. Se ne stava talvolta almeno tre ore di seguito innanzi allo specchio, ed esciva dal suo boudoir, acconciato come una Venere notturna che sen va al veglione mascherata da uomo.
Potrei qui dilungarmi in descrivere la toelette d’Eugenio, e attrarre l’attenzione degli eruditi sul suo abbigliamento; ma convien ch’io rinunzi a tale impresa, poichè la lingua russa non ha voci corrispondenti a pantalon, frac, gilet. E d’altronde m’accorgo e confesso con schiettezza, che il mio sciagurato stile pur troppo è gia zeppo di espressioni esotiche, sebben per iscansarle io spesso scartabelli il Dizionario dell’Accademia.
Ma ora di tutt’altro dobbiamo intrattenerci. Fa d’uopo che ci rechiamo alla festa di ballo ove Anieghin s’avvia in una calescia da nolo. Sulle facciate oscure delle case, pel lastricato silenzioso delle strade, i fanali delle carrozze spandono un giocondo chiarore che si refrange in mille archibaleni sulla neve. Il nostro eroe smonta all’ingresso d’un suntuoso palazzo, splendidamente illuminato. Si vedono passare e ripassare alle finestre, innumerevoli ombre e profili di teste di signore e di cavalieri.
Anieghin si slancia nel peristilio, vola come strale davanti allo introduttore svizzero16, sul pavimento di marmo. Si liscia i capelli colla mano, ed entra nella sala di conversazione. È piena gremita di gente, e i musicanti cominciano a essere stanchi. Gli invitati danzano la masurca. Dappertutto chiasso e calca straordinaria; ronzano gli speroni dei chevaliers gardes,17 guizzano e trepidano i piedini delle gentili dame; infiniti sguardi ardenti li accompagnano, e l’armonia dei violini soffoca il cinguettio delle gelose donne alla moda.
Nei miei giorni di felicità e di desiderio, io ammattiva per le feste di ballo. Non conosco luogo più propizio per far dichiarazioni d’amore, e consegnar viglietti teneri. O rispettabili mariti! Io vi offro i miei servizi, e vi prego d’attendere alle mie parole: vi voglio salvar l’onore. Voi pure, buone madri, osservate con maggior rigore la condotta delle vostre figlie, abbiate sempre gli occhiali a cavalcioni sul naso.... Non crediate però ch’io.... Dio me ne scampi e liberi! Parlo così, perchè già da un pezzo io non pecco più.
Ahimè, che ho perduto molta parte di mia vita in diporti frivoli! Eppure mi talenterebbero tuttora le feste di ballo, se non offendessero la morale! Io amo la petulante gioventù, la folla, il brio, l’allegria, gli addobbi ricercati delle belle; ma più di tutto io vagheggio i loro piedini. Peccato però, che in tutta la Russia si trovino appena tre paia di bei piedi muliebri! Ma fra questi uno ve n’ha, ch’io non potrò sì tosto dimenticare! Tribolato, spassionato, desto o svegliato, io gli ho sempre presenti, e ogni notte vengono a stuzzicarmi in sogno. In nessun tempo, in nessun clima li potrò io obliare. Ahi, piedini, piedini! Dove siete adesso? Sotto qual zona premete i fiorellini di primavera? Avvezzi alla mollezza orientale, non stampaste orma sulle orride nevi del settentrione; vi bisognava la morbidezza dei tappeti di Persia. Per voi, io scordai la gloria, l’ambizione, il paese degli avi miei, e la mia prigionia. L’incanto dei miei anni giovanili svanì come sull’erba dei prati la traccia vostra.
Il seno di Diana, le gote di Flora, o amici cari, mi fan trasecolare, ma più seducenti ancora mi sembrano i piedini di Terpsicore. Essa, lasciando travedere l’ambito guiderdone degli amanti, trascina dietro a sè un turbine di voti e di sospiri. Io adoro quei piedini: di primavera, sopra lo smalto delle lande; d’inverno, innanzi agli alari del caminetto, sul tavolato lucido dei saloni, sotto le lunghe tovaglie delle mense, e presso al mare sul granito d’uno scoglio.
Un giorno, io ed essa, eravam sul lido poco prima di una burrasca. Oh come io invidiava le onde che venivano in tumultuosa fila a lambirle amorosamente i piedi! No, durante il voluttuoso corso della mia gioventù, non bramai con tanto affetto di baciare le labbra purpuree, o le rosee guance, o il petto tremulo delle nuove Armide, come bramai in quel punto di baciare quei piedini.
Mi rimembro d’un’altra circostanza. Talvolta in un sogno felice parmi tener l’arcione della sua sella, e stringer fra mano quel piedino adorato. A quel pensiero mi si riscalda la fantasia, a quel contatto mi ribolle il sangue nelle vene agghiacciate: soffro ancora, amo ancora.... ma già troppo a lungo la mia garrula Musa celebrò le belle superbe: esse non meritano nè gli ardori nè i carmi che esse ci ispirano. Le parole e il cuore di quelle lusinghiere sono così volubili come i loro piedi.
Ma dov’è il mio Anieghin? Mezzo addormentato esce dalla festa di ballo, e va a gustare un istante di riposo. Già il rimbombo dei tamburi ha svegliato l’abitante instancabile di San Pietroburgo. Il mercante balza da letto, il rivendugliolo va in giro colle sue ceste, il cocchiere s’incammina alla stazione consueta. La contadina di Octa corre colle sue brocche di latte, e fa crepitar la neve sotto ai suoi solleciti passi. Il gradito fracasso del mattino si rinnovella dappertutto: le imposte si spalancano; il fumo delle stufe serpeggia per l’aria in ghirlande azzurrine, e l’accurato fornaio tedesco col berretto bianco in testa ha già aperto più volte lo sportellino della sua bottega.
Frattanto il figlio del piacere e del fasto, sbalordito dal frastuono delle feste, converte il mattino in notte, e dorme placidamente fra beate visioni. Si desterà dopo le dodici; continuerà la stessa vita varia eppure uniforme, e domani farà quel che fece ieri. Domanderete forse se il mio Eugenio, indipendente sul più bel fior degli anni, fra i trionfi, gli amori e le delizie, godesse la felicità? Domanderete se fra i lauti conviti egli fosse tranquillo e sano?...
No: i sensi suoi già divennero ottusi e languidi. Il rumore del mondo lo importuna; le belle non son più il precipuo oggetto dei suoi pensieri. La perfidia delle donne lo ha disgustato; è stucco degli amici e dell’amicizia, perchè non può sempre condire di sciampagna le bistecche e i pasticci di Strasburgo, nė sciorinar motti e frottole quando gli duole il capo; e benchè egli fosse un discolo solenne, abiuro finalmente gli alterchi, le sciabole e le pistole.
Un morbo, le cui cause già da gran tempo si sarebbero dovute indagare; un contagio fratello dello spleen inglese, vale a dire l’ipocondria russa, lo invase poco a poco. La Dio mercè egli non cercò di farsi saltar le cervella, ma si svogliò di tutto. Divenne burbero e tetro come Childe Harold. Nè i pettegolezzi della città, nè il gioco del boston, nè le provocatrici occhiate, nè i sospiri indiscreti lo commovevano, e non vi badava nemmeno.
In primo luogo, egli abbandonò le fantastiche dame della alta società. A dir vero, il bon ton d’oggi giorno è bastantemente seccante. Sebbene alcune signore siano in grado di spiegare Say e Bentham, ciò non ostante, ad onta di quell’innocuo cicalío, la loro compagnia è intollerabile. Di più esse sono così caste, così maestose, così spiritose, così pie, così guardinghe, così puntuali, così inespugnabili, che la sola vista loro ti appicca lo spleen.
E voi, o forosette, cui ad ora avanzata un rapido droschi mena in giro per le vie di San Pietroburgo, il mio Eugenio piantò lì anche voi. Disertore dei divertimenti sregolati, Anieghin si rinserrò nella sua camera, prese carta e calamaio, e volle scrivere; ma quella applicazione improba gli fiaccò le forze. Quindi egli non entrò nella setta di quelli uomini violenti, che io non condannerò perchè io sono di quel numero uno.
Nuovamente in preda all’ozio, straziato dall’inedia del cuore, schierò un battaglione di libri sulli scaffali della sua biblioteca, e s’assise col lodevole intento di far suo proprio l’ingegno altrui. Lesse, lesse, lesse, ma senza scopo e senza frutto; ove trovò la noia, ove l’inganno e la follia. Tale autore non ha coscienza, tale altro non ha giudizio; ciascuno ha le sue prevenzioni e i suoi vizi. Gli antichi sono un po’ vieti, e i moderni delirano sugli antichi. Mandò all’aria i libri come le donne, e avvolse in un drappo bruno la biblioteca, e i suoi polverosi tesori.
Io conobbi Anieghin verso quell’epoca di sua vita. Appunto aveva io, come lui, scosso di recente il giogo delle convenzioni sociali e delle vanità mondane. Mi piacque la fisionomia d’Eugenio. Quella sua indole astratta e cogitabonda, quella stranezza di maniere e d’idee, congiunta a una sagacità rara e ad un senno squisito, m’empì di meraviglia. Io fremeva di sdegno; egli sen stava quieto e meditabondo. Ambedue sapevamo per prova come scherzino le passioni; ambedue satolli della esistenza, dovevamo soffrire nel mattino della vita gli oltraggi della ceca fortuna, e dei nostri simili.
Chi ha vissuto e riflettuto, non può fare a meno di sprezzare gli uomini, nel secreto del cuore. L’imagine dei dì passati, che non torneranno più, è una tortura per un’anima sensibile. Il rammarico, il pentimento, la mordono e la rodono come serpenti, e per essa non v’ha più vera gioia. Tali sentimenti infondono nella conversazione di chi li prova una grazia, un fascino onnipossente. Dapprincipio, il linguaggio d’Anieghin mi turbò; ma poco a poco mi assuefeci alle acerbe invettive, ai sarcasmi pungenti e atrabiliari, che discorrendo scoccava, or qua or là, come tanti strali mortiferi.
Nella stagion d’estate, quando il cielo si specchiava limpido e terso nel cristallo della Neva; quante volte, a quell’ora di notte in cui più non brillava il sorriso della luna, errando insieme lungo le sponde del fiume, ci narrammo a vicenda gli episodi romanzeschi dei nostri primi amori! Ridivenivamo sensibili e noncuranti, oppure ci inebriavamo in silenzio dei grati olezzi della verdura, in mezzo a quelle tenebre sfolgoranti di stelle. Trasferiti in idea dal tempo presente sì amaro, nel passato sì dolce, provavamo quel che proverebbe un galeotto, il quale addormentatosi nell’orror dell’ergastolo, si destasse in seno a un fiorito boschetto.
Immerso nell’abisso delle sue rimembranze, talvolta Eugenio se ne stava aggomitato18 sul granito, come il personaggio descritto dal poeta.19 Alta quiete regnava intorno, non s’udiva altro strepito che il grido delle sentinelle, e di quando in quando il fragore delle ruote d’un droschi nel quartiere della Miliona. Al più al più, una barchetta a remi solcava lentamente la superficie unita del gran fiume; e ci molcea l’orecchio un suon di corno misto a un canto flebile in lontananza. Ma più soave assai echeggia nelle ombre opache l’armonia delle ottave del Tasso.
O lagune dell’adriaco mare, o Brenta! Io vi vedrò; io andrò a ispirarmi al susurro delle vostre acque. La vostra voce è sacra ai figli d’Apollo; essa mi è nota per la cetra altera d’Albione,20 mia maestra e donna. Io assaporerò la voluttà delle notti dell’aurea Italia; io vogherò in una misteriosa gondola al fianco d’una leggiadra veneziana, ora loquace, ora taciturna, che addestrerà le mie labbra a modular la favella di Petrarca, e d’amore.
Ricupererò io mai la libertà? Io la chiamo, io la sospiro con fervore. Vo spaziando qua e là in riva al mare;21 invoco la burrasca; fo segni alle antenne delle navi. Quando potrò io intraprendere un tragitto periglioso sui flutti lottanti coi venti, per le oblique vie del pelago? È tempo che io fugga il lido fastidioso e queste aure aborrite; è tempo ch’io voli sotto un cielo più mite, sulle spiagge dell’Africa natia,22 a pensare a questa nebulosa Russia, ove ho sofferto, ove ho amato, ove giace sepolto il mio cuore.
Anieghin stava per far vela meco verso estranee regioni, quando piacque al barbaro destino di separarci per lungo tratto. Il padre d’Anieghin passò da questa vita. Un branco d’accaniti creditori assalì Eugenio. Tutti avevano dritti legittimi e istromenti validi. Eugenio che abominava le liti, contento delle sue mediocri sostanze, cesse loro l’eredità paterna; non credendo scapitar gran cosa, e pronosticando forse la prossima fine d’un suo vecchio zio. E, in fatti, di lì a poco, gli giunse la notizia che quel galantuomo era in punto d’agonia, e bramava, prima di spirare, dargli l’estremo addio. Eugenio, subito ricevuta la lettera dell’intendente, montò in posta, anticipatamente sbadigliando dalla noia, e preparandosi a dovere, per qualche danaro, gemere, piangere, e far quella commedia cui si allude nell’esordio di questa veridica istoria. Ma quando Eugenio giunse al villaggio dello zio, trovò il buon vecchio già basito e in procinto di andarsene sotterra.
Il cortile era pieno di servitori. Da ogni banda accorrevano amici e nemici per godere della vista dei funerali. Si seppellì il defunto. I preti e i curiosi gozzovigliarono in suo onore, e quindi, ben pasciuti, si ritirarono con gravità e sussiego, come persone che han compito un dovere sacrosanto. Ecco Anieghin divenuto campagnuolo, possessore assoluto di manifatture, di canali, di selve, di poderi, esso, fin ad ora, scialacquatore di prima riga, e recalcitrante ad ogni freno! Eccolo che consente a trasformare il suo antico vivere disordinato in una esistenza regolata e sicura.
Per ben due giorni interi la solitudine dei campi, la frescura crepuscolare dei querceti, il mormorío d’un placido ruscelletto, gli tornarono a genio. Nel terzo giorno, i boschi, i poggi, le valli, non lo dilettarono più tanto; anzi gli cagionarono un tedio mortale. Finalmente s’accorse e fu convinto, che la noia penetra anche nelle borgate rustiche, quantunque non vi si trovino nė strade, nè palazzi, nè carte da gioco, nè feste di ballo, nè poesie. L’ipocondria accompagnava Eugenio in ogni luogo, e lo inseguiva come una ombra, o una sposa fedele.
Io son nato per la vita quieta, per la calma delle ville. Il suono della cetra pare più melodioso in quel silenzio; le visioni della mente son più vive. Ivi mi pasco d’innocenti piaceri, navigo sul liquido cristallo d’un lago; nè conosco altra legge, che il dolce far niente. La libertà e la mollezza occupano le mie giornate; leggo un poco, dormo un poco; più non mi cale di quel vano fiato di vento, che si appella gloria. In somma, io passo il tempo come lo passava nella mia infanzia scevro di cure e di pensieri.
Fiori, amori, verdura, campagna, riposo, siete i miei Dei tutelari. Mi rallegro sempre quando mi accade di notare qualche divario fra il carattere d’Eugenio e il mio. Senza di ciò, i lettori malevoli, i coniatori d’ingegnose calunnie, riconoscendomi forse a qualche indizio, andrebbero poi vociferando, che ho qui delineato il mio ritratto, secondo l’esempio di Byron, poeta dell’orgoglio. Perchè mai sarebbe più difficile di dettar poemi sopra gli altri, che sopra noi medesimi?
Io farò una osservazione. Tutti i poeti si lasciano abbindolar dall’amore ideale. Tempo fa, io adorava certi cari oggetti, la cui effigie mi è rimasta impressa in fondo al cuore. La Musa poi prestò un corpo a quelle vaghe imagini, e celebrò la fanciulla dei monti23 e le captive delle sponde del Salghir.24 Adesso, amici miei, non di rado mi dirigete questa domanda: “Per chi palpitano le corde del tuo liuto? A quale delle gelose vergini sacrasti i tuoi concenti? Quale bella, destando in te l’entusiasmo, premiò i tuoi carmi con una occhiata? Chi è quella che divinizzi ora nelle tue carte?” Nessuna, o amici, lo giuro. Pur troppo esperimentai le ambasce forsennate di Cupido. Felice colui che accoppia il fuoco d’amore a quel di poesia, e così duplica il sacro furore dell’ispirazione ad esempio di Petrarca, il quale, leniva il suo affanno cantando, e a un tempo stesso s’irradiava di gloria. Ma io, quando corteggiavo le donne, ero stolto e muto.
La fiamma d’amore si estinse e rimasi al buio. Allora la Musa m’apparve e dissipò la caligine del mio intelletto. Libero omai, cerco ancora di combinare l’armonia del metro col sentimento e la ragione; scrivo, e con tale esercizio placo gli spasimi del cuore. La mia penna non si balocca più a schizzare, fra i versi non finiti, piedini e volti di donne. La cenere spenta non riarde più. Io tuttora patisco; ma è esausta la fonte delle lacrime, e in breve ogni traccia d’agitazione sarà sparita. Allora m’accingerò a comporre un poema in venticinque canti. Ho già ideato il nesso dell’azione, e stabilito il nome dell’eroe.
Intanto eccomi giunto al fine del primo capitolo di questa favola. L’ho riveduto con accuratezza; vi ho scoperto un monte di contradizioni, ma non vo’ sprecar tempo in tôrle via. Adempirò il mio dovere verso la censura, e regalerò questo nuovo frutto ai giornalisti, acciocchè se lo mangino. Vattene adunque sulle rive della Neva, o neonato parto del mio ingegno! Possa tu produrre colà i soliti effetti delle cose illustri le maligne interpretazioni, i clamori pazzi, e gli improperi.
Note
- ↑ Titolo del primo poema composto da Puschin.
- ↑ Questo capitolo fu scritto in Bessarabia, ove Puschin fu mandatoper ordine superiore.
- ↑ Cappello così denominato dal famoso fondatore della Bolivia.
- ↑ Celebre orologiaro.
- ↑ Vino dell’anno 1811 nel quale comparve la cometa di Giulio Cesare.
- ↑ Pasticci rinomatissimi fatti di fegato di oche.
- ↑ Attrice.
- ↑ Poeta comico.
- ↑ Poeta tragico.
- ↑ Attrice.
- ↑ Traduttore di Cornelio.
- ↑ Direttore del ballo.
- ↑ Ballerina.
- ↑ Toelette e costume sono francesismi legittimati dall’uso.
- ↑ “Tout le monde sut qu’il mettait du blanc; et moi, qui n’en croyais rien, je commençai de le croire, non seulement par l’embellissement de son teint et pour avoir trouvé des tasses de blanc sur sa toilette, mais parce qu’entrant un matin dans sa chambre, je le trouvai brossant ses ongles avec une petite vergette faite exprès, ouvrage qu’il continua fièrement devant moi. Je jugeai qu’un homme qui passe deux heures tous les matins à brosser ses ongles, peut bien passer quel ques instants à remplir de blanc les creux de sa peau. Confessions de Jean Jacques Rousseau, liv. vii. Rousseau volendo riformare la società, incominciò dal vestiario. Così fecero tutti i grandi riformatori. Così fece Pietro il Grande in Russia nel secolo decimo settimo; così ha fatto, ai giorni nostri, il Sultano Mahmud in Turchia. Rousseau depose la perrucca; tutti i contemporanei l’imitarono, e colla perrucca deposero l’idee inerenti a quella, le idee barbare e stolte del medio evo. Così nacque il costume moderno che ebbe per cuna Parigi. Tutto il mondo accettò le mode di Parigi; tutti i popoli presero, per così dire, la livrea francese. E d’allora in poi tutti i popoli, volens, nolens, stanno sotto l’influenza francese. Ma l’unità di vestiario addurrà l’unità di misure, di moneta e di lingua.... dove ci fermeremo in tale strada? Forse tutti i popoli formeranno fra qualche secolo un sol popolo!... Puschin ha ben ragione di dare grande impor tanza alle cose di moda.
- ↑ Le Suisse, ossia introduttore, secondo uso di Francia. Così chiamato perchè i primi che adempirono quello officio erano Svizzeri, ma poi furono anche Francesi, come per esempio Petit-Jean, il quale dice nei Plaideurs di Racine:
Il m’avait fait venir d’Amiens pour être Suisse.
Atto I, Sc. I.
- ↑ Guardie particolari dell’imperatore.
- ↑ Aggomitare non si trova nei vocabolari, ma essendo necessario si può usare.
- ↑ Allusione a certi versi scritti dal poeta Muravieff.
- ↑ Lord Byron, che abitò molto Venezia e vi compose un canto di Childe Harold, la tragedia dei Due Foscari, e altri poemi.
- ↑ Puschin era allora in Odessa.
- ↑ Dicemmo nella Biografia che Puschin dal lato di sua madre discendeva da un negro africano.
- ↑ Nel Prigioniero del Caucaso.
- ↑ Nella Fontana di Bakcisarai.