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eugenio anieghin | 93 |
niva il suo affanno cantando, e a un tempo stesso s’irradiava di gloria. Ma io, quando corteggiavo le donne, ero stolto e muto.
La fiamma d’amore si estinse e rimasi al buio. Allora la Musa m’apparve e dissipò la caligine del mio intelletto. Libero omai, cerco ancora di combinare l’armonia del metro col sentimento e la ragione; scrivo, e con tale esercizio placo gli spasimi del cuore. La mia penna non si balocca più a schizzare, fra i versi non finiti, piedini e volti di donne. La cenere spenta non riarde più. Io tuttora patisco; ma è esausta la fonte delle lacrime, e in breve ogni traccia d’agitazione sarà sparita. Allora m’accingerò a comporre un poema in venticinque canti. Ho già ideato il nesso dell’azione, e stabilito il nome dell’eroe.
Intanto eccomi giunto al fine del primo capitolo di questa favola. L’ho riveduto con accuratezza; vi ho scoperto un monte di contradizioni, ma non vo’ sprecar tempo in tôrle via. Adempirò il mio dovere verso la censura, e regalerò questo nuovo frutto ai giornalisti, acciocchè se lo mangino. Vattene adunque sulle rive della Neva, o neonato parto del mio ingegno! Possa tu produrre colà i soliti effetti delle cose illustri le maligne interpretazioni, i clamori pazzi, e gli improperi.