Demetrio Pianelli/Parte quarta/IV
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IV.
Il cavalier Balzalotti ritornò dal suo viaggio ufficiale coll’animo pieno di nobile soddisfazione. Era stato ben accolto dal segretario generale, col quale ebbe l’onore di pranzare un paio di volte nella compagnia di quattro o cinque competenze speciali, che seppero far tesoro della pratica e dei lumi che il cavaliere aveva attinto nel lungo maneggio degli affari.
Portò a casa un buon organico e la certezza che il prossimo numero della Gazzetta Ufficiale avrebbe registrato qualche cosa di dolce per il cuore d’un vecchio funzionario, l’unica ambizione del quale era sempre stata quella d’essere la prima vittima del dovere.
Quando Demetrio, spenti i lumi e sceso il sipario del suo modesto idillio, tornò a uscire di casa e a riprendere la solita strada dell’ufficio (piazza del Duomo, piazza Mercanti, Cordusio, Bocchetto), il cavaliere era già tornato da alcuni giorni. Avendo inteso che il Pianelli era malato, colse l’occasione per chiamare al suo posto di segretario particolare il Bianconi, liberandosi così d’un vicino che poteva diventare troppo fastidioso, senza però farsene un nemico.
In mezzo ai gravi affari d’ufficio, Beatrice gli era uscita di mente: ma non disperava di prendere la lepre col carro. Al signor Demetrio Pianelli il nuovo organico assegnava una piccola promozione con qualche vantaggio di stipendio, una quarantina di lire all’anno, poca cosa per un milionario, ma che per un povero impiegatello rappresentano circa undici centesimi al giorno, giusto il prezzo del sigaro e della scatola dei zolfanelli.
Il Bianconi fermò Demetrio sulla scala per dargli queste notizie. Il galantuomo era un po’ contento e un po’ malcontento. Gli piaceva da una parte d’essere stato chiamato dalla confidenza del suo superiore, ma non avrebbe voluto dall’altra parte che Demetrio se ne offendesse o pensasse che egli avesse brigato quel posto. Il buon uomo amava essere in pace con tutti.
— Io non ho toccato niente delle tue carte: anzi, bisogna che tu mi dia qualche istruzione e la chiave dei cassetti.
A Demetrio la notizia non fece nè caldo, nè freddo. Andava a poco a poco istruendosi nell’arte di saper vivere, che consiste, pare, nel prendere le cose come Dio le manda e nel lasciarle andare come il diavolo le porta.
In Carrobio non s’era ancora lasciato vedere. Perchè affrettarsi a correre dove non c’era più bisogno di lui? non era forse saldato ogni conto di dare ed avere?
In quanto all’impiego, sedersi qua o là per lui adesso era cosa indifferente. Il Caramella lo trasse in un cantuccio e gli pagò la solita mesata, lire 122 e centesimi, in un biglietto da cento e in altre poche lire di carta sudicia, ch’egli prese e cacciò in tasca come se si trattasse di un fazzoletto da naso. Passò senza parlare, ma neppure senza impazienza, nella stanza d’ufficio, dove aveva fabbricato i suoi magnifici sogni e fissò un momento gli occhi sulla poltrona lucida e vuota del cavaliere, alla quale aveva predicato tante sciocchezze.... E quasi gli venne da ridere. Andò al suo tavolo e si preparava ad aprire i cassetti per fare il suo piccolo San Michele, quando vide entrare il Quintina in compagnia del Bianconi e di un certo Caravaggio, archivista, con una lista in mano e una penna sull’orecchio.
— Oh! ecco il signor Pianelli — disse il Quintina con la sua voce di clarinetto. — Lei non può mancare nella nostra lista.
— Che lista? — chiese Demetrio freddamente, mentre cercava d’infilare la chiavetta nella serratura.
— Si tratta di offrire un modesto pranzo al nostro cavalier Balzalotti, che è stato in questi giorni insignito d’una distinzione che si può dire guadagnata col sudore della fronte. — Il piccolo ragioniere strizzò un occhio verso i colleghi con un sorrisetto un poco malizioso. E continuò: — Dobbiamo a lui l’approvazione del nuovo organico, dico poco? se adesso andremo in carrozza, è merito suo. Ma, scherzi a parte, ho già raccolto undici belle firme, vede? aggiunga anche la sua e faremo così la cena degli apostoli. Il Giuda sarò io.
A questa facezia il Quintina fece seguire una risata clamorosa come il suono di due pantofole sbattute, e ripetendo un suo movimento abituale, mosse le gambe nell’atto che tirava un poco i calzoni sui fianchi.
Demetrio rispose anche lui con un sorriso pieno di sarcasmo, e disse tranquillamente:
— Io non firmo niente.
— Che, che.... — esclamò il Quintina, — lei non farà questo torto a un commendatore della Corona d’Italia.
— Io non firmo niente — ripetè Demetrio senza andare in collera, ma con accento d’uomo persuaso di quello che fa.
— Perchè non vuoi firmare se ci stanno gli altri? — saltò su a dire il Bianconi, a cui quel rifiuto pareva una cosa orribile. — Ho firmato anch’io.... — soggiunse con un tono di voce flebile e pietoso, in cui si sentiva tutta la grandezza del sacrificio, che era di sette lire a testa.
— Perchè.... perchè io son diverso dagli altri.
— Questa sì che è bella! — proruppe con una risata il Quintina, facendo scorrere la cannuccia dietro l’orecchio, come se grattasse per gusto. — Vorrei sapere che cosa ha di diverso da noi il signor Pianelli.
— Della mia coscienza sono giudice io....
— Che cosa c’entra la coscienza in questa faccenda? — soggiunse il Quintina, compiendo un giro della stanza con le mani nelle tasche dei calzoni, ch’egli tirava sui fianchi, mandando fuori abbasso due scarpette da signorina. — Non siamo venuti per sporcar d’inchiostro la coscienza di nessuno; che bell’originale!
Demetrio gettò sul pettegolo un’occhiata di ghiaccio, mosse due dita in aria come se stesse per dire qualche cosa e tornò ad infilare la chiavetta nel buco.
— Non si tratta di una grande somma! — provò a dire l’archivista, un giovanotto piccolo, smorto, con poche setole di barba e con due occhiali fini e lucenti sugli occhi.
— Se non puoi pagare adesso, metti almeno la firma, tanto che si possa dire che ci siamo tutti.... — suggerì con benevolenza il buon Bianconi, che nella sua bonarietà soffriva di vedere un amico così fuori di strada.
— Non è per non pagare.... Che diavolo! io sono ricco.... Guarda, Bianconi. Ho appena riscossa la mesata.... la vedi qui?
E Demetrio stese la mano irritata da un fremito mal compresso d’ira, con dentro le sue centoventidue lire e centesimi, gualcite come un pezzo di fodera.
— Sappiamo che ella è ricco.... — cantarellò il gobbetto, facendo sonare le dita nell’aria.
— Sì...., caro il mio signor....
Demetrio finì la frase con un’altra occhiata lunga e insolente. Poi si mosse d’un tratto come se lo assalisse un’idea luminosa:
— A lei, che ride e che canta, guardi: posso regalarle al signor cavaliere....
— Commendatore, commendatore.... — corresse burlescamente l’altro.
— Posso regalare al signor commendatore cento lire.... guardi! — e con un colpo di mano andò a mettere il biglietto da cento sulla scrivania del suo superiore. — Ed anche qualche cosa ancora gli posso regalare — soggiunse, cavando di tasca un involtino, ripiegato in una carta e legato con un nastrino rosso, che collocò sul biglietto. — Ma su quella lista il mio nome non lo metto: e mo’ è con.... contento, sor.... — e in luogo del nome sostituì una smorfia della faccia, che gli fece raggrinzare tutta la pelle del naso.
— Con.... contentissimo.... — strillò il gobbetto, agitando le gambe.
Demetrio aveva preso con sè il famoso braccialetto coll’intenzione di consegnarlo al portinaio della casa dei bagni in via Velasca, come aveva consigliato Beatrice, e come se il regaluccio lo rimandasse lei, senz’altro, senza rinvangare il passato e far scene e scandali, di cui oggi si sentiva ancora meno il bisogno.
Ma fuorviato dai discorsi, stuzzicato dall’ironia punzecchiante del Quintina e dalle insistenze banali del Bianconi, più per un capriccio di resistenza che non per un partito preso, fu tratto a commettere uno sproposito, che forse non era nel suo programma e nemmeno secondo i dettami di quell’arte di saper vivere ch’egli voleva adottare per sistema.
— So bene che al signor Pianelli non mancano i fondi — seguitò a dire il Quintina, socchiudendo con malizia gli occhi e mettendo fuori la voce in una cantilena canzonatoria.
— Lei è un uomo spiritoso, — rispose Demetrio con un senso di schifo — ma io potrei dimostrarle che pensa e che dice delle cose stupide.
— Ma che storie? ma che vuol dimostrare? ma mi faccia il santo piacere di non fare il matto.
— Se non firmo, è perchè ho le mie ragioni.
— Ma se le tenga....
— E le mie ragioni, caro il mio caro signor spiritoso, son pronto anche a stamparle.
— E lei le stampi.... — rimbeccava senza perder fiato l’ometto piccino, che saltava come un uccello in una gabbia.
— E il mio pane è guadagnato colle mani pulite, sa.... — e mostrava i due palmi — pulite più delle sue, che se le lava tutte le mattine col sapone inglese.
— Adesso sei fuori di te, Pianelli — s’arrischiò a dire il Bianconi, agitando con una certa furia le mani, mentre il Caravaggio, preso in mezzo, moveva la testa ora a destra ora a sinistra, come un gatto che guarda un pendolo, o anche un uomo che non capisce niente.
— Lasciatelo cantare, è matto; gli è andata la rugiada alla testa. Starei fresco, se volessi perdere il mio tempo con un professore di lingua....
Demetrio sentì la punta della freccia a fior di pelle, si contrasse come un legno nel fuoco, e dopo un gran garbuglio di consonanti, da cui la sua lingua ingrossata dall’ira stentò a districarsi, disegnò col pollice una certa curva, come se abbozzasse un gobbetto nell’aria, e mormorò:
— Io non ho certe fortune....
L’altro divenne livido, i suoi occhi si velarono e si rimpiccolirono, la bocca umida di saliva si atteggiò a un sorriso mordace, in cui l’ometto maligno cercò di nascondere, come dentro a una maschera, il cupo risentimento dell’animo offeso. Da quella smorfia lunga e indurita tra le pieghe della pelle uscì una voce più falsa del solito, che doveva sembrar nuova anche al suo padrone:
— Senta, sor Pianelli, i miei non si sono ancora appiccati ai travicelli dei solai, e io, firmando qui le mie sette lire, non ho paura di far mangiare a un benefattore i suoi denari.
— Ah! aspetta.... brutto assassino....
Demetrio stese la mano, afferrò un grosso calamaio di peltro e fece l’atto di buttarlo in viso al mostro maldicente; ma il Bianconi gli fermò con una mano il braccio, ponendogli l’altra sullo stomaco, intanto che il Quintina rideva sugli acuti d’un riso fatuo e insolente, facendo il verso d’una gallina che canta.
In quella entrò il commendator Balzalotti e tutti ammutolirono, restando ciascuno al suo posto, fermo nella sua posizione, come le statue di terra cotta che si ammirano al sacro Monte di Varese.
— Che cosa c’è? — chiese il commendatore Filippo Balzalotti colla sua voce flemmatica di buon padre di famiglia, arrestandosi un poco sulla soglia, lindo nel suo abito nero, col panciotto bianco di piquè, lucido, pulito come uno sposino, con una espressione di bontà e di indulgenza sparsa come una spalmata di vernice sulla superficie della sua faccia di canonico.
— Politica, della brutta politica, commendatore — si affrettò a dire il Quintina, che non era uomo da perdere troppo facilmente le staffe.
Il Bianconi, a cui tremavano le polpe delle gambe, per aiutare a porre un cerotto si fece un coraggio da leone e disse:
— Come impiegato anziano ho l’onore, commendatore, di far parte di un comitato d’onore incaricato d’invitarla a un modesto banchetto in onore della.... del....
— Della ben meritata onorificenza di cui sua Eccellenza il Ministro volle onorare la signoria vostra — continuò l’archivista tutto d’un fiato, come se sonasse una trombetta.
— Oh! oh! — esclamò tutto confuso il commendatore, — che cosa vien loro in mente? un banchetto a me? non sono un ministro.
— A questo penseremo in seguito — fu pronto a dire il Quintina, a cui stava bene la lingua in bocca. — Intanto è un vivo bisogno del nostro cuore di manifestarle la compiacenza della quale siamo compresi tutti quanti per una delle poche distinzioni, che si possono dire veramente meritate.
— Questo sì, è vero, proprio.... — aggiunsero gli altri due.
Demetrio, dopo aver soffiato nella chiavetta per liberarla dai fondi di carta, era tornato a rosicchiare intorno alla serratura, curvo, quasi nascosto dietro la scrivania.
Il commendatore che lo aveva adocchiato subito, capì ch’egli non faceva parte della commissione.
— Loro hanno una grande bontà e una grande indulgenza per me. Ammettiamo dunque che il ministro abbia voluto ricompensare non i meriti reali, ma la buona volontà e la devozione a quelle idee liberali di ordine e di progresso, che hanno sempre informata la mia vita.
— Benissimo.... — esclamarono con tre voci diverse i tre ambasciatori.
Tenne dietro una battuta d’aspetto, durante la quale Demetrio, innocentemente, soffiò nella chiavetta, traendone quasi un piccolo fischio; e tornò a rosicchiare come un topo che fa il buco per passare.
— Li prego dunque di farsi interpreti presso i loro egregi colleghi dei sentimenti della mia gratitudine, e dicano pure che, poichè gli anni mi dànno questo diritto, preferirò sempre essere il loro padre piuttosto che il loro superiore.
— Questi sentimenti onorano l’illustre uomo più di qualunque commenda — concluse di nuovo il Quintina. — Dunque se non le dispiace, commendatore, sabato alle sei avremo l’onore di venire a prenderla colla carrozza a casa sua.
— Non si disturbino: se mi dicono il luogo della riunione....
— Non permetteremo mai.
— Bene, come vogliono. Cercherò di fare onore alla bella compagnia e al cuoco.
Risero tutti e quattro più forte del bisogno, quasi per fare il coro finale, mentre il bravo uomo stringeva la mano all’uno, all’altro e all’altro.
Demetrio, mentre gli altri se ne andavano, riuscì con un energico ma....ledet....tissimo! ad aprire il cassetto indurito dove aveva chiuse le sue manichette, la fodera del cappello, un boccaletto di vetro, un bicchiere, qualche altra cosuccia sua, e sì preparò a far fagotto.
Il commendatore finse di non accorgersi di lui. Dal contegno del Pianelli non poteva capire s’egli era informato o no della delicata faccenda e non osava rompere il silenzio per non guastar l’aria. Demetrio, dal canto suo, era quasi sul pentirsi d’essersi lasciato trasportare un po’ troppo; ma non poteva più far sparire il biglietto e l’involtino senza dare nell’occhio o senza provocare una questione, che adesso gli era diventata indifferente. E intanto questi due uomini, fingendo di non accorgersi l’uno dell’altro, stavano lì sospesi, come ai due estremi di un’altalena in bilico, dove uno non può cadere, se non fa cadere anche l’altro, e nessuno dei due può andarsene finchè la trave resta in bilico.
È da queste posizioni incomode, più che da istinti malvagi, che gli uomini sono tratti qualche volta a farsi del male.
Il commendatore, attaccato il cilindro al chiodo, stava tirando la punta ai guanti, mentre dava, in piedi, una prima occhiata superficiale alle soprascritte delle lettere e al fascio degli affari. L’occhio andò naturalmente a cadere anche sul biglietto da cento e sull’involtino. Non capì a tutta prima, prese in mano il misterioso peso, stracciò coll’unghia un lembo della carta, vide un che di lucido, ruppe ancora di più l’involucro, capì, arrossì come una ragazza còlta dalla mamma con un libro disonesto in mano, infuriò dentro di sè, un tremito nervoso lo prese, smosse, per far qualche cosa, della carta, mentre una parola furibonda, attraversando tutta quella fiammata di vergogna e di sdegno, gli venne due volte sulla punta della lingua:
— Tanghero! — avrebbe voluto gridare contro quell’imbecille gaglioffo, che pretendeva di dargli una lezione in ufficio. Ma la bella dentiera di Winderling non lasciò uscire che un suono smorzato come l’onda morta di un tamburo. Demetrio, collocato il cassetto in terra, andava voltando e rivoltando le robe sue, come se facesse un’insalata di stracci. Sentiva quasi al disopra della testa passare lo sdegno di una così grande dignità ferita proprio nella sua poltrona, e, per quanto rassegnato a prendere le cose come il ciel le manda, non era ancora così maestro nell’arte del saper vivere, perchè un resto dell’antica soggezione non gli facesse fastidio e balenìo agli occhi. Quando gli parve di aver finito, raccolto il suo fagottello, si avviò, come se non ci fosse nessuno nella stanza, verso la porta d’uscita, diretto al suo nuovo ufficio.
Il commendatore, in piedi, dietro la scrivania, lo lasciò andare un poco, incerto anche lui di fingere di non esserci e quindi bevere il fiasco nella sua paglia, o se non era il caso invece di toccare il tempo a questo tanghero dalle orecchie rosicchiate, che si permetteva di dargli una lezione in ufficio. Tra i due estremi scelse un terzo termine, secondo la vecchia tattica dell’uomo oculato; cioè, quando vide che l’altro stava per uscire:
— Neh, Pianelli, — disse con una voce d’uomo sostenuto sì, ma non in furia, — senta una parola.
Demetrio si voltò e venne con tre passi lenti, in preda anch’esso a un tremito convulso, verso la scrivania del suo superiore, e interrogò con una faccia di uomo che ha il sole negli occhi.
— È lei che mi ha raccomandato un ragazzo per l’orfanotrofio?
— Difatti, una volta.... — balbettò.
— È figlio di un suo fratello, eh?
Demetrio disse di sì col capo, e inghiotti una goccia di saliva.
— La ringrazio tanto: mi ha fatto fare una bella figura nel Consiglio. Di che male è morto il padre di questo ragazzo?
Demetrio, come se gli saltasse in corpo un razzo, fece un altro passo, quasi un salto, collocò la roba su una sedia e domandò:
— Perchè?
— Dimando a lei di che male è morto il padre di questo ragazzo, perchè doveva informarmi: era dover suo, e non permettere che una persona rispettabile andasse a raccomandare a persone rispettabili il figlio di uno che si è impiccato per debiti. Che cosa crede? che gli orfanotrofi siano fatti pei figli dei ladri e dei falsari?
Demetrio, non più così ingenuo come una volta, capì benissimo che il signor commendatore esagerava di proposito un fatto inconcludente per darsi della forza, per nascondersi in una nuvola temporalesca di sdegno, per vendicarsi insomma del vivo, picchiando sopra un morto. Volle giustificarsi, però senza andare in furia, e disse:
— Scusi, lei sapeva benissimo, anzi meglio e prima di me com’erano andate queste cose, e, se si ricorda, mi ha dato in questo preciso posto anche dei preziosi consigli. Se c’è qualcuno che deve lamentarsi, scusi, cavaliere, dovrei essere io, nel caso, perchè...., perchè.... chi ha fatta la più brutta figura in questa faccenda, chi è stato il più minchione sono io....
— Che mi sta a contare.... — interruppe con un brusco movimento delle mani il commendatore.
— No, scusi, lei si lamenta che le ho mancato di riguardo — tornò a dire Demetrio sospinto a poco a poco da una fiumana di cattivi umori, che non sentivano più la forza degli argini — e io mi permetto di chiedere a lei e al suo buon amico di Novara chi si è fatto più giuoco della semplicità, della debolezza.... e dei bisogni di una povera gente che, appunto perchè povera e debole, poteva meritare del.... della compassione.
Sospinto, trascinato, travolto dalla reazione della sua virtù, Demetrio trovò d’aver dette più parole che non avesse in mente di dire, ma le pronunciò senza declamazione, quasi sottovoce, con un tono e un gesto che conservavano ancora, alla lontana, un’apparenza di rispetto.
— Guardi come parla.... — comandò con un alto sussiego il commendatore, e indicando la porta col dito, aggiunse: — Mi vada fuori dei piedi.
— Andavo bene: è lei che mi ha chiamato indietro per il gusto d’insultare un povero orfanello. Siccome non ha potuto oltraggiare l’onore di una donna onesta, crede di vendicarsene....
Demetrio alzò le mani colle dieci dita aperte.
— Esca, dico.... — l’altro gridò, quanto è permesso di gridare a un superiore, facendosi smorto e agitandosi tutto nel piccolo spazio tra il muro e la scrivania.
Demetrio, sempre sospinto da una violenza che non sapeva più imbrigliare, fatto un altro passo avanti, seguitò:
— Crede di vendicarsene col gettare l’infamia sul capo de’ suoi figliuoli.
— Per Dio.... — tornò a dire il commendatore, agitando le carte con un moto convulso: ma non voleva d’altra parte col gridar troppo esagerare lo scandalo, far correre gente, compromettersi in faccia ai subalterni. — Faccia il piacere — tornò a dire con un tono più dimesso, — se ha delle ragioni, non è questo il luogo.
— L’offesa ch’ella ha fatto a quella donna è così vile.... — soggiunse Demetrio appuntandogli in faccia un dito.
— Di che cosa mi parla? — interruppe il commendatore agitando sotto il naso del Pianelli il foglio della Perseveranza, stropicciato come un fazzoletto, quasi avesse voluto pulir l’aria e far scomparire quelle brutte parole. — Che provocazione è questa? esca, le torno a dire. Che mi viene a contare a me di quella sua pettegola?
Demetrio lasciò cadere una mano con un colpetto secco sulla spalla del commendatore e gli disse:
— Badi a non offenderla di più, per il suo bene....
— Che, che, che.... è una minaccia? — balbettò il commendatore, facendo gli occhi grossi e spauriti, tirandosi più che potè sul muro.
— Badi, — e il Pianelli lo fissò coll’occhio cattivo — io non ho mai date lezioni sull’arte di saper vivere, ma posso insegnare a lei e a qualcuno più bravo di lei come si rispetta una povera donna.
— Ehi, di là..., Bianconi; bravo, venga qui.
Il Bianconi, che stava dietro l’uscio ad ascoltare con un gran dolore ai ginocchi, quando capì che il Pianelli perdeva la testa del tutto, entrò, lo prese sotto il braccio, lo tirò indietro:
— Andiamo, non dir più asinerie.... Tu ti senti male....
— C’è della gente che dice che io faccio dei guadagni, che ho dei segreti protettori — gridò con una voce falsa e lacerata il Pianelli, che non era più in grado di misurare la portata e l’estensione delle parole. — Questi sono i miei guadagni. Ma dovessi anche mangiare i chiodi delle scarpe, avrò sempre il diritto di insegnare a lei, e a chiunque più bravo di lei, il rispetto che si deve a una donna onesta.
— Lo meni fuori a respirare dell’aria, Bianconi. È matto, ha bevuto.
— Taci dunque...., finiscila, — predicava il Bianconi.
— A lei e a chiunque più bravo di lei, — tornò a ripetere il povero diavolo dalla soglia dell’uscio, attirando l’attenzione dei portieri e degli impiegati più vicini.
Non era Demetrio Pianelli che strillava, ma qualche cosa o qualcheduno dentro di lui, che aveva bisogno di uscire come il diavolo dal corpo di un ossesso.
Era l’uomo morto, che risuscitava colla corona di spine di tutti i patimenti, di tutti gli stranguglioni inghiottiti, di tutte le amarezze, di tutte le vergogne, di tutti i tedî sofferti in una lotta superiore alle sue forze cogli uomini, colle donne, coi vivi, coi morti, e (più terribile di tutto) con sè stesso.
L’uomo morto usciva, come evocato ancora una volta dal nome di quella donna che altri osava insultare in sua presenza: usciva da un apparente letargo di cinismo a protestare, e a vendicarsi un momento per ricadere forse per sempre nel buio della sua fossa, che non si sarebbe schiusa mai più.
Se ne accorse egli stesso quando, tirato dal Bianconi, attraversò l’anticamera in mezzo a un gruppo di persone, che lo guardavano con curiosità e che gli parvero ombre.
Si fermò un momento sulla scala, si svegliò, sto per dire, dal suo sogno, e cominciò soltanto allora a capire quello che il povero Bianconi andava ripetendo:
— Che ti salta in mente? sei matto? la ti gira? che diavoleria.... A un capo d’ufficio, a chi ti dà il pane.... E che te ne importa a te delle donne? lasciale nel loro brodo le donne.... Hai torto, hai fatto male: già, si vede che non sei guarito: dovevi stare a letto ancora qualche giorno.... Va a casa, Pianelli, lascia passare la scalmana, rifletti: cercherò di fare le tue scuse, dirò che sei malato, che è stato un equivoco, che hai creduto una cosa e invece era un’altra. Anzi dovresti scrivere subito una bella lettera al cavaliere, voglio dire al commendatore....
Mentre il buon Bianconi cercava di salvare un amico dal precipizio, il commendatore, vedendo che la cosa minacciava di propalarsi nei corridoi e negli uffici (dove c’è sempre il bell’umore che ha gusto di ridere alle spalle dei superiori) si rivolse ad alcuni impiegati accorsi a vedere, e ridendo come meglio poteva al disopra della sua rabbia e della sua paura, disse loro:
— È niente, grazie, vadano pure. Ha creduto che gli si volesse fare un torto, perchè ho chiamato il Bianconi al suo posto: è un originale, un misantropo, ha la mania della persecuzione. Che asino! Aveva anche bevuto. Scusi, Caravaggio, apra un poco la finestra. C’è un puzzo d’acquavite, non sentono? Tu, Caramella, portami una tazza d’acqua. E io più asino di lui a dargli ascolto. Se gli passa coll’aria fresca, bene, se no.... se no....
— Mi sono accorto anch’io poco fa che non era compos sui — disse il Quintina che in questa commedia godeva più che a teatro.
Amico della Pardi, aveva saputo da lei come e qualmente il cavalier Balzalotti non rifiutasse i suoi consigli e i suoi benefici alla bella cognata del brutto cognato, come Beatrice andasse a trovarlo in casa all’ora della dottrina cristiana e come per questa via il Pianelli avesse avuta una promozione nell’organico....
Il piccolo gaudente andava ora a fantasticare quel che poteva essere accaduto nel retroscena, per far nascere in pieno ufficio uno scandalo di quella sorta; non vedeva chiaro, ma intanto godeva in prevenzione dell’affanno con cui il vecchio gattone cercava di coprire le sue, diremo così, tenere fragilità.
— Altro che compos sui! — esclamò il commendatore — non poteva quasi stare in piedi. Se torna, non lo si lasci entrare: non ne voglio di ubbriachi in ufficio. Farò un buon rapporto.... Tornino al lavoro: grazie, vadano pure.... Chi sa che anche questo non aiuti ad aguzzare l’appetito per sabato....
— Eh! eh! eh! — rise col suo verso di gallina il furbo gobbetto, che, uscito di lì, fece un giro per gli uffici a contare l’allegra storiella.
Ricordò i sorbetti che il cavalier Balzalotti soleva pagare alla bella pigotta le sere di carnevale, tra una polka e l’altra, mentre Cesarino Pianelli si divertiva a falsificare i conti di cassa. Ma il più comico era l’amico di Novara, questo misterioso personaggio, che doveva confortare di biscottini la solitudine della povera vedovella.... mentre l’orso della Bassa sarebbe stato fuori a far la guardia...., eh! eh! — Erano discorsi a spizzico, a scatti, con molti vuoti in mezzo, dentro i quali la fantasia di ciascuno poteva introdurre tanto un granello di pepe, come uno spicchio d’aglio, discorsi che il gobbetto metteva in rilievo nell’aria con tutti i segni cabalistici della sua mano nervosa e rachitica, rannicchiandosi nello scrigno, stirando le gambe nei calzoni, grattandosi la barbetta sul collo, mandando dal ventre rotondo e grasso un nitrito di cavallo.... he! he! — che andava a finire in un cocodè di gallina che fa l’uovo.
*
Il giorno dopo, un venerdì, un telegramma del Ministero sospendeva il signor Demetrio Pianelli dall’impiego fino a nuovo ordine. Al telegramma doveva seguire una lettera ministeriale.
Ed il giorno dopo, il sabato, ebbe luogo al Giardino d’Italia il pranzo che gli impiegati offrivano al commendatore.