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Un impeto di nausea urtò a questa ripetuta idea lo stomaco, la vertigine lo colse, trasudò copiosamente per tutto il corpo, e sentì quasi un rovesciamento di tutti i visceri. Anche questo male passò presto: non poteva nè impazzire, nè morire, mio Dio!

Bisognava ch’egli si distruggesse proprio colle sue mani.

Soffiò sul lume e rimase al buio, raccolto, colla testa tra le mani, quasi a pregustare il gran buio eterno in cui stava per gettarsi.

Quando si scosse da quella profonda contemplazione, vide che un primo albore del giorno biancheggiava già sui vetri. Si alzò, aprì la finestra che dava sul cortiletto, guardò giù nella fonda oscurità delle pareti ancora umide e sgocciolanti di pioggia. Il vento fresco e leggero dell’alba rompeva qua e là la nuvolaglia del cielo e cominciava ad asciugare i tegoli. La luna usciva ancora a tempo per spargere sui tetti bagnati un raggio della sua luce tremula e falsa, una luce che faceva male al capo.

Cesarino sentì la nausea della vita e misurò ancora una volta coll’occhio la terribile profondità in cui stava per gettarsi capofitto. Ma in quel punto uscì e si mosse nel cortile un lume. Alcune voci si mescolavano al tonfo sonoro del secchio del lattivendolo. Non era più a tempo a gittarsi dalla finestra.