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della sua colpa era come mandare un uomo in galera. Un Pianelli in galera per la miseria di un migliaio di lire? Questo poi no, perdio!
Questo «no» risuonò nell’oscurità del suo pensiero proprio nel momento ch’egli usciva dalla via Alciato e rasentava il palazzo di Giustizia. In un baleno gli passarono per la mente tutti i processi celebri che aveva letto sul Secolo e che soleva discutere cogli amici sempre con grande animazione. Una volta o due la sorte l’aveva chiamato a far parte della giurìa e aveva potuto vedere da vicino tutto l’apparato di un processo col reo in gabbia su una panca di legno, cogli angeli custodi ai fianchi e il pubblico in faccia, il grosso, l’avido mostro dalle cento teste, che succhia cogli occhi l’anima e i pensieri d’un poveretto, ne conta con ferina voluttà tutti i tremiti, i sudori, i moti inconsulti, ridendo degli sforzi che fa per aggrapparsi nell’agonia dell’onor suo a ogni sterpo, a ogni fil d’erba che il destino gli manda sottomano.
— È cattiva la gente! — pensava torbidamente, mentre correva per le viuzze bistorte del Zenzuino e del Pasquirolo, due strade di catacomba.
Finalmente sbucò sul gran corso Vittorio Emanuele.
Si arrestò un momento per far tacere l’af-