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92 | eugenio anieghin |
giornate; leggo un poco, dormo un poco; più non mi cale di quel vano fiato di vento, che si appella gloria. In somma, io passo il tempo come lo passava nella mia infanzia scevro di cure e di pensieri.
Fiori, amori, verdura, campagna, riposo, siete i miei Dei tutelari. Mi rallegro sempre quando mi accade di notare qualche divario fra il carattere d’Eugenio e il mio. Senza di ciò, i lettori malevoli, i coniatori d’ingegnose calunnie, riconoscendomi forse a qualche indizio, andrebbero poi vociferando, che ho qui delineato il mio ritratto, secondo l’esempio di Byron, poeta dell’orgoglio. Perchè mai sarebbe più difficile di dettar poemi sopra gli altri, che sopra noi medesimi?
Io farò una osservazione. Tutti i poeti si lasciano abbindolar dall’amore ideale. Tempo fa, io adorava certi cari oggetti, la cui effigie mi è rimasta impressa in fondo al cuore. La Musa poi prestò un corpo a quelle vaghe imagini, e celebrò la fanciulla dei monti1 e le captive delle sponde del Salghir.2 Adesso, amici miei, non di rado mi dirigete questa domanda: “Per chi palpitano le corde del tuo liuto? A quale delle gelose vergini sacrasti i tuoi concenti? Quale bella, destando in te l’entusiasmo, premiò i tuoi carmi con una occhiata? Chi è quella che divinizzi ora nelle tue carte?” Nessuna, o amici, lo giuro. Pur troppo esperimentai le ambasce forsennate di Cupido. Felice colui che accoppia il fuoco d’amore a quel di poesia, e così duplica il sacro furore dell’ispirazione ad esempio di Petrarca, il quale, le-
- ↑ Nel Prigioniero del Caucaso.
- ↑ Nella Fontana di Bakcisarai.