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80 | eugenio anieghin |
di Cornelio; lì il caustico Sciachovschi lanciò il su surrante sciame delle sue commedie; lì Didelot1 s’incoronò d’immortali allori; lì, all’ombra di quelle decorazioni, passarono i miei dolci anni primieri.
Care dive, che fu di voi? Porgete orecchio alla mia voce addolorata: siete sempre quali io vi vidi, oppure altre dive vi hanno supplite ma non pareggiate? Udrò io ancora i vostri concenti? Mirerò ancora il volo della Terpsicore russa, ovvero la mia vista sconsolata non incontrerà più nessuna fisionomia nota sulla vedova scena, e dovrò io, freddo spettatore dell’allegria comune, appuntare indarno il canocchiale sopra una adunanza sconosciuta, e, sbadigliando in disparte, contentarmi delle reminiscenze del tempo trascorso?
La sala è zeppa di gente; i palchi brulicano; la platea e l’anfiteatro fervono, il lubbione trepida d’impazienza. Il sipario s’alza con un grato stroscío.... Sfavillante di luce, mezza aerea, docile al cenno dell’arco armonico, circondata d’una schiera di ninfe, ecco s’avanza Istomina2 radendo appena il suolo colla cima d’un piede, mentre l’altro lentamente aleggia. Ora essa saltella, ora spazia più lieve che piuma al soffio d’Eolo, ora curva il bel fianco, ora lo drizza, e intreccia e batte in tempo gli agili calcagni.
Tutti gli astanti dan segni di satisfazione. Anieghin entra, calpestando la gente si fa strada fra le poltrone, alza il doppio tubo ottico ai palchi ove stanno signore ch’egli non conosce ed esamina l’un dopo l’altro tutti gli ordini. Ha già veduto ogni cosa