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90 | eugenio anieghin |
dola al fianco d’una leggiadra veneziana, ora loquace, ora taciturna, che addestrerà le mie labbra a modular la favella di Petrarca, e d’amore.
Ricupererò io mai la libertà? Io la chiamo, io la sospiro con fervore. Vo spaziando qua e là in riva al mare;1 invoco la burrasca; fo segni alle antenne delle navi. Quando potrò io intraprendere un tragitto periglioso sui flutti lottanti coi venti, per le oblique vie del pelago? È tempo che io fugga il lido fastidioso e queste aure aborrite; è tempo ch’io voli sotto un cielo più mite, sulle spiagge dell’Africa natia,2 a pensare a questa nebulosa Russia, ove ho sofferto, ove ho amato, ove giace sepolto il mio cuore.
Anieghin stava per far vela meco verso estranee regioni, quando piacque al barbaro destino di separarci per lungo tratto. Il padre d’Anieghin passò da questa vita. Un branco d’accaniti creditori assalì Eugenio. Tutti avevano dritti legittimi e istromenti validi. Eugenio che abominava le liti, contento delle sue mediocri sostanze, cesse loro l’eredità paterna; non credendo scapitar gran cosa, e pronosticando forse la prossima fine d’un suo vecchio zio. E, in fatti, di lì a poco, gli giunse la notizia che quel galantuomo era in punto d’agonia, e bramava, prima di spirare, dargli l’estremo addio. Eugenio, subito ricevuta la lettera dell’intendente, montò in posta, anticipatamente sbadigliando dalla noia, e preparandosi a dovere, per qualche danaro, gemere, piangere, e far quella commedia cui si allude nell’esordio di