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oggi qui a stringere la mano ai giornalisti rimasti a Torino, dopo che tanti di loro hanno abbandonato la penna per il fucile: credevo di venire ad una riunione raccolta e famigliare, ed invece mi trovo qui innanzi ad una vera assemblea. Io non avevo preveduto l’assemblea, non avevo preveduto i discorsi e per rispondervi devo improvvisare.

Non vi dirò chè non so cosa dirvi, chè la sola vostra presenza suscita e moltiplica i miei pensieri e le parole, ma vi dirò quello che sento di dirvi, così alla buona, senza la pretesa di fare un discorso.

Poichè mi trovo fra giornalisti e l’amico Rossi ha ricordato di essere uno dei soci più anziani della Subalpina, rammenterò che io fui tra i fondatori dell’associazione della stampa di Roma, che fu la prima associazione della stampa italiana.

I giornalisti sono gran parte, somma parte dell’impresa che oggi l’Italia combatte: lo furono al proclamarsi della guerra, perchè hanno assecondato l’entusiasmo dove l’entusiasmo correva per le vie, lo hanno risvegliato dove non era tanto vivido, benchè non fosse per nulla spento. E durante la guerra hanno saputo dare al Paese le persuasioni della bontà, della santità dei nostri diritti, del valore meraviglioso dei nostri soldati: hanno cinto di gloria i combattenti, hanno consolato le famiglie lacrimanti. I giornalisti furono i veri celebratori della Patria, i veri sacerdoti del dolore per le famiglie afflitt.