Demetrio Pianelli/Parte quarta/III
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III.
Demetrio, immerso nella sua febbre ardente, col cervello in burrasca, passava di sogno in sogno, l’uno più stravagante dell’altro. Una mano prepotente andava agitando e scrollando il logoro libro della sua vita, facendone cadere e sparpagliandone le pagine, le memorie, fino i piccoli segni.
Una volta vide la sua povera mamma, che pareva viva, nella sua persona mal ridotta dall’età e dalle fatiche, vestita di una sottana poverella poverella di cotone, coi piedi in due zoccoli alti, coi capelli duri cascanti come lische sopra le tempie ossute e giallastre. Veniva dall’orto con un cavolo sotto il braccio e Demetrio le disse: — Non faticate troppo, tanto è lo stesso. Vi farete canzonare e maledire.
La povera donna masticò delle parole grosse che non poterono uscire dalla bocca, e indicò il cielo col dito.
Un’altra volta era Cesarino, colle gambe diventate sottili dentro i calzoni neri raggrinziti dalla pioggia, che seguitava a discorrere d’una carrozza, senza che Demetrio potesse capire che carrozza volesse dire.
Si voltava nel letto, apriva un poco le palpebre pesanti e impastate, riconosceva la sua stanzetta piena di sole, sentiva l’allegro cicalìo dei canarini sulla ringhiera, la realtà gli stava davanti, ma ne provava un immenso fastidio: tornava a chiudere gli occhi, ricadendo di bel nuovo in una lanterna magica di cose strane, remote, miste, accavallate l’una sull’altra, che, sfasciandosi, cadevano con forti picchi sulla sua testa.
E allora rivedeva pà Vincenzo correr dietro la sua bella Angiolina, che si era incaponita a non rispondergli. Il povero vecchio piangeva come un ragazzo, finchè non usciva dietro una siepe il signor Isidoro colle sue grandi impennate fosforescenti, col suo bastone bistorto in mano, a ridere con un fare insolente e sguaiato.
Dava una scossa al capo, e questa volta non era più un fantasma, ma Giovann dell’Orghen in carne ed ossa che da alcuni giorni si era preso in cura il malato.
Questi si alzava un poco, trangugiava una tazza di acqua fresca che il suo infermiere teneva in mano, gli faceva socchiudere un poco le imposte, lo ringraziava confusamente della sua carità e ricadeva di nuovo in altre dolorose fantasticaggini. Poi nacque con don Giosuè una questione, perchè lo zio prete voleva la restituzione delle trentasette lire prestate pel funerale di pà Vincenzo....
La mente non distingueva più, per esempio, tra la bella Angiolina e Beatrice, tra lui e pà Vincenzo.
Pareva una lunga storia sola, la vecchia storia di ca’ Pianelli, l’eterna storia degli uomini stupidi e delle donne belle senza giudizio.
Tuttavia in fondo, quasi al di sotto di quel letto di brace, sul quale credeva di giacere, si faceva via un sentimento diverso dagli altri, che aveva in sè un certo senso di bontà, quasi una punta di dolcezza, e che dava al suo soffrire un non so che di nobile e di gentile. Era il pensiero nascosto o sottinteso di Beatrice.
La voce chiara e buona di questa donna parlava continuamente nell’anima sua e nel corpo malato, come la voce di una fontana perenne tra i clamori di un popolo in rivolta, di una fontana che non cessa mai di versare la sua acqua limpida e chiara, anche quando la gente cattiva e furibonda ha più sete di sangue che di acqua. Mentre egli faceva ogni sforzo per accostarsi a quella fontana, in cui si concretava il suo pensiero d’amore, vedeva venire avanti Arabella nella luce del volto pallido e degli occhi pensierosi. Non era una luce di questo mondo che veniva a dissipare le ombre de’ sogni, ma un fuoco d’anima viva, come irraggia dalle carni degli innocenti.
Sbarrò gli occhi, e disse:
— Sei proprio tu?
— Sì, son io — disse Arabella, che sedeva ai piedi del letto.
— Credevo di sognare.
— Come si sente, zio?
— Mi pare di star meglio. È un pezzo che sei qui?
— Un paio d’ore. Dormiva così quieto, che non ho osato farmi sentire.
— Che giorno è?
— È sabato.
— Diggià? Mi pare di aver fatto un gran sogno. Come stanno a casa?
— Bene. Alla mamma pesa che lei resti qui solo, la notte.
— C’è quel buon uomo che mi cura.
— Se potessi star qui con lei....
Demetrio la ringraziò con un sorriso.
— Adesso credo che il più grosso sia passato. Non fu qui anche un dottore?
— Sì, tre volte. L’ho fatto chiamare io.
— Tu sei una cara....
Lo zio Demetrio allungò la mano e strinse un poco il braccio della fanciulla. Si sentiva la testa più sgombra, gli occhi meno brucianti e una dolce stanchezza nelle ossa, che cominciavano adesso a riposare nel letto. Dopo aver ordinate le sue memorie, dimandò:
— È guarita la mamma?
— È guarita. Mi ha detto che verrà a trovarlo appena si sentirà più bene, zio. Adesso ha paura di disturbarlo.
— Dille che non s’incomodi.
— Ha bisogno, credo, di parlarle.
— Di che cosa? — domandò Demetrio.
— Non so....
Arabella cercò di nascondere il turbamento. Una istintiva prudenza le suggerì di non far parola allo zio di ciò che il suo cuore credeva di aver indovinato. Non disse, cioè, che la Carolina delle Cascine era stata a Milano, dopo quindici o venti anni che non vedeva il Duomo, e che aveva tenuto un gran discorso in segretezza colla mamma, la quale da quel momento pareva una donna risuscitata.
Per intrattenere lo zio raccontò invece ridendo che Ferruccio, dopo la sua prima comunione, s’era meritata la benevolenza d’un pio benefattore, che lo faceva studiare da prete. Non vestiva ancora l’abito, ma studiava già il latino. Il Berretta era a un tal colmo di felicità, che da una settimana non dava più un punto, come se il figliuolo fosse già diventato arcivescovo.
Raccontò ancora ch’era stata a trovare la piccola Martini. Il signor Martini aveva scritto che non si trovava male nella sua nuova residenza, ma vedeva l’ora e il minuto di tornare a Milano. Mandava a salutare anche lo zio Demetrio.
— Gli scriverò qualche volta.
— Sarei così contenta se fosse mia quella bambina!
— Tu saresti bene una buona mammetta.
Tra questi discorsi e con le cure del povero sordo, Demetrio ricuperò a poco a poco il senso delle cose ed insieme una certa pace o rassegnazione di spirito, che gli fece sembrar buono il letto.
Una volta volle rivedere i suoi canarini. Arabella che aveva imparato a farsi conoscere anche da loro, portò di qua le gabbie, le collocò sul tavolino, aprì gli sportelli e, mentre gli uccellini le volavano addosso, sulle spalle, sulla testa, sulle mani, essa gettava piccoli gridi di gioia.
Un altro giorno essa portò allo zio Demetrio delle rose, rubate alla Madonna delle monache, che celebravano il mese di Maria con molt’abbondanza di fiori. Sedeva ai piedi del letto, con una calza o un ricamino in mano, discorrendo di molte cose, che uscivano come per incanto dalla sua testolina, nella quale lo zio Demetrio si specchiava come un uomo vanitoso. Quella bambina, per esempio, conosceva tutta la geografia come il Pater noster, e gli faceva piacere di stare a sentir da lei la faccenda degli equinozi, che proprio egli non capiva ancora bene come siano fatti.
Quando si sentiva Ferruccio — non ancora vestito d’abate — zufolare sulla scala, Arabella raccomodava, ancora una volta, le pieghe del letto, dava un bacio, una carezza allo zio, e usciva col suo passetto d’uccellino, lasciando un senso di lieta freschezza nell’aria.
Nella soave spossatezza della convalescenza, Demetrio si divertiva a ripensare la graziosa figurina della ragazza, quegli occhi di un’acqua così limpida, a pronosticare l’avvenire, a immaginare quel che egli avrebbe fatto di quella bambina, se fosse stata sua.
*
Come aveva promesso, Beatrice mantenne la parola e si fece vedere anche lei una festa dopo la messa.
Demetrio, avvertito, l’aspettò tutta la mattina con un battito di cuore, che egli fingeva di non ascoltare. Volle però che la camera fosse pulita e fresca e fece collocare ai piedi del letto la vecchia poltrona con su un cuscino. Poi stette ad aspettarla cogli occhi chiusi, in una soave leggerezza d’animo e di corpo.
Sentì sonare tutte le ore e tutti i quarti a tre o quattro campanili vicini, e quando suppose ch’ella poteva essere in cammino per venire da lui, avrebbe quasi voluto che non venisse più.
La luce entrava mite nella stanza attraverso alle gelosie verdi avvicinate ma non chiuse, dietro le quali scendeva come una tela lo sfondo azzurro, netto e denso d’un bel cielo di maggio. Il mattone della stanza innaffiato largamente, mandava buon odore di fresco e di pulizia. Demetrio apriva gli occhi un momento, risaliva lentamente lungo la striscia di sole che dallo spiraglio della finestra veniva a battere sulla coperta e sul noce rosso del letto, via luminosa popolata di pulviscoli d’oro, e quindi tornava a chiuderli nell’assopimento delizioso del suo pensiero, pregustando l’idealità di quel desiderio, che ogni minuto di più si acuiva in un senso di spasimo.
Riconobbe subito la voce di Beatrice in fondo alle scale, mentre chiedeva alla portinaia un’indicazione: sentì tutti i passi ch’ella fece per venire su, e, man mano che si avvicinava, cresceva il suo spasimo.
Due colpetti all’uscio furono, per il debole convalescente, come due colpi di martello sul capo.
— Avanti.... — disse parlando nelle lenzuola per confondere la sua commozione.
— Dove siete venuto a nascondervi, caro voi? — disse Beatrice entrando, — io avrei paura a stare qui di notte. — Era vestita come il dì della prima comunione di Arabella. — Come state? — Venne avanti fino al letto e guardò dall’alto della sua persona sul malato che sorrise. — Mi ha detto Arabella che state meglio, è vero? — Demetrio fece un movimento del capo per assentire e inghiottì la parola. — Sarei venuta prima a trovarvi, ma mi sentivo fiacca anch’io.... e poi ci sono state tante cose.... — Beatrice, chiamata da un’altra idea, fece un mezzo giro nella stanza, andò a spiare tra le gelosie e soggiunse: — Una volta su, è un bel sito e si gode una bella vista. O i bei canarini!.... — E tornando verso il letto, riprese: — Che è stato, Demetrio? vi siete forse angustiato troppo per quella sciocchezza? Se sapevo di farvi troppo male, non vi avrei detto nulla. Anch’io forse mi sono esaltata più del bisogno e a mente fredda ho riflettuto che non valeva proprio la pena. È un vecchio stupido che ha la mania delle conquiste e diventa la burletta di tutti. Ma sulle prime, capite anche voi, còlta così all’improvviso, come una passera nella tagliola....
Beatrice si pose a ridere come una donna sollevata di cuore. Era vispa più del solito, più colorita in viso, straordinariamente vivace come Demetrio non l’aveva vista mai.
— Sedetevi.... — le disse, accennando cogli occhi la poltrona.
— Che bella poltrona! è vostra? sembra quella dell’arcivescovo. E come ci si sta bene.... — soggiunse, mettendosi a sedere e abbandonando la persona sullo schienale. — Dovreste regalarmela.
— Pigliatela.
— Dico per celia.... No, no, son venuta invece per parlarvi di una cosa seria, che voi sapete già. Eravate forse già venuto apposta per parlarmene, ma io vi ho confusa la testa colle mie storie.
— Oggi a me domani a te — mormorò Demetrio, tanto per dire qualche cosa, senza badare se la sentenza che gli usciva di bocca tornava più o meno a proposito.
— Avrete già capito di che cosa si tratta.
— Di che cosa? — dimandò ingenuamente Demetrio, che in quel momento non era ancora entrato nell’idea di Beatrice.
— Non avevate una certa lettera da consegnarmi?
— Ah! — esclamò rimpicciolendo gli occhi, — è vero.... l’ho persa.
— E io l’ho trovata.
— Do.... dove l’avete trovata?
— Indovinate.
— Ma, non saprei....
— Tra la sponda e la coperta del letto.
Beatrice non seppe trattenere un altro trasporto di ilarità.
— To’.... — disse Demetrio, socchiudendo quasi del tutto gli occhi, mentre imponeva a sè stesso di non essere troppo imbecille.
— Trattandosi di uno sposo, è quasi un augurio....
— E.... avete.... letto?
— Naturale.
— Meglio, già, la lettera era per voi. E avete.... avete anche pensato?
— Non vi so dire, caro voi. Mi pare una cosa così strana!
— Che cosa? — soggiunse l’altro, stiracchiando le parole per sostenere un dialogo, che minacciava di cascare d’ambo le parti.
— L’idea che io possa rimaritarmi.
— Ebbene? — continuò Demetrio, pesando e compesando le parole, mentre si tirava la coltre più sopra la bocca.
— Ho voluto prender tempo a riflettere e per questo non sono venuta a trovarvi prima, perchè temevo che me ne parlaste....
Beatrice disse queste parole cogli occhi bassi, seguendo colla punta del suo parasole le screpolature dell’ammattonato. Seguì un po’ di silenzio.
— E adesso avete deciso? — chiese finalmente il malato.
— Adesso non so. Se devo rimaritarmi non lo faccio per me, ma per i miei figliuoli. Non posso fare un matrimonio di slancio come si dice, nè di poesia, si sa, è naturale; ma devo riflettere a molte cose, dico bene? L’offerta del signor Paolino fa onore al suo buon cuore. È un galantuomo, un uomo di gran cuore e penso che se il povero Cesarino legge nelle mie intenzioni, non può che approvarmi. Anche la sua posizione è buona. Dicono che sia molto ricco. Anche l’idea di andare in campagna non mi dispiace. Ho patito tanto in questo brutto Milanaccio, che mi sembrerà d’essere un uccello fuori di gabbia. Penso anche a quel povero uomo di mio padre, che invecchia e peggiora tutti i dì. Non c’è più nulla a sperare nelle sue cause e anche il sogno della dote è sfumato. Voi non potreste continuar sempre nei vostri sacrifici, e poi dovete pensare anche ai casi vostri. La Carolina.... vi ho detto che è stata a Milano? Sicuro, fu a trovarmi ieri l’altro dopo forse vent’anni che non si moveva dalle Cascine, e me ne disse tante che mi ha quasi persuasa. Povera donna! Un gran cuore anche lei....
— Che cosa vi ha detto la Carolina? — interruppe Demetrio con voce soffocata dall’emozione.
— Che cosa si diceva? Ah....! mi ha detto che voi avete già dovuto ricorrere più d’una volta per grosse somme a Paolino per far fronte a molte spese. Il matrimonio metterebbe un bel saldo a tutto....
— È vero, — esclamò con improvvisa eccitazione Demetrio.
Le sue guance s’infiammarono un momento, poi d’un tratto impallidirono.
— È vero, — seguitò — a questo non ci avevo pensato. Il matrimonio salda tutto. Va benissimo, e poi?
— E poi siamo rimasti intesi che prima dell’agosto il matrimonio non si abbia a fare anche per rispetto ai morti e per riguardo alla gente. Paolino....
— È stato a Milano anche lui?
— Sì, ieri....
— O bello.... bello.... — esclamò Demetrio, con uno scoppio nervoso d’ilarità.
— Perchè ridete?
— Così, per nulla.... So che egli è tanto innamorato....
— È buono.... Mi ha fatto già un mucchio di regali.
— Sì, sì.... non guarda a spendere.... — soggiunse Demetrio ridendo sempre e asciugando col lenzuolo l’umore che l’immensa soddisfazione gli spremeva dagli occhi. — E che cosa ha detto Paolino?
— Ha detto che il matrimonio si può fare in campagna, e preferisco anch’io così. Ma per questo bisogna che la sposa scelga il suo domicilio legale in campagna, tre mesi prima del matrimonio, nel Comune dove vuol maritarsi. Paolino mi ha detto di chiedere a voi che passi si possono fare.
— Io non saprei che passi.... — fece Demetrio con un sorriso morto e penoso.
— Nel qual caso si sceglierebbe il Comune di Chiaravalle, che è a quattro passi dalle Cascine.
— Benissimo.
— Così si possono fare le cose quiete.
— Giusto.
— Paolino ha detto anche che vi scriverà e verrà egli stesso a trovarvi.
— Mi farà piacere.
— Dovrò poi ringraziarvi anche voi.
— Di che cosa?
— Di aver pensato al mio bene e a quello de’ miei figliuoli.
Demetrio questa volta non aprì bocca, ma sollevò uno sguardo umile e quasi pauroso.
— E ora pensate a guarire — soggiunse Beatrice, alzandosi.
La sua persona pareva quasi ingrandita nell’angustia della stanza. Raccolse i lembi del velo, se lo aggiustò un poco nei capelli, alzando le braccia, e fece qualche passo per uscire. Ma si ricordò di essere venuta anche per un altro motivo importante.
— A Paolino, naturalmente, non ho detto nulla di quell’altra storia.
— Quale?
— Quella del braccialetto e del cavaliere. È una storia noiosa e stupida che è meglio lasciar cadere, anche per voi, non vi pare? Solamente fatemi il piacere, con vostro comodo, quando sarete guarito, di consegnare al portinaio di quel signore il suo regalo, che io non voglio assolutamente tenere (Beatrice levò da una tasca del vestito l’involtino e lo collocò sul tavolino) e se non vi disturba, di unire anche le cento lire. Queste ve le restituirò alla prima occasione, risparmiando qualche spesa inutile: ma a Paolino non dite nulla, come se non fosse capitato nulla; e nemmeno a quel signore non dite nulla: capirà da sè.
— Va bene.... — disse Demetrio con voce fredda e asciutta.
— Ve lo lascio qui il prezioso regalo?
— Sì, lasciatelo lì....
— E che ne dite voi?
— Di che cosa?
— Di questo matrimonio.
— Bene, benissimo, tutto bene....
Beatrice si fermò ancora un poco a parlare di Arabella, dei Grissini e di cose indifferenti: diede ancora un’occhiata alla bella vista: passò anche sulla ringhiera, lasciando l’ammalato solo nel suo letto di spine: rientrò, gli raccomandò di nuovo di guarir presto, e se ne andò via quasi di furia, chiamata dall’improvviso pensiero dei figliuoli, ch’erano rimasti in casa soli e l’aspettavano per la colazione.
E così la bella storia finiva, come doveva finire.
*
Chi aveva detto a lui d’innamorarsi? che colpa aveva quella povera donna s’egli era pazzo? di tutti i suoi tormenti e di quel gran male, che gli faceva il cuore gonfio, Beatrice non s’era manco accorta. Quel po’ di bene ch’egli aveva fatto a lei e a’ suoi figliuoli era stato saldato dai denari di Paolino. Ecco, signor Demetrio, come vanno le cose del mondo. Un’altra donna forse...., ma che altra donna! è il mondo fatto così, è la sorte degli ingenui, era il suo destino, il suo pianeta.... Non valeva la pena di voler male per questo a una povera creatura, che pensava al bene de’ suoi figliuoli, e nemmeno a un galantuomo che operava con sincerità e con bontà d’intenzioni. Fossero felici tutti quanti! A lui rimaneva il suo tormento, la sua brace nel cuore. La ruota della fortuna non gira senza schiacciare qualcuno.
Egli ricuperava la sua vecchia libertà, rientrava nel suo guscio, tornava alle sue erbe — povere erbe tanto dimenticate, — a’ suoi canarini, a rattoppare le sue scarpe, a trascriver protocolli e rapporti, precisamente come prima, forse più sicuro di prima, come un uomo che si desta da un sogno di tre mesi, durante i quali abbia vissuto una vita diversa e stravagante.
Provava il senso di chi torna al suo paese dopo un lunghissimo giro per il mondo, colle scarpe rotte, bisognoso di riposare, di chiudere l’uscio di strada, di rivedere i vecchi mobili ricoperti di polvere, in attesa che le mani e la testa rientrino nelle vecchie abitudini, dalle quali forse sarebbe stato meglio non uscire.
Ecco i pensieri che lasciò dietro di sè, nell’uscire, quella donna, e che vennero a sedersi sul letto del malato.
Ma al disotto di questa stanca rassegnazione, Demetrio sentiva un gran vuoto, come se nell’uscire quella donna avesse portato con sè qualche cosa di cui un uomo non può far senza per vivere. Non era il cuore, no: il cuore, a furia di colpi, si indurisce e impara a resistere. Ciò che lo pungeva era un pensiero che non avrebbe saputo mettere in carta, ma che egli riassumeva all’ingrosso in una parola: la fede.... Sì, egli aveva creduto per un momento di esser buono a qualche cosa in questo mondo. Colla sua fede aveva abbracciato i dolori di una povera famiglia, sollevata un’anima dal purgatorio, salvato dal disonore il nome di una famiglia, creato il sentimento di quella donna.... Oh sì, quella donna l’aveva in certa qual guisa creata lui. La gente non aveva che scherno e disprezzo per la povera bambola; ed egli s’era illuso per un momento che la bambola avesse sangue e lagrime e sentimento.... e che gli volesse infine un poco di bene.
E invece nulla, nulla, nemmeno una parola di carità.
Essa era venuta più per sbrigarsi di una convenienza e di un braccialetto che per chiedergli un consiglio, più per pregarlo a fare dei passi per lei, che non per consolare un povero malato.
Si vedeva che la felicità era seduta come in un trono nel suo cuore: le gote, gli occhi, la voce, i movimenti mandavano fuori la contentezza da tutte le parti.
Essa stendeva avidamente le mani all’occasione per paura che il momento la portasse via. Aveva ragione, ciò forse era giusto e naturale in quella donna.... ma una parola di carità costa così poco! E invece niente, niente per lui.
*
Demetrio si sollevò e si pose quasi a sedere sul letto: sentendo mancare il respiro, chiuse strettamente gli occhi, abbandonando la testa senza forza sul cuscino, e lasciò che queste idee monche e cozzanti tra loro finissero d’agitarsi.
Beatrice era morta per lui, era morta e sepolta nel cuore che l’aveva creata.
Tranne la sua mamma, nessuno gli aveva voluto bene a questo mondo. Eppure egli non aveva mai fatto male a nessuno, anzi ogni occasione era stata buona per lui per lavorare, per struggersi, per far mortificazioni e sacrifici.
Povero illuso, povero scemo!
Il mondo ama più le apparenze che la sostanza, e non c’è nulla che più offenda la gente incapace di bene quanto la vista del bene che fanno gli altri.
Non potendo difendersi dal bene che ricevono, gli uomini cercano di non accorgersene e di dimenticarsene presto, fin che giunge opportuno il momento di vendicarsi con un piccolo trionfo d’ingratitudine.
Oh, la sua povera fede! sì, era questa che moriva in quel profondo abbattimento di tutte le forze, in quella crisi nervosa di malinconia.
Ora che l’idillio della sua vita era finito e che il lume dell’ultima illusione erasi spento come un razzo nelle tenebre, non gli rimaneva che di morire.
*
Morire! — questa brutta parola risonò come un fischio nelle sue orecchie attutite dal male. — Gesù di misericordia! che idea gli passava ora per il capo? anche a lui, anche a lui lo spettro della morte doveva presentarsi come una liberazione? che avesse perduta veramente ogni fede nelle cose di questo e dell’altro mondo? che Dio e la sua mamma lo avessero proprio abbandonato del tutto? Ah Cesarino!
Spalancò gli occhi per bere la luce del giorno e per liberarsi da quel tremendo incubo che lo trascinava a rivedere suo fratello disteso sotto una stuoia fra le ruote d’una carrozza: e gli occhi andarono a posarsi sopra la tazza di vetro, in cui Arabella aveva collocate le belle rose di maggio.
Fisso in quei fiori lasciò che le lagrime colassero un gran pezzo in silenzio, come se dentro di lui si sciogliesse veramente qualche cosa di duro e di irrigidito.