Discorsi di guerra/Capitolo III
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CAPITOLO III.
Manifestazioni estraparlamentari del Presidente del Consiglio
durante l’autunno del 1916
Il 14 agosto 1916 il Consiglio Provinciale di Torino tenne, come gli altri Consigli Provinciali del Regno, la prima seduta della sessione autunnale. In tale seduta l’On. Boselli fu rieletto Presidente del Consesso e tale riconferma avvenuta mentre l’illustre uomo era anche a capo del Governo, diede luogo ad una solenne manifestazione in suo onore.
L’On. Boselli rispose con un breve discorso che riportiamo dal resoconto ufficiale dei verbali del Consiglio Provinciale.
S. E. l’On. BOSELLI, rispondendo, con una brillante improvvisazione, ai precedenti oratori, ringrazia i Colleghi, il Prefetto e, in modo particolare, il sen. Palberti, la cui eloquenza ha tutta la potenza che tocca il cuore: lo ringrazia dei ricordi carissimi, e tutti ringrazia per la manifestazione ricevuta, che gli è di grande conforto, come di significazione di consenso all’opera sua, e per le continue prove di benevolenza e di fiducia che egli da tanto tempo riceve dal Consesso provinciale (Applausi).
Concorda con ciò che l’on. Palberti disse e soggiunge: Guai a chi, in questo momento, accetta per sè inni e plausi, perchè inni e plausi devon rivolgersi solo ai prodi soldati che combattono, vincono, soffrono, muoiono per la redenzione nazionale (Applausi vivissimi; tutti i Consiglieri si levano in piedi ed applaudono. Grida, di: Viva l’Esercito! Viva Boselli!).
Continuando, egli invia un saluto alle famiglie dei nostri soldati caduti: «Ad essi, egli dice, tutto il nostro plauso, un plauso che è vibrante di gloria, ma che nell’intime fibre dell’animo nostro ha un senso di dolore per le famiglie che rimpiangono gli estinti; per le famiglie alle quali noi mandiamo il saluto, non dico del rimpianto, perchè non può essere pianto chi muore per la patria, ma il saluto dell’affetto, della riconoscenza, della fraternità nostra e di tutta la nazione italiana.» (Applausi).
Afferma che lo Stato deve sentire e sente i doveri che ha verso queste famiglie e assicura che li adempirà. (Bene).
Egli fu chiamato a far opera di concordia nazionale per la guerra italiana e per la guerra della civiltà: concordia che deve essere guida continua del Governo, perchè in così gravi cimenti non vi può essere divisione se non fra coloro che amano la patria e quelli che non l’amano, fra quelli che hanno ferma fiducia nella sua fortuna e quei pochi — se pur esistono — che per la patria rimangono indifferenti.
Di questa concordia dà fulgidissimo esempio tutta la storia del Piemonte, onde nelle prove del 1706 e del 1859 la santità della patria potè stringere in un solo magnifico fascio di forze Principi e popoli, cittadini e combattenti: nel 1706 per difendere la città da un formidabile assedio, nel 1859 per redimere dallo straniero la grande patria italiana. (Applausi).
Un solo dev’essere in questo momento il pensiero di tutti: la vittoria per la rivendicazione dei nostri diritti, la vittoria della civiltà, quella vittoria cioè che ci rende partecipi in intima, cordiale, indissolubile alleanza cogli altri popoli che, con noi, per la civiltà combattono. E per la civiltà splendidamente, durevolmente, felicemente con essi dobbiamo vincere e vinceremo. (Applausi vivissimi).
Questa fervida unione di animi non solo deve mirare alla vittoria per il compimento dei voti nazionali, ma deve preparare l’ascensione della patria nella prosperità del lavoro, nella elevazione della scienza, nella propagazione delle idee e delle scuole dalle quali l’industria nazionale deve trarre il più efficace incremento.
Conchiude rivolgendo un saluto al Re, che, colla sua presenza fra le schiere combattenti, è esempio del valore sereno ed è possente ispiratore delle nostre vittorie: al Re il nostro primo saluto, il nostro unanime applauso. (Tutti i Consiglieri si alzano in piedi e applaudono lungamente, gridando: Viva il Re). Un pensiero riconoscente invia al Duca di Aosta, capitano esperto e valoroso, al quale, primo con le schiere sue, toccò aprire il varco alle nuove vittorie italiane: al Duca d’Aosta il nostro saluto: il nostro saluto al generale Cadorna che così valorosamente guida le nostre schiere: a tutti i nostri soldati, a tutti i marinai nostri e, sopratutto, alla nostra bandiera la quale oggi sventola a Gorizia, e indubbiamente sventolerà ovunque la chiamano la favella italiana, i destini della storia, i diritti della nostra nazionalità. (Applausi calorosi, insistenti: grida prolungate di: Vira il Re! Viva Trieste!).
* * *
Nell’agosto del 1916 il Ministro inglese di Commercio, Runciman, venne a passare alcuni giorni a Pallanza ed in quella occasione ebbe varie conferenze con i Ministri Arlotta (Trasporti) e De Nava (Industria e Commercio) per regolare la questione del prezzo dei noli, specialmente per il trasporto del carbone dall’Inghilterra in Italia.
Al Ministro inglese, nel viaggio di ritorno, in cui toccò Torino, fu offerto, in quella città, il 15 agosto, un banchetto, al quale intervenne l’On. Boselli, che, come si è accennato, era allora colà e che pronunciò il brindisi seguente:Io mi alzo per esprimere l’omaggio nostro a S. M. Giorgio V, Re e Imperatore, alla sua Augusta Consorte e a tutta la Reale Famiglia, unendoci all’ammirazione che sente per essa il Popolo Inglese.
Mi alzo per onorare il Ministro Runciman e per onorare in lui il Governo della Grande Brettagna, che con opera così alta e vigorosa procede nel difendere i diritti della civiltà.
Io vi ringrazio, Onorevole Ministro, per la Vostra venuta in Italia, per questa Vostra visita cortese. Mentre le nostre Nazioni sono congiunte nelle imprese della guerra, Voi veniste a stabilire quegli accordi che riguardano le necessità della vita economica e le urgenti e valide preparazioni della guerra medesima, accordi mercè i quali si aggiunge alla nostra alleanza una novella prova di piena e di cordiale solidarietà.
Noi siamo usi ad ammirare l’Inghilterra come la Nazione primogenita nelle istituzioni della libertà, siamo usi a rammentare, con animo riconoscente, come il Vostro Paese abbia dato ai nostri esuli asilo inviolabile e sincero favore alle idee e alle ardite imprese del nostro Risorgimento.
Quì, in faccia a noi, è il Palazzo dove il Conte Cavour firmò coll’Inghilterra il trattato che fu principio di nuovi tempi per l’Italia e, quì presso, è quell’aula parlamentare dove il Conte di Cavour, il fondatore dell’unità italiana, dichiarò di aver formate alla scuola dell’Inghilterra le sue ispirazioni e i suoi impulsi di ministro riformatore e la sua fede incrollabile nella libertà.
Nella storia della Casa di Savoia e della Monarchia Piemontese sono memorabili le fortunate alleanze colla Gran Brettagna. L’unione di Genova al Piemonte, che costituì il primo evento auspicatore dell’unità italiana, fu pensata da Pitt, fu sostenuta principalmente dalla Gran Brettagna nel Congresso di Vienna.
Per atto di gradita amabilità siede fra noi la Vostra graziosa Consorte, e mentre ad Essa rivolgo il saluto devoto, mi è grato rammentare quanto le donne inglesi pensarono ed operarono per il trionfo delle idealità italiane.
Io mando un caldissimo, plaudente saluto ai vostri prodi soldati. Le barbariche iniquità seppellirono nelle onde del mare il Guerriero insigne, l’altissimo Capitano, le cui gesta gloriose vivranno sublimemente non solo nella Vostra storia, ma nella storia di tutte le genti.
Nel fervore delle battaglie il Suo spirito sorge dagli abissi del mare e sempre guida il valoroso esercito inglese e sempre lo guiderà alla vittoria per il diritto delle genti e per le rivendicazioni della civiltà.
Gli accordi da voi intesi coi miei esimii e competenti Colleghi agevoleranno i commerci del mare. Ma il mio pensiero si rivolge commosso ai naviganti cui non danno tregua le nefande insidie, e il grido di esalazione che si eleva così potentemente dal Vostro Paese è il grido di tutto il mondo civile, è il grido di tutta l’umanità.
Ai Vostri Marinai, ai Lavoratori delle Vostre officine, meravigliosamente produttrici, io mando i saluti dei Marinai e dei Lavoratori Italiani.
Signor Ministro! In questi giorni Voi avete sentito intorno a Voi vibrare il sentimento, affermarsi il volere del popolo italiano.
La nostra alleanza, per ogni riguardo e in ogni intento intima e completa, non è solo alleanza di Stati e di Governi, ma è alleanza di popoli accesi da una medesima fiamma, concordi per raggiungere un medesimo scopo.
E decisi come siamo ad ogni cimento e ad ogni prova, lo raggiungeremo insieme cogli intrepidi nostri Alleati, i meravigliosi combattenti di Francia e di Russia; insieme coi figli del Belgio cui è serbata in questa tragica epopea la immortalità degli eroi e, nel giorno della invocata vittoria, la redenzione gloriosa; insieme colle schiere e colla valida opera degli altri Governi e popoli alleati.
Ciò che noi vogliamo risponde ai diritti della coscienza umana, alla difesa e alla ricostituzione delle nazionalità oppresse, alla restaurazione del diritto delle genti, ai destini insomma della civiltà, segnati da Dio e ai quali non può mancare il giusto, definitivo, durevole trionfo.
* * *
Il giorno successivo l’associazione della stampa subalpina dette un ricevimento in onore dell’Onorevole Boselli.
Il consigliere delegato dell’associazione Dott. Gino Pestelli rivolse, a nome di tutti i soci, un caldo saluto al Presidente del Consiglio.
Ad esso si associò, con brevi parole, il socio anziano Senatore Teofìlo Rossi, Sindaco della città.
L’Onorevole Boselli così rispose:
Carissimi signori ed amici!
Sono avvezzo alle cortesie della stampa, ma questa volta mi si è tesa un’insidia, una insidia dolce, alla quale non ho saputo sottrarmi. Ero persuaso di venire oggi qui a stringere la mano ai giornalisti rimasti a Torino, dopo che tanti di loro hanno abbandonato la penna per il fucile: credevo di venire ad una riunione raccolta e famigliare, ed invece mi trovo qui innanzi ad una vera assemblea. Io non avevo preveduto l’assemblea, non avevo preveduto i discorsi e per rispondervi devo improvvisare.
Non vi dirò chè non so cosa dirvi, chè la sola vostra presenza suscita e moltiplica i miei pensieri e le parole, ma vi dirò quello che sento di dirvi, così alla buona, senza la pretesa di fare un discorso.
Poichè mi trovo fra giornalisti e l’amico Rossi ha ricordato di essere uno dei soci più anziani della Subalpina, rammenterò che io fui tra i fondatori dell’associazione della stampa di Roma, che fu la prima associazione della stampa italiana.
I giornalisti sono gran parte, somma parte dell’impresa che oggi l’Italia combatte: lo furono al proclamarsi della guerra, perchè hanno assecondato l’entusiasmo dove l’entusiasmo correva per le vie, lo hanno risvegliato dove non era tanto vivido, benchè non fosse per nulla spento. E durante la guerra hanno saputo dare al Paese le persuasioni della bontà, della santità dei nostri diritti, del valore meraviglioso dei nostri soldati: hanno cinto di gloria i combattenti, hanno consolato le famiglie lacrimanti. I giornalisti furono i veri celebratori della Patria, i veri sacerdoti del dolore per le famiglie afflitte.
Gran merito è della stampa aver fatto opera di preparazione prima e di aver temprato poi il Paese a quella calma, a quella serenità che serba dai primi giorni dell’impresa nostra: gran merito fu aver mantenuto questa serenità anche nel maggio scorso, quando parve per un istante che la sorpresa nemica fosse per arrestare il corso delle nostre vittorie.
In quei giorni la stampa rese uno dei più grandi servigi al Paese, perchè ha mantenuta ferma la saldezza degli animi, sicura la fede nei destini d’Italia.
Oggi è giorno di vittoria. La vittoria ha secondato le armi nostre e continuerà a secondarle. Gran plauso meritano i capitani il Duca di Aosta per la gloriosa conquista di Gorizia e grandissimo plauso i soldati.
Ma i momenti ardui non sono finiti. Abbiamo la vittoria; ma le altre vittorie ci saranno contrastate. Noi dobbiamo giungere fino alla conquista totale delle aspirazioni italiane, noi dobbiamo ottenere che dovunque la nazionalità italiana nella lingua, nella storia e nelle anime vive, sventoli il tricolore!
Noi dobbiamo mantenerci stretti e concordi coi nostri alleati, perchè insieme con essi noi vogliamo il trionfo della civiltà, di quella civiltà che non consiste soltanto nella cultura, ma che consiste in tutto ciò che forma la elevazione dello spirito e la purezza dell’animo; ciò che non avviene in quei paesi in cui, mentre la scienza progredisce, vengono dimenticati i diritti dell'umanità.
Noi abbiamo fede di giungere alla vittoria e la vittoria avremo poichè la stessa storia insegna che le cause giuste hanno più o meno rapidamente il loro trionfo: l’avremo a costo di nuovi sacrifici e voi a questi sacrifici dovete preparare il paese. Il Paese deve comprendere che la letizia di giorni fortunati non deve far diminuire la fede quando sopraggiungano giorni di minor fortuna.
Dite al Paese che il Governo Italiano non è solo un Governo di concordia nazionale formale, ma è un Governo che della concordia ha il senso intero e completo, che si traduce nell’atto. Tutti coloro che credono che la guerra che si combatte da noi e dai nostri alleati è una guerra giusta, tutti coloro che questo credono e fanno credere fanno opera di concordia nazionale. Dissi ai giornalisti di Roma e ripeto oggi, che se non avessi saputo che i socialisti ufficiali hanno la pregiudiziale antiguerresca, avrei invitato anche i socialisti ufficiali a far parte del Ministero. Non li ho invitati perchè sapevo che la loro pregiudiziale li divideva dall’idea alla quale consacro questi miei anni, che non sono fervidi di gioventù, ma che sono animati dal più grande entusiasmo.
E questa nostra concordia non deve servire solo ad intensificare la guerra, ma deve preparare la resurrezione economica del nostro paese per il dopo guerra. La guerra vittoriosa deve renderci non solo i benefici della pace, ma i benefici di una nuova attività, poichè io ho fede che, quando la vittoria nostra sarà completa, i soldati torneranno dai campi di battaglia, portando con sè non i germi di discordia nel Paese, ma saranno invece i più ferventi, i più forti, i più efficaci fattori dell'avvenire economico della Patria nostra.
Tutte queste forze, tutte queste energie che si manifestano nella guerra continueranno a svolgersi nel nostro Paese per il risorgimento economico che esso attende. E in questi giorni di attesa, dite a tutte le famiglie dei lavoratori, che si trovano oggi in disagio, che i sacrifici che compiono sono sacrifici che la patria non dimenticherà. Raccomandate alle campagne e alle città, ove occorra, che si estenda più e più che mai il lavoro delle donne. Vi sono provincie dell’Italia dove le difficoltà del lavoro agricolo mercè il lavoro delle donne sono superate. In Francia per il lavoro dei campi, per la industria, per la fabbricazione delle munizioni il lavoro delle donne dà ottimi risultati.
E dopo ciò, vi ringrazio della vostra accoglienza e della vostra dolce insidia. Continuate nella vostra opera benefica e il Paese ve ne sarà grato.
L’amico Rossi mi ha portato il saluto di Torino, che ricambio di cuore, per quanto dovrei forse restituirlo al Municipio. Ma non sono venuto a Torino come Presidente del Consiglio, e l’unico invito che ho accettato è stato quello vostro, perchè mi parve un invito che usciva da ogni forma ufficiale e perchè mi procurava il piacere di stringere la mano a chi contribuisce così validamente a tener desta la fede nei destini della nostra Patria.
E poiché l’amico Rossi ha voluto farmi un lusinghiero augurio, vi prometto che, se nel giorno della vittoria io sarò ancor vivo, il primo invito che accetterò sarà il vostro.
* * *
Il 18 di detto mese ebbe luogo a Torino la consegua delle medaglie al valore militare. Vi intervenne il Presidente del Consiglio che pronunziò queste parole:
- Prodi soldati!
Io sono grato al Generale della divisione, il quale mi invitò a distribuire io stesso le medaglie che onorano così la memoria dei caduti e vorrebbero tergere le lacrime delle loro famiglie colla voce della gloria, come onorano voi che altri allori aggiungerete al decoro vostro e della Patria.
Io son lieto perchè in questo momento rammento di rappresentare il Governo d’Italia, e, mentre onoro voi, vorrei poter onorare ugualmente tutto l’esercito e la patria nostra.
Il Governo d’Italia sente che in questo momento tutta la patria palpita, opera, vive, e deve essere amata nel suo esercito. Tutti noi, che governiamo, tutti voi che combattete, il popolo tutto deve oggi pensare e volere una sola cosa: la vittoria italiana, la vittoria per la civiltà.
E questa vittoria voi soli la potete dare e la darete. La vollero dare i valorosi che voi piangete e voi insegnerete ai vostri figli di amare, insieme con la loro memoria, la patria nostra, perchè l’Italia deve essere felice, potente nel lavoro, nella libertà e nell’indipendenza.
Il Governo, che si dice della concordia, non è che lo specchio di ciò che è l’esercito, che è la più grande manifestazione della concordia nazionale. Il governo sente i suoi doveri e li adempirà verso gli orfani che i caduta hanno lasciato: li adempirà verso coloro i quali ritornarono feriti, apprestando gli strumenti che valgano nel miglior modo a ridonare loro le attitudini alla vita, o procacciando loro i mezzi di far valere le loro attività.
Il Governo adempirà l’obbligo suo pensando quanto deve fare per le vedove e per i vecchi genitori, ai quali finora la nostra legge troppo poco provvede.
In questo giorno, nel quale il pensiero va alla Regina, che acclamiamo per tante raggianti e benefiche virtù, io penso ai tanti vostri compagni che sono negli ospedali italiani.
Io mando un saluto ai feriti nostri e agli invalidi nostri. E in questa giornata che richiama alla mente quante cure pietose volgono le nostre Regine a conforto dei feriti io ringrazio tutti coloro che pensano a sollevare i dolori, così le pietose suore come le donne gentili che li confortano, e tutti coloro che ne scemano le sofferenze e ne restaurano le forze.
Voi, o valorosi, avete ridato all’Italia la coscienza dei suoi alti destini: avete suggellato l’unità nazionale. Per merito vostro noi degnamente partecipiamo al grande conflitto che combatte tutto il mondo civile per impedire che la barbarie, anche sapiente e coltissima, invada prepotentemente e domini l’Europa.
Mandiamo in questo istante un saluto al Re d’Italia, il quale vive in mezzo ai soldati come si vive con la propria famiglia: mandiamo un saluto al Generale in capo che comanda le schiere dei nostri combattenti e li guida alla vittoria, a tutti i duci, a tutti i soldati nostri, a tutti i nostri marinai: e un saluto alle loro famiglie, ai loro genitori, alle loro sorelle, alle loro spose, alle loro fidanzate: un saluto alle donne dei combattenti alle quali è affidata tanta parte del lavoro nelle officine che preparano gli strumenti per la vittoria, e tanta parte del lavoro dell’agricoltura.
E quando i nostri soldati torneranno ai campi a compiere quella rivoluzione della quale parlava il generale Chiarla nel suo eloquente discorso, quella rivoluzione che vorrà dire resurrezione di ogni specie di attività e di prosperità italiana, quando i nostri soldati torneranno ai solchi dei loro campi, avranno l’onore di sentir dire dai giovani che li scorgeranno: colui è uno dei valorosi che hanno combattuto nello aspre vette del Trentino, che hanno combattuto sull’Isonzo, che hanno combattuto a Gorizia, che sono andati oltre, oltre Gorizia, perchè oltre, oltre Gorizia noi e voi dobbiamo andare.
Da quella porta nel 1848 è sceso il Re Carlo Alberto coi suoi due figli a cavallo, movendo alla prima guerra dell’indipendenza italiana: è bello oggi coronare qui di pianto glorioso e di memorie insigni i caduti e di festeggiare voi sopravvissuti alle vostre prove meravigliose. È bello compiere tutto ciò in questo luogo fatidico dal quale mossero tutte le aspirazioni delle nostre guerre dell’indipendenza, il cui grido risuonò da quelle finestre: quel grido voi farete echeggiare trionfante sopra ogni terra italiana e sull’Adriatico nostro.
* * *
Il 25 settembre moriva a Napoli Enrico Pessina.
L’On. Boselli volle recarsi in quella città per prendere parte alle onoranze funebri rese all’insigne giurista e, nel solenne trasporto della salma, avvenuto nella mattinata del 27, pronunziò un memorabile discorso in cui espresse la venerazione sua e del popolo italiano per il grande penalista «che tutta Italia onora».
L’Amministrazione comunale di Napoli colse l’occasione della presenza del Capo del Governo in quella città, per dare in suo onore un ricevimento in Municipio, Esso ebbe luogo la sera del detto giorno 27 coll intervento di tutte le notabilità di quella grande e nobile città verso la quale l’On. Boselli aveva sempre manifestato le più vive simpatie.
Queste simpatie egli riconfermò, nel rispondere, al saluto del Sindaco di quella città, Duca prof. Del Pezzo, con le seguenti parole:
Io venni qui oggi con un sentimento, con un intento di dolore. Nè avrei mai immaginato che la mia parola potesse risuonare altrove che in quell’aula in cui il popolo napoletano ed il pensiero d’Italia s’inchinavano ad onorare uno dei più insigni cittadini italiani.
Il Sindaco di Napoli vi ha qui riunito: io non oso dire che questa sorpresa rompa il mio programma: ma questa sorpresa io la ricongiungo nel mio pensiero allo istesso motivo, per il quale oggi sono qui tra voi, e rispondendo al saluto che con cuore napoletano mi manda il sindaco di Napoli, io rispondo con cuore napoletano, perchè ogni volta che io venni in questa città, per una misteriosa simpatia di pensieri e di affetti, io mi son sentito come domesticamente legato con tutti voi.
Seguo il motivo doloroso della mia visita: sì, non ho rimorsi dinanzi allo spirito di Enrico Pessina, se oggi sono qui a parlare in mezzo a voi, non ho rimorsi, perchè mentre la sua salma scende nel sepolcro, a me pare di veder rivivere il suo spirito, in mezzo a noi, ed a me pare di parlarvi in nome suo, per dire a Napoli che continui nella via nella quale sinora ha proceduto.
È ancora di Pessina che io parlo, volgendomi al patriottismo di Napoli; è ancora sempre di Pessina che io parlo rammentando qui l’unione di opere, che deve condurre la Patria italiana alla vittoria.
Oggi del grande Estinto fu detto nell’aula dell’Università com’egli abbia assistito, raggiante, al discorso fatto qui in Napoli dal ministro Barzilai, per dimostrare la giustizia della nostra guerra.
Or bene io penso che, com’Egli, corporalmente, era raggiante in quel giorno, sia oggi ancora raggiante spiritualmente e risorga in mezzo a voi per dirvi: Io sono sceso nel sepolcro, ma il mio spirito di napoletano italico non deve morire in mezzo ai miei concittadini ed alla mia città.
Oggi visitai alcune delle istituzioni, che provvedono ai feriti della nostra guerra, che sovvengono alle famiglie dei richiamati, ed ammirai tali istituzioni; le ammirai tanto più, che in parte esse si ricollegano ad antiche e nobilissime istituzioni vostre, onde si direbbe che ora tutte si ravvivino per i nuovi scopi. Alcune sono sostenute dal contributo della Camera di Commercio, il che vuol dire che sono sostenute dal contributo di chi lavora per la prosperità di Napoli. E così accade che le antiche tradizioni della vostra beneficenza paesana, ed i profitti del vostro lavoro si congiungono nell’opera santa di sopperire alle nuove necessità della Patria nostra. La quale, per conseguire la vittoria, abbisogna sì di quei combattenti meravigliosi di Napoli e del Mezzogiorno, nei quali sono i giovani più eletti d’ingegno: ma sono ancora i meravigliosi lavoratori delle campagne del Mezzogiorno di questa terra, che non ancora potè dare ai suoi figli tutta la felicità che essi meritano, ma i cui figli già diedero all’Italia tutto il loro sangue.
Ma ha bisogno ancora di tutta la volenterosa opera di coloro, a cui non è dato di versare il proprio sangue per la Patria. Non bastano, o signori, e lasciatemi dire, o amici di Napoli, poichè nei sentimenti comuni l’amicizia si cimenta e si confonde; non bastano le vittorie delle battaglie. La guerra può essere anche aspra, può essere ancora lunga; per vincerla noi dobbiamo far sì che nel paese si mantenga sempre ardente e sicura ed alta l’idea della giustizia della nostra guerra Se così non fosse, ammirabile pur sempre sarebbe il valore dei nostri combattenti, ma non sarebbe sicura la compattezza della Nazione fino al giorno della vittoria. Perciò fatevi tutti, come foste finora, proseguitori continui dell’idea generatrice, fomentatrice, giustificatrice, sostenitrice della guerra dell’Italia, che è la guerra della civiltà. Non è soltanto cingendo di alloro la fronte dei combattenti, che poi possiamo pagare ad essi il nostro sacro debito di riconoscenza: sì bene ancora pensando, come appunto voi faceste, alle famiglie loro.
Io penso che lo Stato italiano è pienamente compreso di questo mio pensiero. Certo in tutto concordi con me sono i miei colleghi; che oggi siedono in mezzo a voi; o governino le armi valorosamente, o tengano la bilancia della giustizia sapientemente, o preparino nella scuola l’avvenire del Paese, o sul movimento dei nostri commerci e delle nostre comunicazioni, promuovano la prosperità della Patria, o volgendo lo sguardo alle lontane colonie ne preparino le più vaste fortune avvenire, o siano dotti giureconsulti, i quali uniscano, come lo Scialoja, alla sapienza del Diritto, le memorie del liberalismo napolitano. L’Italia doveva fare la guerra che noi combattiamo, e se della parola santa non si abusa, se la parola santa vuol dire cosa eccelsa e perfetta, che rispondo al dovere, ed all’elevazione dell’anima umana, la guerra che noi combattiamo santa è perchè l’Italia non solo non aveva e non ha confini naturali, quei confini strategici che le spettano, ma non aveva l’unità di tutto il popolo suo; perchè vi erano, e pur troppo vi sono ancora, popoli divelti dal suo seno, che parlano la nostra lingua, ch’ereditano la nostra civiltà, e sono altrettanti focolari, nei quali splende la fiamma della italianità e che pure sottostanno al giogo austriaco, contro l’unità italiana (Vivi applausi).
Per l’Italia questa guerra era un dovere nazionale; ma se altre regioni italiane, più prossime agli antichi dominatori, di cui hanno conosciuto la tristizia e la oppressione, debbono necessariamente sentire più forte l’impeto della liberazione; noi italiani delle regioni marinare, poiché anche io sono nato in riva al mare, ed al mare ho rivolto tutte le più ideali aspirazioni della mia vita, dobbiamo tener per fermo che, se l’Italia non fosse scesa in guerra, tristi giorni per l’avvenire dell’Italia nostra, e specialmente delle nostre città marittime, sarebbero sorti nella storia ventura delle nazioni europee, ed in particolare nella storia futura del nostro Paese. Voi qui siete in tale situazione che non è possibile non si senta il sospiro dell’Italia verso nuovi destini, verso più luminosa fortuna, non si senta l’impulso a stringere la nostra con altre civiltà (Applausi). Ebbene, se l’Italia non fosse scesa in guerra, che cosa sarebbe avvenuto di questo radioso avvenire delle città nostre marinaresche; se le altre potenze avessero deciso dei destini futuri del mondo senza di noi, senza che ia forza delle nostre armi, la virtù dei nostri sacrifizi, la purità della nostra coscienza e la santità della nostra causa, ci dessero il diritto di parlare alto in mezzo a loro nel grande giorno in cui di tali destini sarà fatta ragione?
Io mando un saluto a Napoli. Lo mandai altre volte e tutte le volte che io mando il mio saluto a Napoli, parmi di ringiovanire, parmi che il mio saluto acquisti nuovo fervore. Mi par di ringiovanire perchè la perpetua giovinezza del pensiero italico, la perpetua giovinezza della nostra civiltà, che altrove si oscurò, in mezzo a voi non si è mai del tutto spenta. Ed infinitamente cresce ogni ora il mio fervore quando ammiro le opere della vostra carità e della vostra bontà. E crescere lo sentii ancora con vera commozione ammirando oggi i prodigi della vostra beneficenza patriottica. Egregi uomini presiedono queste vostre sante opere.
Ma come una benedizione di fiori, di carezze e di baci passano in esse le vostre donne napoletane, mirabili nel santuario della famiglia, ma non meno mirabili in ogni opera, dove il cuore palpita e si effonde; le donne napoletane, le quali nei tempi della tirannide salirono imperterrite i patiboli gloriosi: le donne napoletane, che, scrittrici nei tempi della preparazione del risorgimento napoletano mantennero viva la fiamma dell’italianità, le donne di Napoli, le quali sopportarono così stoicamente, così eroicamente la sventura nei tempi in cui i loro padri, mariti, fratelli, i loro figli gemevano nelle carceri e nelle galere borboniche; le donne di Napoli, che non solo hanno gli occhi luminosi, ma il cuore egualmente fervente di una inestinguibile fiamma di italianità. E con questo saluto alle vostre donne, io chiudo il mio dire, perchè nessun omaggio è più sicura arra di vittoria, quanto quello che si rivolge alla gentilezza, alla carità ed alla virtù.
* * *
A Milano i partiti che avevano aderito, alla politica di guerra e che ne propugnavano la vigorosa condotta, si erano trovati d’accordo nell’invitare il Presidente del Consiglio a fare una visita alla illustre città, insigne per operosità intelligente e per fervido patriottismo.
La visita fu effettuata l’8 ottobre 1916.
Milano fece al Presidente del Consiglio accoglienze entusiastiche, riaffermando in quella occasione la sua decisa volontà, che era ed è volontà italiana, di guerra e di vittoria.
L’On. Boselli pronunziò, al teatro della Scala, un vibrante discorso. Il teatro era gremito. Ai lati del palcoscenico stavano i rappresentanti dei partiti milanesi, le bandiere di Trento, di Trieste, dell’Istria, della Dalmazia. In quella occasione fu donata all’On. Boselli la riproduzione artistica del «Guerriero di Legnano» dello scultore Butti; sulla base del gruppo era incisa la seguente scritta:
A PAOLO BOSELLI - ministro dell’ultima guerra per l’indipendenza italiana - questo ricordo di una gloria antica in cui risplende la giovinezza della Patria immortale. Milano VIII ottobre MCMXVI.
Ecco il discorso pronunziato dall’On. Boselli:
- Popolo di Milano!
In questa esaltazione dell’anima nazionale ogni persona scompare: una sola visione commuove gli animi nostri: la visione della Patria cinta di nuova gloria, e risorta a nuova grandezza d’italica virtù: un sol pensiero ci stringe tutti e c’infiamma: la volontà della vittoria. E la vittoria avremo per l’Italia e per la civiltà.
Questo sempre affermò, questo oggi afferma, in modo incomparabilmente solenne, Milano: ed io penso e credo che tutto il genio, tutto il cuore d’Italia sente e palpita oggi con noi.
Non è ora di discorsi quando ia commozione sovrasta al pensiero e il fremito che pervade gli animi muove giovani e vecchi ad operare.
E perciò, Senatore e amico Mangiagalli, non vi risponderò se non per dirvi che nelle vostre parole era l’eco di quell’onda meravigliosa di popolo milanese, acclamante nel nome d’Italia la guerra fino alla vittoria; se non per dirvi che nelle vostre parole era il murmure dei cento vessilli spiegati oggi alle aure di questa Milano; era la risonanza dei versi del Manzoni e del Berchet ai quali rispondono, voci alate della italianità immortale dell’anima lombarda, le balzanti strofe del focoso interprete di Tirteo; se non per dirvi che la vostra parola, vibrerà sempre nel mio animo animatrice ed inspiratrice nelle ore liete, ammonitrice e confortatrice nelle ore dubbiose.
Voi in me vedete i ricordi che congiungono l’età presente del rinnovamento alla tradizione del Risorgimento nostro. Questo dice la mia vecchiezza: ma voi qui mi vedete assertore della concordia nazionale, che invano sarebbe un programma di Governo se non fosse la religione del Paese; di quella concordia che deve condurci tutti ad una sola meta; alla meta della vittoria.
La guerra per la civiltà e per la liberazione italica, proclamata, con sapiente ardimento, dal Re, consigliata da uomini di Stato che vivranno nella storia, deliberata dal Parlamento, fu sovranamente voluta dal popolo italiano. E oggi tale volontà riconferma il popolo di Milano, che alla guerra liberatrice dette il primo consenso ed il primo grido.
L’anima del popolo italiano ha oggi espressione e volontà nel Governo della concordia Nazionale che condurrà fermamente e arditamente la guerra.
Le piccole divergenze di pensiero; le piccole e anche le grandi divisioni dei partiti si fondono oggi nel solo partito della Patria, col proposito di combattere e di vincere.
Racconta uno dei vostri più briosi narratori che Alessandro Manzoni nei tempi nei quali si preparava la prima fase del risorgimento italiano, a chi gli parlava delle divergenze dei partiti, rispondeva: «Che cosa monta tutto ciò? da qui a due anni l’Italia sarà fatta e nessuno se ne ricorderà».
Ed io a Voi: «Che cosa monta se ci sono delle divergenze? Fra breve l’Italia sarà compiuta e nessuno se ne ricorderà».
Non qui io dovrò illustrare le ragioni di questa guerra: non qui dove undici lustri or sono, Carlo Cattaneo, diceva che un popolo non può volere, non può tollerare, non può neppur pensare che ci sia un lembo del proprio territorio soggetto all’oppressione straniera.
E dovrò io giustificare l’alleanza nostra per la civiltà in questa Milano il cui pensiero, le cui opere appartennero sempre alla civiltà del mondo?
Voi avete dato Cesare Beccaria ed Alessandro Volta alla civiltà universale. E non sentite voi e non sentiamo noi, e con noi tutta l’Italia, che quando si parla di civiltà si parla di popolo Italiano?
E mentre nuovi destini si preparano nel mondo delle nazioni, e mentre tutti gli altri popoli vogliono e operano vigorosamente, non è certamente a Milano, che si potrebbe immaginare un’umile Italia accovacciata nel suo focolare; a Milano, sempre ignara di ogni viltà: a Milano da cui mossero tanti esploratori di terre lontane quando altri neppure pensavano ad esplorare, a Milano che dai suoi piani spinse tanta onda di energia alle imprese marinare sempre guardando ai destini dei mari d’Italia.
Voi avete ricondotto qui, risuscitato per opera di arte mirabile, non un guerriero, ma i guerrieri di Legnano, che combatterono nei secoli andati la più alta e significativa battaglia nazionale.
Io vi ringrazio del dono. Esso rappresenta il guerriero prediletto fra i penati del focolare lombardo. Ma voi non lo traeste innanzi a me soltanto per farmene dono, ma perchè dinanzi a me si rinnovi il giuramento del popolo e del Governo: il giuramento che scacciò dall’Italia Federico Barbarossa, antenato e maestro d’ogni vecchia e nuova barbarie.
Quell’imperatore selvaggio cosparse di sale il vostro suolo italianamente sacro; ma il vostro suolo mentre non s’isteriliva nella maledizione del barbarico rito, converse quel sale in seme fecondo da cui germogliarono e fiorirono le generazioni lombarde sempre vigorose e pronte a dare all’Italia gagliardia di magnanime imprese ed esempio di generosi olocausti.
La lotta che oggi si combatte, è, direi quasi, lotta vostra, come proseguimento delle cinque giornate. Voi l’avete detto, Senatore Mangiagalli: Legnano e le cinque giornate sono l’orifiamma che conduce oggi i nostri guerrieri alla vittoria.
Nelle cinque giornate ai padri vostri impressero sul loro emblema: “Italia libera, Dio lo vuole „: Noi oggi ripetiamo: “Tutta l’Italia sarà libera perchè dalle alpi ai vulcani lo vuole tutto il popolo d’Italia che s’è desto e combatte».
E ripeterò con Goffredo Mameli, il poeta della lira e della spada,
« quando il popolo si desta |
Nel Trentino, sull’Isonzo, sul Carso, per tutti gli aspri confini e per le lontane terre inospiti, e sul mare Adriatico il fiore del popolo d’Italia combatte le grandi battaglie, col suo duce supremo e con i suoi condottieri intrepidi; mirabili tutti di sacrificio, di ardimento, di valore; riaffermanti ogni giorno la risurrezione magnanima dell’italica virtù. E colà dove si combatte e si muore è il Re; soldato fra i soldati; tutto penetrato dal senso della vita moderna; palpitante i palpiti del popolo suo, che se non fosse il Re di Casa Savoia, sarebbe il primo cittadino d’Italia.
Al Re, ai soldati che debbono condurci a Trento e a Trieste, mandiamo il nostro saluto, non dimenticando i fratelli che a Vallona affermano la vocazione adriatica d’Italia. Vocazione non dominatrice, ma soccorritrice; non avversa ad alcuna nazionalità, ma rivendicatrice della nazionalità nostra: salutiamo i fratelli che a Salonicco combattono, non solo per i popoli balcanici ma per tutti i popoli civili, auspicando che le loro imprese giovino anche alla sorella romena che è tanta parte della nostra storia ed è sempre presente nei nostri voti.
I nostri soldati affrontano i comuni nemici a fianco degli alleati nostri. Noi, pur lontani dai fieri cimenti bellici, col pensiero desideroso, viviamo queste ore memorande vicino ai meravigliosi guerrieri di Verdun, agl’intrepidi figli dell’Inghilterra, alle fitte legioni dell’amica Russia, agli arditi manipoli del paese di Camoens, ai sanguinanti serbi dispersi: ai martiri eroici di quel Belgio che attende la sua giusta ed immancabile liberazione.
Sui campi di battaglia, o amici milanesi, non solamente si combattono le sante lotte della libertà e della civiltà, ma si temprano nuove energie, si accendono nuove idealità, si dà vita ad un nuovo senso politico e si rinsaldano, in nuovo equilibrio, le diverse classi sociali e le diverse provincie d’Italia, alle quali, dalla ridesta coscienza dei guerrieri vittoriosi, scenderanno larghe correnti rinnovatrici di pensiero e di volontà.
Vi pensi il paese.
Il Governo sa quali provvidenze domandino le sorti del lavoro nazionale: sa che l’Italia, risuggellando con la guerra la sua unità, deve trovare nei reggimenti locali - regionali, provinciali, comunali, - nuova espressione di libertà e di autonomia; sa che la scuola deve essere rinvigorita, rinfrescandosi di atteggiamenti più giovevoli al progresso industriale del paese; sa quali obblighi abbia e debba adempiere, verso gli orfani dei caduti, che sono orfani della Patria: verso i mutilati e gli invalidi ai quali si deve assicurare una nuova esistenza.
Il Governo sa pure che deve provvedere alle condizioni troppo dimenticate dei contadini italiani, i quali, o amici milanesi, mentre io parlo, combattono e muoiono insieme coi cittadini delle altre classi. Il Governo sa infine di qual vantaggio sia per tutti il promuovere la pace sociale che non devo essere il monopolio di alcun partito, ma il risultato della volontà concorde di tutto il popolo.
Non basta, amici milanesi, e voi ben lo sapete, il combattere alle frontiere o sul mare o nell’oriente. Anche all’interno bisogna antivedere e provvedere. Non lasciamo che la coscienza nazionale sia scossa da alcun dubbio sulle sorti della nostra guerra, che, pur attraverso i più gravi sacrifìci, sarà apportatrice di sicuri beni. Afforziamo senza tregua l’animo del paese finora mirabilmente fidente e sereno.
Voi che a Milano in ogni cosa siete all’avanguardia - nè io vi adulo facendomi voce di un plebiscito d’ammirazione che verso voi viene da tutta Italia — voi che porgete innumeri manifestazioni di quella che si chiama assistenza civile e che meglio chiamerei doverosa cooperazione bellica, voi dimostrate oggi all’Italia come tale cooperazione si possa in tutti i modi vigorosamente estendere. Qui alle famiglie dei richiamati si provvede; qui pei feriti si aprono tutti i cuori, qui si vuole ed opera il bene comune.
E queste iniziative d’assistenza rinforzate. Rinvigorite anche le opere dell’assistenza morale, che parla al cuore di coloro che non combattono, e rianima le famiglie dei combattenti; che conforta chi vive nell’ansia di desiderate novelle e calma le trepidazioni di coloro che hanno i mariti e i figli lontani: che costituisce quell’apostolato di carità fraterna più preziosa spesso del soccorso materiale.
La guerra volge sicura ai suoi fini. Tuttavia, quantunque nessuno ormai dubiti della nostra preparazione guerresca, atta a fronteggiare tutti gli eventi, e quantunque a tutti sia noto lo sforzo mirabile del Paese in questa forma nuova d’industrie, a me preme esporre, a compiacimento e conforto comune, alcune notizie concernenti la mobilitazione industriale che ha raggiunto tale intensità di produzione da bastare a quanto occorra ai nostri combattenti e da porci in grado di fornire spesso aiuti agli alleati.
Tra militari e ausiliari novecento sono gli stabilimenti che apprestano le munizioni; e altri ottocento gli stabilimenti che integrano la produzione. A trasformare le materie prime nazionali e quelle che vengono da oltre mare per provvedere alla guerra nostra, dalle alpi alla Sicilia quotidianamente, con lena non interrotta, lavorano 425.000 operai.
Tra essi lavorano, mirabili per ingegno e per operosità, 45.000 donne, cooperatrici efficaci della difesa della Patria.
Produciamo in un mese tanti cannoni quanti prima se ne producevano in un anno, e facciamo oggi mitragliatrici in numero 600 volte maggiore e proiettili in numero 110 volte maggiore di quelli che fabbricavamo al principio della guerra. La produzione delle automobili, già così cospicua, è quadruplicata e abbiamo esplosivi in tale quantità da bastare al bisogno.
E non parlo dell’aviazione, i cui progressi crescono ogni giorno, Leonardo da Vinci che vagheggiò, indovinò l’aviazione, da questa Milano, dove la sua vocazione scientifica si temprò e si irrobustì, incuora gli artefici che affinan l’ingegno nelle officine e sprona gli uomini che arditamente corrono le vie del cielo.
Merito grande del popolo italiano è se noi abbiamo le armi necessarie alla guerra; ma merito eziandio del popolo italiano è se non difetta l’altro nerbo della vittoria: il denaro.
Bisogna pensare alla disciplina della vittoria; e di essa si può ben parlare a voi milanesi che alla disciplina patriottica foste accostumati dagli avi illustri. Un giorno, nel 1848, essi dissero: “Non si fuma più per far dispetto all’Austria„. E nessuno più fumò. Essi dissero: “Oggi le donne lombarde si vestiranno a bruno„. E tutte le donne lombarde si vestirono a bruno.
Oggi per la disciplina della vittoria Milano offre nobile esempio ed esempio insigne porge in tutta Italia il contribuente che, avvezzo alle gravi consuete angustie, sopporta fortemente le angustie novelle.
Qual mai lode sarà pari al vigore di sacrificio che in quest’ora mostra l’Italia? E chi non ammira la patriottica fermezza del popolo che sostiene con la sua fiducia il credito pubblico? il credito pubblico che rimane saldo per propria energia, e per la serena fiducia nel Governo e nell’avvenire d’Italia? A tacere dei prestiti, — e d’essi parlando dovrei pure rammentare con ammirazione Milano — basti dire che l’afflusso della ricchezza e del risparmio alle casse dello Stato, sotto forma di buoni del Tesoro, raggiunge ora la somma di due miliardi e mezzo.
Ciò dimostra quanto sia grande la fede nell’avvenire della Patria. Tale fede occorre che sia gelosamente conservata: l’educazione al risparmio estesa!
E poichè questa odierna non è una festa, ma un’austera adunanza di popolo conscio della gravità dell’ora, sopportate che io vi dica austere parole.
Impediamo che trasmigrino all’estero tanti miliardi in oro quanti ne trasmigrarono l’anno scorso e quanti ne trasmigrerebbero quest’anno e negli anni venturi, per quei consumi che non sono di più larga utilità. E s’intende — non alludo alla eventualità d’inefficaci leggi suntuarie.
Parlo del carbone, dei cereali, dello zucchero da noi acquistati all’estero con miliardi in oro e con onere di sempre crescente noleggi; voglio dire che tra le virtù del popolo deve entrare quella d’una santa astinenza per la Patria. E ciò dico a Milano perchè parlare a Milano è parlare all’Italia e perchè tutta Italia è pur bene che sappia come la disciplina della vittoria si ordisca di una infinità di sacrifizi familiari.
E come oggi da Milano partirà l’esempio di patriottica parsimonia, a Milano, precorritrice di ogni iniziativa gagliarda, germoglierà e si fortificherà la riscossa economica della Patria. Riscossa economica che deve essere l'indipendenza del nostro genio creativo nelle industrie, nella scienza applicata, nel lavoro.
Disse Cesare Correnti che nessuno potrà mai tracciare una rosa dei venti economici senza passare, volere o non volere, dall’uscio vostro: orbene, o Milanesi, se chi traccierà la rosa dei venti economici dell’avvenire passerà per l’uscio vostro, fate che su di esso trovi scritto. «lavoro italiano, produzione italiana indipendente».
I vostri economisti furono i precursori dell’economia politica che congiunge il principio di libertà al principio di equità per le classi sociali così come i vostri prosatori e i vostri poeti furono i precursori della letteratura civile. Qui Carlo Porta, per il primo, esaltò il senso delle virtù civili: qui Massimo D’Azeglio pensò uno di quei romanzi che tanto parlarono all’anima nazionale; qui, in mezzo a voi, il primo regno italico fu la prima forma doli’unità italiana.
Qui fu pensata quella rivoluzione del 1821 che vergò la prima pagina del risorgimento; quel 1821 che si irradiò nel Piemonte e per l’Italia intera e dette combattenti e martiri alla libertà della Grecia; ed è vostro, nel suo spirito e nel suo martirio, quel Silvio Pellico che col suo libro inflisse la prima sconfitta morale all’Austria.
Poiché siete un popolo di precursori, io ben comprendo che s’intoni l’inno delle Nazioni, l’inno di quella società delle Nazioni che significa non utopia di fratellanza universale senza leggi e senza vigore, ma la ricostituzione degli Stati nel principio di nazionalità, con l’avvento del regno del diritto, e con la formazione di un progresso che, esplicandosi, giovi alla scienza, alla civiltà, alla felicità pubblica, alla pace sociale».
* * *
Un’altra notevole manifestazione extra parlamentare dell’On. Boselli si ebbe il 6 Novembre dello stesso anno. In quel giorno si riunirono a Roma i Presidenti di tutti i Comitati della “Dante Alighieri„ allo scopo di svolgere quei lavori che, negli anni di pace, spettavano ai Congressi generali della patriottica Associazione Nazionale, della quale l’On. Boselli era da più anni Presidente e alla quale ha sempre dedicato con entusiasmo, mai diminuito, con fermezza di propositi, con fervore di italianità, le più ispirate energie.
In tale occasione pronunciò il discorso seguente:
Carissimi consoci — Vi sono momenti in cui il miglioro discorso è quello che si pensa e non si dice. In quest’ora io non vi dico ciò che penso: non ve lo dico, perchè sono certo che il mio pensiero è comune a quello che ferve non soltanto nel vostro intelletto, ma nell’animo vostro.
Io mi restringo a recare a voi, carissimi consoci, un saluto, un brevissimo saluto, il quale più che suonare dal mio labbro, vibra nelle più intime parti dell’animo mio. Questo mio saluto contiene un ricordo: il ricordo dell’opera della “Dante„ dai primi giorni della sua vita nei quali pareva corresse dietro a un sogno, da quei primi giorni, a tutti gli eventi nei quali operò, persistette, fu sospettata, fu insidiata, fu trascurata, e sempre mantenne ardente il sacro fuoco dell’italianità. (Vive approvazioni).
Nel mio saluto è un’affermazione, la affermazione che nel momento presente, di magnanima riscossa per il nostro paese e di gloriosi destini, una grandissima parte di merito spetta alla nostra Società. Io lo affermo non solo come Presidente della «Dante» con orgoglio domestico, ma l’affermo anche per l’ufficio che ho l’onore di rivestire, perchè il Governo d’Italia deve ricordarsi che esso oggi compie l’opera che la «Dante» da venti anni ha iniziato e proseguito. (Benissimo, vivissimi applausi).
Il mio saluto esprime una fiducia che è partecipata da tutti voi, la fiducia non solo dell’immancabile vittoria delle nostre armi, ma della giusta vittoria di tutte le nostre rivendicazioni. (Vivissimi applausi).
La «Dante» per l’avvenire avrà altra opera da compiere, ma in questo momento la «Dante» deve essere ausilio gagliardo, continuo, efficace, per quella vittoria civile nel Paese, nella quale è riposta gran parte della nostra vittoria militare. (Benissimo).
Non basta che i nostri valorosi soldati vincano sui campi di battaglia e sui mari. Bisogna che tutta l’anima del Paese si mantenga sempre ardente di volontà e di propositi.
L’opera nostra, carissimi consoci, deve continuare in ogni angolo della Patria nostra, deve essere opera confortatrice là dove occorra conforto, deve essere opera che propugni i sublimi ideali della Patria nostra, opera che combatta coloro che questi ideali osteggiano o non comprendono. (Vivissimi applausi).
E ancora l’opera nostra, consoci amatissimi, deve essere di instaurare più che mai nel nostro Paese la disciplina della vittoria. La guerra prosegue: i sacrifici a cui il Popolo italiano deve prepararsi non sono lievi. Noi tutti dobbiamo ben persuadere a tutto il popolo nostro che se è certa la vittoria della nostra impresa, deve essere assidua l’opera della nostra disciplina, oggi disciplina di sacrifici, domani disciplina di vittoria.
Affidiamo quest’opera a tutti i nostri consoci, affidiamola alle consocie nostre, le quali esercitano un’azione tanto valida di italianità sia come propagatrici delle nostre idee, sia per le virtù onde animano e irradiano le nostre opere dell’assistenza civile e della Croce Rossa in tutti gli ospedali, a sollievo di tutte le famiglie che nell’ansia pregano e confidano.
Affidiamo quest’opera sopratutto alle schiere giovani della nostra Società, a quelle schiere dalle quali già mossero arditi campioni, come altri si sono dipartiti da ogni classe di cittadini, che intrepidi combatterono, che diedero anche in olocausto alla Patria quella vita che tutta alla Patria avevano dedicato.
Un pensiero al nostro avvenire, ma un pensiero anche ai nostri consoci, agli italiani ferventi, agli italiani dell’Italia già redenta e dell’Italia che va redimendosi, un pensiero a coloro che caddero gloriosamente per la causa italiana. Un pensiero che ci faccia più che mai affermare nella loro memoria e quasi colla visione o del loro sangue o dei loro supplizi, che non ci fermeremo fino alla completa, giusta e riparatrice vendetta. (Benissimo, applausi vivissimi e prolungati).
Tutta questa opera deve affermarsi mantenendo sempre più salda la concordia nazionale, e di questa concordia fu specchio ed esempio sempre la «Dante» nostra che tutti i partiti, che tutte le fedi, ha stretto insieme nel culto dell’italianità.
Colla forza della concordia nazionale e nel nome d’Italia indubbiamente vinceremo, e la Dante in quella vittoria sentirà che un raggio di quella nuova luce che risplenderà sull’Italia nostra, alla nostra Dante appartiene. (Vivissimi prolungati applausi ed acclamazioni).