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260 ATTO PRIMO
Ma deh! soffra l’amico al duol che m’ange

Qualche triegua recar. Destati, Acate.
Acate. Signor, son teco. Ah! dell’aurora appena
Sorgono i raggi a illanguidir le stelle;
Pace il Lazio risuona, e pace nieghi
Alle lasse tue membra e a’ tuoi Troiani?
Enea. Pace a me nega il fato. A’ miei guerrieri
Non la tolgo importuno. Ah! sol tu soffri
Di vegliar meco, d’amicizia in pegno.
Acate. Sì, valoroso Enea; quel saldo laccio
Di perfetta amistà che a te mi strinse,
Non vien meno con gli anni, anzi rinforza,
E morte sol me lo può trar dal petto.
Enea. Oh! mio dolce conforto, oh! fido Acate,
Compassiona il mio stato!
Acate.   Oh Dei! Qual nuovo
Infortunio ti assale? I patrii nota Numi
Dell’italico regno a te promesso
Ti han scorto pur felicemente ai lidi.
Quivi di Troia tua rinascer vedi,
Tua mercede, la gloria, e al figlio Ascanio,
E a te medesmo stabilir la sede.
Si oppose invano all’armi nostre e ai fati
D’Aborigeni il re, che al Lazio regna;
E Turno, che de’ Rutoli ha l’impero,
Debole è troppo a vietarti il passo
Fin dove il Tebro ha la sorgente e il fine.
Il re Latin poco ti chiede; ei ti offre
L’amicizia e l’impero, e di due genti
Farne una sola, ed unir teco il sangue
Con la figlia Lavinia e il regno e il nome.
E tutto ciò che ti dovria felice
E lieto far, sol di tristizia è fonte?

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  1. Nel testo: patri.