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eugenio anieghin 81

e nulla gli garba, nè i sembianti nè le toelette.1 Saluta i conoscenti che scorge in varie parti, poi si volge agli attori con occhio disattento, gira la testa sbadigliando e susurra: “Convien mutar tutto; assai tempo ho sofferto i ballets; persino Didelot m’è venuto a uggia.”

Gli amori, i diavoli tuttora sgambettano e tempestano sulla scena; già i lacchè stracchi russano nel vestibolo sulle pellicce dei padroni. Gli spettatori si soffiano il naso, tossono, fischiano, picchiano le mani. Dentro e fuori rifulgono mille lumi; i cavalli intirizziti dal freddo scuotono i finimenti; i cocchieri, ritti intorno ai braceri, maledicono i loro signori e si percuotono i fianchi colle palme per riscaldarsi. Già Anieghin è uscito; va a casa a mettere un nuovo costume.

Potrò io mai fedelmente descrivere il gabinetto appartato, ove l’esemplare discepolo delle mode si vestiva, si spogliava e si rivestiva? Tutte quelle bagattelle che Londra in sì gran copia fabbrica per contentare i nostri capricci e ci manda quindi a traverso il Baltico in ricambio di legno e di sego; tutte quelle galanterie che il gusto e la provvida industria di Parigi inventa per dilettar la vista, per pascere il lusso e la mollezza del mondo elegante, tutto ciò adornava il gabinetto del nostro filosofo di diciotto

anni. Pipe turche con bocchini d’ambra; lavori di porcellana e di bronzo; boccette di cristallo piene d’essenze odorose; pettini e lime d’acciaio; forbici dritte o curve; spazzole di trenta specie per le unghie e per i denti, ingrombravano i suoi tavolini. Rousseau (fo questa osservazione fra parentesi), Rousseau non

  1. Toelette e costume sono francesismi legittimati dall’uso.