Dialoghi d'amore/Mariano Lenzi a la valorosa donna Aurelia Petrucci
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MARIANO LENZI
A LA VALOROSA MADONNA AURELIA PETRUCCI
Fu antichissima usanza degli scrittori di Egitto, i santissimi libri da loro scritti indirizzare a Mercurio: perciò che essi stimavano che tutte l’arti, tutte le scienzie, tutte le belle cose fussero state da Mercurio ritrovate, e che a lui, come ad inventore d’ogni cosa, si convenisse render grazia di ciò che l’uomo imparava o sapeva. E per questo Pitagora e Platone e molti altri gran filosofi andarono per imparar filosofia in Egitto, e per lo più l’appresero dalle colonne di Mercurio, le quali erano tutte piene di sapienzia e di dottrina. Io similmente, valorosa madonna, giudico ciò che si può fare da coloro c’hanno conosciuta l’altezza de l’animo vostro, convenirsi a voi; e che i loro pensieri nutriti dal divino spirito vostro si debbino rivolgere in voi, e, in onor del vostro nome, quanto possono, affaticarsi: conciosiacosa che non meno imparino le vere virtú ne l’essempio della vita vostra, che facessero quegli antichi filosofi ne le colonne di Mercurio. Ché se quale sia la nobiltá, l’altezza, la gentilezza dell’animo vostro si pon mente, quanta l’onestá, la cortesia, la grazia si riguarda, quale la prudenzia, l’accorgimento, la sapienzia si considera, e finalmente a parte a parte ogni vostra virtú si rimira; vedesi certo, dagli ingegni purgati, altro non esser la vita vostra se non uno specchio e una idea del modo come si convenga vivere agli altri. E quelli che, infangati ne le cose terrene, non possono alzarsi in un subito a questo celeste pensiero, purché voltino gli occhi in voi, illustrati dal vostro raggio, a poco a poco si purgano, e dell’alta contemplazione de la vostra divinitá si fanno degni. Conoscendo io pertanto questo debito comune e mio, ho fatto come coloro che, non potendo satisfar del proprio, pagano de l’altrui: che desiderando scioglier parte di questo grande obligo ch’io ho con voi, e, per la povertá dell’ingegno mio, non potendo mandarvi frutto che di me stesso sia nato, ve lo mando nato negli altrui giardini: i libri, cioè, d’amore di maestro Leone, sotto titolo di Filone e Sofia; casto soggetto d’amore, a donna casta che spira amore; pensieri celesti, a donna ch’è ornata di virtú celeste; altissimi intendimenti, a donna ripiena d’altissimi concetti. Cosí ho voluto, piú tosto con quel d’altri mostrarvi l’animo ch’io ho di satisfarvi, che prolungar, per la povertá mia, la satisfazione di tanto debito. Benché stimo (quando pur vi penso) far in un tempo due non piccoli guadagni: scioglier parte di questo obligo con voi, e obligarmi (se l’ombre obligar si possono) maestro Leone. Ché avendo io questi suoi divini dialogi tratti fuora delle tenebre in che essi stavano sepolti, e postoli quasi in chiara luce, e al nome di cosí valorosa donna (come voi sete) raccomandatili; credo certo ch’egli se ne debbia sommamente rallegrare, e di questo suo nuovo splendore e di cosí alta protezione molto restarmi obligato. Voi dunque, quasi tutrice di questa opera divenuta, drizzando in lei, come in corpo altissimo a ricever luce, il vostro raggio, la farete piú splendida e piú miracolosa mostrarsi al mondo.