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76 | eugenio anieghin |
Il padre d’Eugenio, dopo aver servito lo Stato con onore, viveva di debiti; dava tre feste di ballo all’anno e finì spiantato. La sorte dapprima favorì Eugenio; egli ebbe per balia una Madame; quindi un Monsieur per aio. Cresceva un po’ vispo, ma amabile. Quel povero diavolo di abate francese non volendo stancar la mente del suo alunno, lo istruiva scherzando e ridendo. Alieno dai precetti d’una austera morale, non lo sgridava che per celia, e lo menava a spasso nel Giardino d’estate.
Quando Eugenio arrivò all’età delle vaghe speranze e della tenera melancolia, monsieur l’abbè fu licenziato. Ecco Anieghin finalmente libero. Pettinato all’ultima moda, attillato come un dandy di Londra, Anieghin si lanciò nei saloni eleganti. Scriveva e parlava in francese molto bene; danzava con garbo la marcusa; salutava con gran disinvoltura: che potevasi esigere di più! L’alta società lo dichiarò spiritoso e compito.
Tutti abbiamo studiato qualche coserella in un modo qualunque. Possiamo dunque spacciarci per dottori. A detta di giudici competenti e severi, Anieghin era un ragazzo erudito ma un po’ pedante. Aveva il felice talento di ciarlare di tutto con grazia. Quando nasceva una discussione grave, sapeva tacere col muso serio d’un intelligente e divagar le signore coi suoi frizzi satirici e spontanei.
La lingua del Lazio è oggimai fuor d’uso: Eugenio, a dir vero, la conosceva abbastanza per decifrare una epigrafe, per chiacchierare di Giovenale, per cacciare un vale in fondo a una lettera e citare a mente, storpiandoli un poco, due versi di Vir-