Demetrio Pianelli/Parte prima/III
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III.
Stavo in estasi a contemplare dall’uscio una quadriglia, in cui la signora Pianelli girava come un arcolaio ingarbugliato, quando sentii una mano leggera sulla spalla.
— Scusi, ho ancora bisogno d’un favore.
— In ciò che posso.... — balbettai, spaventato dal terrore che vidi in fondo agli occhi del povero Cesarino, mentre mi seguiva in un angolo del salotto.
— Ricevo adesso una lettera, in cui mi si dice che un mio commilitone è in fin di vita alla Casa di Salute. Il poveretto è solo, senza parenti, e siccome mia moglie desidera rimanere, così se non le rincresce di accompagnarla ancora a casa dopo la festa....
— Si figuri — risposi, — fin che resta mia sorella sono a sua disposizione.
— Vai proprio, Cesarino? — domandò la signora Beatrice, sopraggiungendo in quel punto tutta lieta e scalmanata.
— Il signore è tanto gentile.... Può essere ch’io rimanga alla Casa di Salute tutto il giorno di domani. A buon conto tu non aspettarmi.
Pianelli pronunciò queste parole con una freddezza spaventosa. E, come se avesse ancora da aggiungere qualche cosa, restò un momento a guardarsi la punta delle dita cogli occhi stretti e addolorati.
Io guardai in viso alla bella bambola per vedere se al di sotto della fredda vernice di biscuit passava un’ombra di un sospetto, di apprensione. Ma il volto sodo e grande, gli occhi aperti e ripieni di una gioia infantile non diedero alcun segno. Essa non si accorse nemmeno del pallore giallognolo e funebre che scese ad un tratto sul volto del marito.
Cesarino alzò ancora un momento gli occhi, e, indurito, irrigidito nel tremito che gli scoteva i nervi, soggiunse:
— Tornerò forse a mezzodì.
— Addio, non strapazzarti troppo.
Queste furono le ultime parole che Beatrice disse a suo marito.
L’avvenente tenore Altamura, col suo sonoro accento romano, venne a invitarla per il cotillon e la ricondusse in sala.
Cesarino uscì correndo dall’altra parte, verso la scala.
Alte grida chiesero il galoppo finale e l’orchestrina, aizzata da un marsala di seconda qualità, attaccò subito Fra tuoni e lampi....
Fu una scintilla in una polveriera.
Alle prime battute dieci coppie si urtarono nel mezzo della sala, come barchette sbattute da un improvviso uragano nelle strette dighe del porto.
Quando fu possibile di mettere un poco d’ordine, le coppie a cinque per volta cominciarono a discendere nel campo coll’elasticità e colla calorosa foga dei cavallini ammaestrati di un circo, chi con in testa un cappelluccio di arlecchino, chi con una mascherina sul viso o con un naso di carta o con qualche altro segno della follìa in capo.
Allo squillo di un campanello, che era stato affidato all’autorità morale del cavaliere Balzalotti, le cinque coppie danzanti si agglomeravano, facevano ingorgo alla porta d’uscita per rubare un posto: e intanto era un tiepido intreccio di corpi, che avevano nel sangue i tuoni e i lampi. Il cavaliere Balzalotti, conficcato sullo stipite, riceveva sulla pancia quelle morbide ondate di belle donnine e godeva, vispo come il pesce nell’acqua fresca e chiara.
Uscivano da un’altra porta altre cinque coppie, precipitando, come trottole sotto i colpi di una frusta invisibile, forse la frusta del diavolo.
Le care donnine, trascinate, rapite, portate di peso, coi capelli o scomposti o sciolti, aspirate dai gorghi vorticosi dell’ultima danza, palliduccie di gioia, alleggerite ancor più del solito dalle spume del vino d’Asti, che gonfiava i cervelli, scendevano nella danza e vorticavano come pagliuzze in balìa di una dolce bufera.
Che sa mai del suo destino una pagliuzza?
E che ne sa la donna?
— Se si squarciassero i muri — disse la Quintina, la moglie del gobbetto elegante, al Bianchi, che le faceva una corte per ridere. — Se si continuasse a volare così nello spazio del cielo?
— O gaudio! — gridò il Bianchi con un guaiolo di gatto innamorato.
Fu una risata generale. Ordine e soggezione e serietà non era più il caso di pretendere in quelle ore bruciate.
— Ip! ip! ip! — gridavano i più pazzi, battendo coi piedi le note del terribile galoppo.
— Ip! ip! ip! — gridava il Garofoletti, tirando con tutta la forza de’ suoi robusti trent’anni la Pianelli, che rotolava fuori di tempo come una valanga.
Aveva anch’essa in testa un cappellino aguzzo pieno di campanelli, che le faceva comparire la testa quasi colossale.
Sotto i trabalzi del suo passo pesante, il corpo di Giunone fremeva nelle strette fasciature dell’abito di raso, che mandava le fosforescenze della madreperla. Essa irradiava un calore di fornace, ansimava, sgocciolava sudore da tutti i capelli, ma voleva gridare anche lei ip, ip, ip, per mostrarsi briosa e pazzerella come le altre, come piaceva al suo Cesarino, senza che l’ombra d’un pensiero cattivo passasse a ottenebrare il candore latteo della sua bontà.
Al cessare della musica fece uno strano effetto il battere della pioggia furiosa contro i vetri.
*
Cesarino era disceso in furia dalle scale, in furia traversò i portici e la piazza semibuia della Corte, verso piazza Fontana, senza quasi sentire la pioggia che veniva giù fitta e gelata.
Era l’ultima corsa.
Aveva pregato e supplicato fin troppo. La gente voleva la sua morte.
Non si uccide un uomo soltanto col ficcargli un coltello nel cuore, ma anche col metterlo nella necessità di perdere l’onor suo. Questo aveva fatto il Martini. Una volta che il Commendatore aveva nelle mani la prova della sua colpa era come mandare un uomo in galera. Un Pianelli in galera per la miseria di un migliaio di lire? Questo poi no, perdio!
Questo «no» risuonò nell’oscurità del suo pensiero proprio nel momento ch’egli usciva dalla via Alciato e rasentava il palazzo di Giustizia. In un baleno gli passarono per la mente tutti i processi celebri che aveva letto sul Secolo e che soleva discutere cogli amici sempre con grande animazione. Una volta o due la sorte l’aveva chiamato a far parte della giurìa e aveva potuto vedere da vicino tutto l’apparato di un processo col reo in gabbia su una panca di legno, cogli angeli custodi ai fianchi e il pubblico in faccia, il grosso, l’avido mostro dalle cento teste, che succhia cogli occhi l’anima e i pensieri d’un poveretto, ne conta con ferina voluttà tutti i tremiti, i sudori, i moti inconsulti, ridendo degli sforzi che fa per aggrapparsi nell’agonia dell’onor suo a ogni sterpo, a ogni fil d’erba che il destino gli manda sottomano.
— È cattiva la gente! — pensava torbidamente, mentre correva per le viuzze bistorte del Zenzuino e del Pasquirolo, due strade di catacomba.
Finalmente sbucò sul gran corso Vittorio Emanuele.
Si arrestò un momento per far tacere l’affanno e gli acuti dolori di milza. Soltanto allora si accorse che l’acqua l’aveva tutto inzuppato.
Se la sentiva scorrere come una biscia fredda lungo il filo della schiena.
Qua e là, rasente ai muri, si vedevano dei gruppi di gente, che tornavano dalle feste sotto gli ombrelli lucidi e grondanti. Qualche pierrot ubbriaco proclamava in mezzo alla strada la révolution, sorreggendosi a fatica nell’aria coi larghi gesti.
Venivano, dai crocicchi bui, risa e strilli di mascherine che scivolavano innanzi, tuffando le belle scarpette di seta nelle pozze e nei ruscelli.
Il Caffè dell’Europa, sull’angolo della via Passarella, non aveva ancora chiusi i suoi battenti. Molti vagabondi vi si erano rintanati contro il maltempo, tra i quali qualche vecchio impenitente in cerca di belle avventure, qualche trasognato celibatario che non trovava più la maniera di divertirsi e qualche operaio vestito cogli abiti di lavoro, che stentava a digerire l’unto di una cena straordinaria, guastata da un vinaccio cattivo.
Cesarino entrò nel Caffè e ordinò un punch molto forte.
Intanto si guardò indosso. Pareva appena pescato nelle acque di un fosso. Gli portarono il punch acceso d’una fantastica fiamma azzurrognola, che egli trangugiò quasi col fuoco vivo sulle labbra, arroventando il cielo della bocca e tutti gli spiriti: poi ne comandò subito un altro insieme all’occorrente per scrivere.
Quando si trovò in mano la penna, appoggiò la testa all’altra mano e cominciò a fregare la fronte per diradare una gran nebbia.
Sul punto di scrivere al Martini la dichiarazione che gli aveva promessa, sentiva la penna diventare pesante e rovente tra le dita.
Come può un uomo dichiarare di suo pugno sopra un bianco e lucido biglietto di lettera che egli è un ladro e un falsario?
Se invece si fosse rivolto direttamente al Commendatore, invocandone la misericordia? ma si ricordò che un giorno questa brava persona gli aveva detto:
— Pianelli, lei spende molto.
Che cosa aveva risposto il signor Pianelli al signor Commendatore?
— Commendatore, spendo del mio.
Ora gli ripugnava di mettersi in ginocchio a recitare il confiteor.
Intanto le idee si aggrovigliavano e la volontà si smarriva in fumo. L’uomo di talento si smarriva nella crescente nebbia de’ suoi pensieri, come l’alpigiano colto dalle nebbie improvvise del suo monte. I fumi del punch che fermentavano nello stomaco, irradiando vampe di calore, circondavano la testa d’una fantastica tenebrìa, in cui balenavano delle fiamme e delle punte azzurrognole.
Guardò l’orologio. Erano le tre e mezzo dopo la mezzanotte.
Prese un giornale che trovò sul tavolino, ne scorse in fretta le pagine illustrate senza capire nulla di quelle grandi figure, senza quasi veder nulla; lo buttò via, girò uno sguardo scemo, aggrondato per la sala, appoggiandosi colle due mani sul divano, si sbottonò il soprabito, l’abito, il panciotto anche, e stette un minuto in un atteggiamento tra l’estatico, il tragico e l’ubbriaco, provando nella reazione alcoolica del doppio beverone ingoiato un’acuta e dolce vertigine, un senso di chi cade dall’alto nel vuoto, come prova chi si lascia dondolare cogli occhi chiusi sopra un’altalena.
Improvvisamente, parendogli che il tempo gli mancasse davanti, buttò i denari contati sul vassoio, saltò in piedi. Sulla porta si racconciò un poco i vestiti, guardò in su e in giù per la lunghezza del Corso, accese un mozzicone di sigaro, che trovò nel fondo di una tasca, e invece di piegare a mancina verso il Duomo, che era la strada più naturale per andare a casa, piegò a dritta verso il ponte del Naviglio.
Le goccie cadevano ancora a vento, fitte, rabbiose. Quantunque i vestiti leggeri della festa e le scarpe basse di pelle inverniciata fossero un costume poco opportuno per affrontare uno scroscio di quella forza, pure il signor Pianelli, detto lord Cosmetico, quasi per il gusto di fare un dispetto a sè e a qualcuno fuori di sè, cominciò a discendere, passo passo, verso il ponte, masticando il suo sigaro amaro e insieme una risoluzione più acre ancora, coll’aria indifferente del giovinotto che va a spasso a pigliare il fresco.
I ciottoli battuti e slavati uscivano dal terriccio coi vari colori, come un rozzo mosaico, mentre i lastricati, tirati lucidi come specchi, scendendo in linee parallele per tutta la lunghezza del Corso, riflettevano la doppia fila delle fiamme a gas, fino alla barriera di Porta Venezia.
Anche in questa parte non un’anima viva in quell’ora. Buie tutte le finestre e anche al disotto del bollichìo dell’acqua cadente si sentiva, sto per dire, quel silenzio gravido di sonno che è proprio delle ultime ore della notte, in cui sogliono riposare anche i malati e si assopiscono i moribondi.
*
Il Pianelli invece andava a spasso.
Scherzi a parte, quando fu sul ponte si domandò se aveva il coraggio di annegarsi nel Naviglio.
Aveva sofferto già abbastanza la mortificazione del pitoccare l’elemosina per sentirsi ancora la forza di affrontare lo scandalo di un processo per truffa e falso. Era già stracco, annoiato, nauseato della vita e della gente.
Si accostò al parapetto, fissò l’occhio nel biancheggiamento turbolento dell’acqua, che rimbalza e scaturisce dalla chiavica e manda tra le due portaccie del sostegno l’ululato d’una bestia feroce. A questo rumore si mescolava il friggìo dell’acqua, che traboccava dalle grondaie e ribolliva sul lastrico.
Tutt’insieme quell’acqua faceva uno scroscio ampio, assordante, che toglieva i sensi e la ragione. Egli e l’acqua erano già una cosa sola. Non aveva più un filo asciutto indosso. I panni gli si raggrinzivano sulle carni, le scarpette macerate zampillavano fontanelle, il cappello era una spugna. Si sentiva gonfia d’acqua la testa e l’anima.
Tratto da un impeto cieco di disperazione, discese a corsa la stradetta alzaia, che passa sotto il ponte e rasenta il pelo dell’acqua. Qui non c’è che un passo, chi voglia farla finita colla vita.
La gente voleva la sua morte: la voleva anche lui. Ma quando fu sotto, al buio, un pensiero, che fin qui aveva cercato di non lasciarsi vedere, e che se ne stava rintanato nella parte più oscura del cuore, ributtato le cento volte da una passione più avara e più dispettosa, come se a un tratto ricuperasse una giovanile energia, urtò, rovesciò ogni altra considerazione e uscì con tutto il suo disperato entusiasmo a fermare un pover’uomo dall’ultimo passo.
E quei poveri figliuoli?
E la sua cara Arabella?
Questa veniva quasi più avanti degli altri bambini nella sua chiara biondezza, nella sua bellezza alta e sottile.
Egli era uscito per andare a una festa da ballo senza quasi guardarli in faccia quei figliuoli e non poteva morire senza vederli ancora una volta.
Non poteva morire così come un gatto senza provvedere in qualche maniera, non al proprio onore (questo era perduto per sempre), ma all’onore, alla protezione di quei poveri figliuoli. La sua morte doveva almeno esser utile a qualcuno.
Quattro ore sonarono nel fitto dell’oscurità, ore gravi, cupe, solenni come quattro parole piene di minaccia, che fecero sul capo dell’infelice l’effetto di spietate martellate.
Il Pianelli capì che era l’ora di tornare a casa e, tra il chiaro e il fosco de’ suoi pensieri in disordine, ritornò sul ponte, e, col passo frettoloso di chi ha paura di perdere un treno, risalì di nuovo tutto il Corso, ritraversò piazza del Duomo, alzò gli occhi alle finestre illuminate del Club, dove si ballava ancora: scese per via Torino, passò davanti San Giorgio, senza vedere, senza udire i pochi matti che strillavano e barcollavano vestiti da maschera: passò imperterrito quasi sui piedi di due questurini accovacciati nel rientro di una porta, e venne fino in Carrobio, non so se cacciato o se tirato da un ultimo pensiero, soltanto in questo vivo, morto indurito nel resto della sensazione, fatta ancora più rigida dai sudori dell’ebbrezza alcoolica, che gli si congelavano indosso.
Trasse dal taschino la chiavetta inglese, aprì il portello, entrò nell’andito della casa sua, rintracciò nel buio la solita strada, la solita scala, che prese a salire energicamente col corpo più sveglio, ritrovando nelle svolte dei pianerottoli le idee abituali di tutte le sere.
Abitava al terzo piano un quartierino quasi nuovo, che aveva due balconi verso strada.
Per una scaletta di legno si saliva, oltre il suo pianerottolo, a un terrazzino aperto sul tetto per il medesimo uscio del solaio. Su quel terrazzino Cesarino Pianelli aveva un poco di botanica. L’uscio del solaio, di legno massiccio, come al solito era rimasto aperto e Cesarino se la prese ancora mentalmente contro il guattero dell’osteria, un animale che non aveva le mani per chiudere, quando andava lassù a prendere il carbone. L’uscione, sbatacchiato dalla forza del vento che entrava per l’abbaino, mandava di tratto in tratto dei cupi rimbombi nella torre della scala. Cesarino alzò gli occhi e vide in mezzo a due nere travi una pezza più chiara di cielo.
Introdusse dolcemente la chiave nella toppa e sospinse il battente.
Giovedì, un brutto cane volpino, che egli aveva raccolto per via la notte d’un giovedì santo, si mosse nel suo giaciglio, posto in un angolo dell’anticamera, mandò un guaiolo; ma, riconosciuto il padrone, si accoccolò di nuovo a dormire.
Camminando sulla punta dei piedi, si avvicinò all’uscio della stanza da letto: e ascoltò.
Beatrice era tornata e dormiva da una mezz’ora, profondamente, cullata dall’eco delle danze.
Tornò indietro, sempre sulla punta dei piedi, entrò nello stanzino che serviva da studio, che aveva la finestra sopra un cortiletto di passaggio tra la bottega del lattivendolo e l’osteria.
Accese una candela, buttò in terra il gibus pesante d’acqua e si strappò di dosso il soprabito e l’abito nero a falde.
Con una salvietta si asciugò un poco i calzoni, le mani, il collo e indossò un gabbano che trovò sul letto.
Stracco e mezzo malato si abbandonò sopra una poltrona e stette lì tutto intormentito, tutto d’un pezzo.
La casa e la città tacevano ancora in quell’ora cieca che precede il giorno: e l’unico rumore era lo sbattacchiare villano dell’uscione del solaio, che agitava un suo arpione di ferro pendente.
Fissò gli occhi nella fiamma bianca della candela posta sulla sponda della scrivania, dalla quale si irradiava un cerchietto di luminose stelluccie. Portò le mani agli occhi. Erano lagrime.
Tristo, maledetto destino che per qualche migliaio di lire un uomo dovesse perdere la vita! E quest’uomo aveva esposto tre volte il petto alle fucilate, ed era stato a Roma nel settanta. Cesare Pianelli aveva due medaglie commemorative e un congedo militare onorevolissimo.
Ebbene, a quest’uomo non si davano nemmeno tre giorni per ordinare le idee, per accomodare un debito.
Sonarono le quattro e tre quarti a una graziosa pendolina di nichel posta sul caminetto.
Nella stanza vicina, non divisa dallo studietto che da un semplice assito aperto in alto, dormivano i suoi figliuoletti minori, Mario di circa sei anni e Naldo di quattro anni e mezzo, due bei bambini, che avevano gli occhi del babbo e la carnagione bianca della mamma.
Arabella, di dodici anni e mezzo, dormiva in una cameretta più lontana.
Cesarino amava immensamente i suoi figliuoli, e sebbene li vedesse attraverso lo specchio falso delle sue grandi idee e della sua ambizione, l’affetto suo non era per questo meno vivo e sincero. Arabella specialmente era il suo cuore, perchè ragazza, perchè la prima, perchè bellissima. Questa bambina d’un biondo chiaro, con magnifici occhi neri pieni di riflessi, cresceva a precipizio con una personcina aristocratica, mobile, nervosa come la natura del babbo, ma d’animo dolcissimo come la mamma. Che cosa sarebbe stato di questi ragazzi fra ventiquattro ore? Come avrebbe potuto un povero padre sopportare lo sguardo pieno di lagrime di quella bambina intelligente? E che cosa avrebbe dato loro da mangiare il povero padre? E chi avrebbe sposata la figlia di un uomo processato per falso e uscito di prigione?
E chi avrebbe dato pane ed educazione a’ suoi maschietti?
Il mondo è cattivo. Il mondo è cane, peggio dei cani.
L’uscione del solaio agitato dal vento seguitava a sbattacchiare innanzi, indietro. Parevano insulti quei colpi!
Cesarino si profondò ancora un poco nelle sue meditazioni, e trovò che proprio uno solo era il rimedio ai suoi mali.
Andò alla scrivania e scrisse di seguito:
- «Illustrissimo signor Commendatore,
Il sottoscritto, dopo quasi venti anni di onorati servigi resi alla patria, si trova nella dolorosa circostanza di non poter restituire entro ventiquattro ore la somma di lire mille. Poichè non si è creduto necessario di concedergli un lasso maggiore di tempo, provvede egli stesso al suo castigo.
Valga questa mia dichiarazione quale giustificazione pel signor ragionier Martini e valga il mio sacrificio a espiare un delitto che non era nelle mie intenzioni di commettere. Spero che non si farà processo ad un morto e si vorrà almeno salvare l’onore de’ miei figli.
In quanto ai danni ho incaricato mio fratello Demetrio di regolare la partita collo stesso signor ragionier Martini.
Con osservanza
Cesare Pianelli».
Prese quindi un altro foglio e scrisse in alto:
- «A mio fratello Demetrio».
E più sotto:
«Prego mio fratello a voler regolare col signor ragionier Martini un conto di lire 1000 (mille), di cui mi dichiaro suo debitore, e nello stesso tempo di voler provvedere perchè siano protetti i diritti dei miei figliuoli, tanto per riguardo alla mia pensione, quanto per la intera esazione della dote di mia moglie, di cui è qui allegata una promessa scritta di mio suocero, il signor Isidoro Chiesa di Melegnano. Si procuri che i miei figli non sappiano mai come morì il padre loro».
E senz’altro firmò, suggellò le lettere, scrisse gli indirizzi e sollevò la testa come se si svegliasse da un gran sogno.
Naldo mormorava in sogno delle parole ridenti.
Il cuore irritato e superbo del padre fu scosso da quella voce tenera e balbettante, che si svolgeva dalla vaga delizia d’un bel sogno. Il povero uomo strinse la testa fra i pugni. Bagnò ancora una volta la penna e cominciò a scrivere:
«Cara Beatrice....»
Ma un fiume di lagrime gli tolse la vista della carta. Soltanto a scrivere il nome di questa donna, tutte le forze dell’anima si risvegliarono in un impeto sdegnoso di coraggio, in una quasi feroce esigenza di vita.
Egli non osava dire a sè stesso che forse soltanto per questa donna era venuto insensibilmente all’orlo del precipizio: non osava accusare sua moglie, renderla complice delle sue disgrazie. Ciò che egli aveva fatto per lei, i regali, il lusso, lo splendore della vita, non era stato chiesto dalla povera donna: ma Cesarino l’aveva dato spontaneamente, come tributo dovuto alla bellezza e alla bontà di sua moglie, di cui egli era ciecamente innamorato e ciecamente geloso....
All’idea che i morti non possono vedere le cose di qua, e che Beatrice, vivendo, poteva essere il tesoro di un altro uomo, Cesarino rabbrividì, buttò via la penna, si picchiò la fronte con pugni duri e stretti.
Quali tentazioni gli passavano nel sangue? Non aveva mai creduto a certi delitti se non come conseguenza di delirii frenetici e di pazze allucinazioni: ma ora si sentiva pigliato egli stesso da una forza invisibile che tentava di trascinarlo di là, nella stanza vicina, accanto al letto della bella donna addormentata, ancora sua, tutta sua....
Capiva già come si possa afferrare un coltello e uccidere, uccidersi....
Balzò in piedi inorridito. Tremava in tutto il corpo di febbre fredda, mentre la fronte pareva una fornace. Non piangeva più. Si guardò una volta nello specchio ed ebbe paura di sè. La testa pareva già calcinata, le labbra indurite, gli zigomi tesi, la fisionomia coperta dei lineamenti della morte, i capelli irti, tesi, irritati, l’occhio vitreo di uomo pazzo....
Era già pazzo forse? questa poteva essere ancora una mezza salute. A un pazzo si perdonano molte cose, che non si perdonano ad un morto, e un pazzo può ancora risuscitare. Ma ragionava ancora troppo per essere matto. La macchina logica del suo cervello funzionava ancora troppo regolarmente e gli dimostrava che pel ladro e pel falsario non c’è che il codice penale....
Un impeto di nausea urtò a questa ripetuta idea lo stomaco, la vertigine lo colse, trasudò copiosamente per tutto il corpo, e sentì quasi un rovesciamento di tutti i visceri. Anche questo male passò presto: non poteva nè impazzire, nè morire, mio Dio!
Bisognava ch’egli si distruggesse proprio colle sue mani.
Soffiò sul lume e rimase al buio, raccolto, colla testa tra le mani, quasi a pregustare il gran buio eterno in cui stava per gettarsi.
Quando si scosse da quella profonda contemplazione, vide che un primo albore del giorno biancheggiava già sui vetri. Si alzò, aprì la finestra che dava sul cortiletto, guardò giù nella fonda oscurità delle pareti ancora umide e sgocciolanti di pioggia. Il vento fresco e leggero dell’alba rompeva qua e là la nuvolaglia del cielo e cominciava ad asciugare i tegoli. La luna usciva ancora a tempo per spargere sui tetti bagnati un raggio della sua luce tremula e falsa, una luce che faceva male al capo.
Cesarino sentì la nausea della vita e misurò ancora una volta coll’occhio la terribile profondità in cui stava per gettarsi capofitto. Ma in quel punto uscì e si mosse nel cortile un lume. Alcune voci si mescolavano al tonfo sonoro del secchio del lattivendolo. Non era più a tempo a gittarsi dalla finestra. Sentì che sonavano la diana alla caserma di San Francesco, a cui rispose più lontana, forse dal castello, la diana della cavalleria.
Queste due squille vive nel gran silenzio dell’ora sollevarono un nuvolo di idee e di memorie del tempo felice ch’egli aveva servito nei lancieri, quando, per esempio, cacciando la testa fuori della tenda si vedeva all’orizzonte dietro i pioppi del Ticino la striscia argentea dell’alba.
Al di sopra dei tetti per la vastità dell’aria si moveva e arrivava anche il rumore sordo dei carri, che, sul fare dell’alba, portano alla città le verzure, la legna, il fieno; e veniva insieme anche qualche tocco d’Avemaria di una parrocchia rurale, lontana lontana, insieme ai fischi della stazione di Porta Genova.
Cesarino fu quasi respinto indietro da quei suoni di vita: chiuse in fretta la finestra.
Dopo aver cacciata la testa nel bugigattolo dove dormivano i figliuoli, dopo aver respirato l’odore caldo della loro vita di cui lo stanzino era pieno, volle dare un bacio alla sua Arabella.
Passò nell’altra stanzetta, leggermente, per non svegliare la bambina. Non piangeva, non pensava, non soffriva nemmeno più: ma erano lampi e bagliori di idee in mezzo alla nera oscurità di una ragione che un senso indomato di orgoglio trascinava alla disperazione. La stessa disperazione però pigliava già forma di sacrificio. Non è santo olocausto la morte di un padre che si uccide per salvare l’onore dei figli?
Arabella dormiva soavemente nel suo letto composto e bianco. I capelli di lino scendevano sopra le piccole spalle che brillavano nella poca luce dell’alba. Il seno piccolo e commosso forse da un sogno palpitava della vita che si sogna a dodici anni. Le labbra semiaperte mandavano fuori un alito puro, misto al profumo delle carni intiepidite nelle coltri.
Quel mondo cattivo e senza carità, che voleva oggi cacciare in prigione il padre, avrebbe fra non molti anni sospinto colle stesse mani la figliuola al vizio e alla vergogna, giovandosi della sua fragilità morale. O che cosa può essere (pensa il mondo) la figlia di un ladro e di un falsario morto in prigione?
L’uscione del solaio sbatacchiò due colpi che fecero tremare la casa.
— Vengo.
Si chinò sulla testolina della figliuola, lasciò che cadessero le ultime lagrime sopra i suoi capelli, l’adorò un ultimo istante, e risoluto, sempre con passo leggiero, andò in cucina, presso la cassa della legna.
C’era un cassetto, frugò, rimestò un pezzo colle mani, scelse qualche cosa, che osservò attraverso alla luce nascente della finestra, e passò davanti all’uscio di Beatrice.
Ascoltò.
Essa dormiva col fiato pesante.
Davanti a quell’uscio, mentre stava col pugno stretto, sentì come un coltello in mezzo al cuore.
Non c’era più tempo da perdere. In anticamera Giovedì si mosse un poco e si lamentò.
— Dormi, povera bestia!
L’uscio che dava sul pianerottolo era rimasto aperto. Lo riaccostò senza far rumore e corse a precipizio su per la scaletta del solaio.
*
Arabella sognava d’essere nella chiesuola delle monache, occupata a ornare di fiori una statuetta della madonna. Da qualche tempo essa si preparava alla prima Comunione e il suo cuore era pieno di visioni: quando fu svegliata bruscamente da un forte abbaiare. Alzò un poco la testa, in preda ad uno strano spavento; portò la mano al cuore, dove sentiva uno schiacciamento come un chiodo premuto, girò gli occhi intorno.
I vetri cominciavano ad imbianchire nella luce mattutina. Le campane di San Sisto sonavano l’Avemaria. Lasciò cadere ancora la testa, stanca del bel sonno della fanciullezza, e si addormentò un’altra volta.
Il cane, colle quattro gambe tese rigidamente sugli scalini e col corpo quasi indurito dall’emozione seguitò un pezzo a urlare nell’ombra contro l’uscione aperto del solaio. Ficcava gli occhi nel buio della soffitta, ma non osava fare un passo nè avanti, nè indietro, come se, tranne la voce, la povera bestia fosse istecchita nelle sue costole.