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Sotto i trabalzi del suo passo pesante, il corpo di Giunone fremeva nelle strette fasciature dell’abito di raso, che mandava le fosforescenze della madreperla. Essa irradiava un calore di fornace, ansimava, sgocciolava sudore da tutti i capelli, ma voleva gridare anche lei ip, ip, ip, per mostrarsi briosa e pazzerella come le altre, come piaceva al suo Cesarino, senza che l’ombra d’un pensiero cattivo passasse a ottenebrare il candore latteo della sua bontà.
Al cessare della musica fece uno strano effetto il battere della pioggia furiosa contro i vetri.
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Cesarino era disceso in furia dalle scale, in furia traversò i portici e la piazza semibuia della Corte, verso piazza Fontana, senza quasi sentire la pioggia che veniva giù fitta e gelata.
Era l’ultima corsa.
Aveva pregato e supplicato fin troppo. La gente voleva la sua morte.
Non si uccide un uomo soltanto col ficcargli un coltello nel cuore, ma anche col metterlo nella necessità di perdere l’onor suo. Questo aveva fatto il Martini. Una volta che il Commendatore aveva nelle mani la prova