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88 | eugenio anieghin |
scuno ha le sue prevenzioni e i suoi vizi. Gli antichi sono un po’ vieti, e i moderni delirano sugli antichi. Mandò all’aria i libri come le donne, e avvolse in un drappo bruno la biblioteca, e i suoi polverosi tesori.
Io conobbi Anieghin verso quell’epoca di sua vita. Appunto aveva io, come lui, scosso di recente il giogo delle convenzioni sociali e delle vanità mondane. Mi piacque la fisionomia d’Eugenio. Quella sua indole astratta e cogitabonda, quella stranezza di maniere e d’idee, congiunta a una sagacità rara e ad un senno squisito, m’empì di meraviglia. Io fremeva di sdegno; egli sen stava quieto e meditabondo. Ambedue sapevamo per prova come scherzino le passioni; ambedue satolli della esistenza, dovevamo soffrire nel mattino della vita gli oltraggi della ceca fortuna, e dei nostri simili.
Chi ha vissuto e riflettuto, non può fare a meno di sprezzare gli uomini, nel secreto del cuore. L’imagine dei dì passati, che non torneranno più, è una tortura per un’anima sensibile. Il rammarico, il pentimento, la mordono e la rodono come serpenti, e per essa non v’ha più vera gioia. Tali sentimenti infondono nella conversazione di chi li prova una grazia, un fascino onnipossente. Dapprincipio, il linguaggio d’Anieghin mi turbò; ma poco a poco mi assuefeci alle acerbe invettive, ai sarcasmi pungenti e atrabiliari, che discorrendo scoccava, or qua or là, come tanti strali mortiferi.
Nella stagion d’estate, quando il cielo si specchiava limpido e terso nel cristallo della Neva; quante volte, a quell’ora di notte in cui più non