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86 | eugenio anieghin |
istante di riposo. Già il rimbombo dei tamburi ha svegliato l’abitante instancabile di San Pietroburgo. Il mercante balza da letto, il rivendugliolo va in giro colle sue ceste, il cocchiere s’incammina alla stazione consueta. La contadina di Octa corre colle sue brocche di latte, e fa crepitar la neve sotto ai suoi solleciti passi. Il gradito fracasso del mattino si rinnovella dappertutto: le imposte si spalancano; il fumo delle stufe serpeggia per l’aria in ghirlande azzurrine, e l’accurato fornaio tedesco col berretto bianco in testa ha già aperto più volte lo sportellino della sua bottega.
Frattanto il figlio del piacere e del fasto, sbalordito dal frastuono delle feste, converte il mattino in notte, e dorme placidamente fra beate visioni. Si desterà dopo le dodici; continuerà la stessa vita varia eppure uniforme, e domani farà quel che fece ieri. Domanderete forse se il mio Eugenio, indipendente sul più bel fior degli anni, fra i trionfi, gli amori e le delizie, godesse la felicità? Domanderete se fra i lauti conviti egli fosse tranquillo e sano?...
No: i sensi suoi già divennero ottusi e languidi. Il rumore del mondo lo importuna; le belle non son più il precipuo oggetto dei suoi pensieri. La perfidia delle donne lo ha disgustato; è stucco degli amici e dell’amicizia, perchè non può sempre condire di sciampagna le bistecche e i pasticci di Strasburgo, nė sciorinar motti e frottole quando gli duole il capo; e benchè egli fosse un discolo solenne, abiuro finalmente gli alterchi, le sciabole e le pistole.
Un morbo, le cui cause già da gran tempo si sarebbero dovute indagare; un contagio fratello dello