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che fermentavano nello stomaco, irradiando vampe di calore, circondavano la testa d’una fantastica tenebrìa, in cui balenavano delle fiamme e delle punte azzurrognole.

Guardò l’orologio. Erano le tre e mezzo dopo la mezzanotte.

Prese un giornale che trovò sul tavolino, ne scorse in fretta le pagine illustrate senza capire nulla di quelle grandi figure, senza quasi veder nulla; lo buttò via, girò uno sguardo scemo, aggrondato per la sala, appoggiandosi colle due mani sul divano, si sbottonò il soprabito, l’abito, il panciotto anche, e stette un minuto in un atteggiamento tra l’estatico, il tragico e l’ubbriaco, provando nella reazione alcoolica del doppio beverone ingoiato un’acuta e dolce vertigine, un senso di chi cade dall’alto nel vuoto, come prova chi si lascia dondolare cogli occhi chiusi sopra un’altalena.

Improvvisamente, parendogli che il tempo gli mancasse davanti, buttò i denari contati sul vassoio, saltò in piedi. Sulla porta si racconciò un poco i vestiti, guardò in su e in giù per la lunghezza del Corso, accese un mozzicone di sigaro, che trovò nel fondo di una tasca, e invece di piegare a mancina verso il Duomo, che era la strada più naturale per andare a casa, piegò a dritta verso il ponte del Naviglio.