Della consolazione della filosofia/Libro V
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Traduzione dal latino di Benedetto Varchi (1551)
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LIBRO QUINTO
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PROSA PRIMA.
Così detto aveva la Filosofia, e ad alcune altre cose trattare e spedire il filo volgeva del suo parlare. Allora io: Dritto è veramente, dissi, cotesto conforto, e della tua autorità degnissimo; ma io provo ora con effetto quello che tu poco fa dicesti, che la quistione della provvidenza è con molte altre giunta insieme e mescolata. Per che io ti dimando se tu pensi che il caso sia alcuna cosa veramente, e quello che tu pensi che sia. Allora ella: Io m’affretto, disse, di pagarti il debito della mia promessa, e aprirti la via per la quale tu a tua patria sii riportato. Ora queste cose, che tu mi dimandi, tuttochè siano utilissime a conoscere, sono però alquanto lontane e fuori del sentiero del proponimento nostro. Ed è da dubitare che tu, stanco di questi sviamenti d’andare fuori di strada, non sii bastevole a fornire il viaggio diritto. Di cotesto, risposi io, non bisogna che tu dubiti punto; perciocchè conoscere quelle cose, delle quali grandissimamente mi diletto, mi sarà in luogo di riposo, e quasi come un diporto. Similmente, essendo ciascun fianco della tua disputa chiaro apparito e da prestargli indubitatamente fede, non c’è cagione nessuna, per che delle cose che seguitano dubitare si debba. Allora ella: Io, rispose, ti compiacerò; e, questo detto, cominciò in cotal maniera: Se alcuno diffinisse il caso essere uno avvenimento temerario e non prodotto da concatenazione e legame alcuno di cagioni; io allora dico per fermo, che il caso veramente non è nulla. E che egli altro non sia che una voce, alla cui significazione non risponda in fatto cosa nessuna, giudico e determino. Perciocchè qual luogo può, costringendo Dio tutte quante le cose in ordine, alla temerità rimanere? perchè nulla esser di nulla è vera sentenza, alla quale niuno mai degli antichi contraddisse, benchè essi non del principio agente, cioè di Dio, ma del soggetto materiale, cioè della natura, ponendo ciò come un fondamento di tutte le ragioni, intendessero. Ma se di nessuna cagione alcuna cosa nascesse, questa che di nonnulla nata fosse, parrebbe. Or, se questo essere non puote, nè anco il caso può tale essere, chente, poco ha, fu da noi diffinito. Come? dissi io; dunque non è cosa alcuna, la quale si possa chiamare ragionevolmente caso o a caso? o pure se ne ritrova alcuna, alla quale, sebbene il volgo nollo sa, si convengono cotesti vocaboli? Il mio Aristotile, disse, brevemente e con ragione assai vicina al vero lo diffinì. In che modo? dimandai. Ogni volta, rispose, che alcuna cosa si fa per cagione d’alcuna cosa, e ne nasce per alcune cagioni alcuna altra cosa, che quella che si cercava che ne nascesse, cotale avvenimento fuori del’intenzione dell’operante si chiama caso: come se alcuno, zappando la terra per lavorarla, trovasse un tesoro sotterrato, questo si crede bene che sia avvenuto a caso, ma non è già nato di nulla; perchè ha le sue proprie cagioni, le quali, perciocchè sono concorse e convenute insieme senza che altri le vegga o vi pensi, fanno che si creda ciò essere stato a caso; perchè, se il lavoratore non avesse zappato la terra, e se colui, che la vi pose, non avesse in quel luogo appiattato la moneta, l’oro non vi sarebbe stato trovato. Queste sono dunque le cagioni di quel guadagno fortunevole, il quale da cagioni che s’incontrano l'una nell’altra, e concorrono insieme, e non dallo intendimento di colui, che opera, procede: perciocchè nè colui il quale nascose la pecunia, nè colui che lavorò il campo, ebbe intendimento che quei danari trovare si dovessero; ma s’abbattè insieme e concorse, come io ho detto, che dove colui sotterrò, quell’altro cavò. Laonde possiamo diffinire il caso essere uno avvenimento non pensato, il quale nasce da più cagioni, che s’incontrano insieme in quelle cose le quali ad alcuno effetto si fanno. E che quelle cagioni s’affrontino e accozzino insieme, fa quello ordine il quale, procedendo con inevitabile collegamento e discendendo dal fonte della provvidenza, tulle le cose ne’ debiti luoghi e tempi dispone.
LE PRIME RIME.
Là tra gli scogli dell’Armenia, dove,
Rivolto l’arco, a chi gli segue danno
3Fuggendo i Parti ognor ferite nuove,
D’un medesimo fonte origine hanno
E Tigre ed Eufrate; ma di poi,
6Disgiunte l’acque, scompagnati vanno.
Onde, se poscia i lor corsi amboduoi
Congiugnessero insieme, quel che in uno
9Cade, si trovería nell’altro poi.
E di questo e di quel le navi in uno
S’incontreríeno; e che il caso o la sorte
12Ciò fatto avesse stimería ciascuno.
E pur non son cotali incontri a sorte,
Perchè l’ordin del fiume il corso regge,
15Che in un l’accozza per vie chine e tôrte.
Così fortuna ha chi guida e corregge
Gli avvenimenti suoi, sebben par vada
18Libera e sciolta da ciascuna legge,
Dando e togliendo donde più le aggrada.
PROSA SECONDA.
Io vo considerando, risposi, e concedo che così sta la cosa, come tu di’; ma io vorrei sapere se in questo ordinamento di cagioni, le quali, dipendendo l’una dall’altra, sono concatenate insieme, si trova libertà alcuna del nostro arbitrio, o pure ancora i movimenti degli animi umani costrigne e lega quella catena fatale? Trovasi, rispose, perchè non può essere alcuna natura, che abbia la ragione, la quale non abbia ancora la libertà dell’arbitrio; perchè quello che può naturalmente usare la ragione, ha ancora il giudizio per lo quale ciascuna cosa puote per sè stesso discernere. Dunque egli e le cose che debbono fuggirsi, e quelle che sono da essere desiderate, conosce; ma ciascuno desidera quello che egli giudica che si debba desiderare, e fugge quello che stima doversi fuggire; per la qual cosa in tutti coloro, ne’ quali è la ragione, ne’ medesimi è ancora la libertà del volere e del disvolere: ma io non sentenzio già nè determino che questa libertà sia in tutti eguale; conciosiacosachè le sovrane sostanze e divine hanno il giudizio che vede il tutto, il volere che mai non si corrompe, e ’l potere presente di sempre conseguire tutto quello che desiderano. Ma l’anime umane è necessario che siano più libere quando elleno nella speculazione della mente divina si conservano, e meno quando sdrucciolano nei corpi, e meno ancora quando con le terrene membra si collegano. L’ultima servitù è quando, datesi a vizii, sono dalla possessione della loro ragion propria cadute; perciocchè, quando dalla luce della somma verità avvallano gli occhi alle cose sottane e tenebrose, incontanente dalle nebbie della ignoranza offuscate sono, e dalle passioni dannose dell’anima perturbate, alle quali accostandosi e consentendo, ajutano quella servitudine che esse medesime si procacciaro. E sono quasi dalla lor propria libertà fatte prigioni. Le quali cose nondimeno quello sguardo della provvidenza, il quale tutte le vede ab eterno, risguarda, e ciascuna secondo i suoi meriti predestinata dispone.
LE SECONDE RIME.
Omero, a cui le Muse
Dieder più dolce suon, ch’ad altri mai,
Loda del sole il puro lume e i rai;
I quai perciò la terra
5Dentro passar, nè con lor debil luce
Giugner del mare al basso fondo ponno:
Ma non così Colui che solo è donno
Dell’universo tutto, e in cui riluce
Quanto l’ultimo cerchio cuopre e serra.
10Questi dal sommo cielo
Mentre tutte le cose alto rimira,
Non la grossezza della terra, o scura
Notte, nè folta nebbia unqua gli fura
Il veder quanto posa e quanto gira
15Fuor d’ogni tempo e senza nessun velo.
Questi, posciachè solo
Il tutto vede e ’l tutto allumar suole,
Vero chiamar si puote e deve sole.
PROSA TERZA.
Allora io: Ecco, dissi, che di nuovo da una più malagevole dubbietà sono perturbato. E quale è cotesta dubitanza? rispose, perchè troppo bene m’avviso oggimai per quai cose tu sii perturbato. Troppo pare che sia contrario e ripugnante, risposi, che Dio antivegga tutte le cose, e sia nondimeno alcuno arbitrio di libertà. Perchè, se Dio vede ogni cosa, e non può essere in modo alcuno ingannato, egli è necessario che quello avvenga, che la provvidenza dovere avvenire preveduto avea. Laonde, se egli non solo i fatti degli uomini, ma eziandío i pensieri e le volontà preconosce, l’arbitrio nostro non avrà libertà nessuna; perciocchè niuno altro fatto potrà essere nè niuna altra volontà, se non quella cui la provvidenza divina, la quale ingannarsi non può, avrà presentito: perchè, se in altra parte, che in quella che prevedute sono, si possono storcere le cose, già non sarà dell’avvenire prescienza nessuna ferma, ma più tosto opinione e credenza incerta; il che di Dio credere giudico essere illecita cosa e nefanda: perciocchè io non approvo quella ragione, colla quale si credono alcuni di potere il nodo sciogliere di questa quistione, dicendo non perciò dover venire alcuna cosa, perchè la provvidenza lei dover venire ha preveduto; ma più tosto, per lo contrario, perchè alcuna cosa debbe venire, perciò non potere essere nascoso alla provvidenza divina. E in cotal modo questa necessità viene a ritornare tutta al contrario; perchè egli non è di necessità che quelle cose, le quali sono antivedute, avvengano; ma è di necessità che quelle cose, le quali debbano avvenire, si preveggano: come se propriamente noi brigassimo di sapere se la prescienza è cagione della necessità delle cose future, o la necessità delle cose future della provvidenza, e non ci sforzassimo di dimostrare, l’avvenimento delle cose prescite, cioè sapute innanzi, in che che modo stia l'ordine delle cagioni, esser necessario; cioè dovere di necessità avvenire le cose antivedute da Dio, ancorachè la prescienza, cioè il sapere Dio le cose innanzi, non paja che faccia che le cose future debbano avvenire necessariamente a ogni modo. Perchè, se alcuno siede, l’opinione che avvisa lui sedere, è necessario che vera sia; e per l’opposto, se l’opinione che alcuno siede è vera, è necessario che egli segga. Dunque nell’uno e nell’altro, cioè in amendue, è la necessità: nel primo è necessario il sedere; nell’altro l’opinione essere vera: ma non perciò siede alcuno, perchè l’opinione che egli siede è vera; ma più tosto è vera l’opinione, perchè egli di già prima siede. E così, non ostante che la verità proceda da una parte sola, è nondimeno in amendue una comune necessità. E che, come della provvidenza, così delle cose avvenire somigliantemente discorrere si possa è manifesto; perchè conceduto ancora, che le cose perciò si preveggano perchè elle debbono venire, e non perciò avvengano perchè elle prevedute siano, non per tanto è necessario o che Dio prevegga le cose future, o che le prevedute da lui avvengano: la qual cosa è bastevole sola a levar via e distruggere la libertà dell’arbitrio, per non dir nulla che molto fuor d’ordine sarebbe, e il rovescio appunto di quello che essere debbe, se l’avvenimento delle cose temporali esser cagione della prescienza eterna si dicesse. Ma che è altro arbitrare però Dio prevedere le cose future perchè elle hanno a venire, che pensare le cose, che di già avvenute sono, essere di quella somma provvidenza cagione? Oltra questo, sì come quando io so alcuna cosa essere, egli è necessario che ella sia; così, quando io so alcuna cosa dovere essere, è necessario che ella debba essere; onde séguita, che l’avvenimento della cosa antisaputa schifare non si possa. Ultimamente, se alcuno alcuna cosa altramente stimasse che ella non è, ciò non solamente non è scienza, ma è fallace opinione dalla verità della scienza molto lontana e diversa. Onde, se alcuna cosa dee avvenire, ma talmente che l'avvenimento suo non sia certo e necessario, che ella avvenire debba come si può antisapere? perciocchè, sì come essa scienza non è con falsità mescolata, così quello che da lei si concepe non può altramente essere, che come da lei si concepe; perchè la cagione, che la scienza manchi di menzogna, si è perchè ciascuna cosa così bisogna che sia, come la scienza essere la comprende. Che diremo dunque? in che modo preconosce Dio queste cose incerte dovere avvenire? Perchè se egli pensa che debbano senza fallo avvenire quelle cose le quali è anco possibile che non avvengano, egli è ingannato; il che non pur sentire col cuore, ma proferire colla voce è peccato irremissibile. Ma se egli, come elle sono, così le discerne dover venire, di maniera che egli conosce che elle possano così essere, come non essere; che prescienza è questa, la quale nessuna cosa certa, nessuna stabile comprende? Ovvero che differenza sarà da questo antivedere a quello indovinamento da beffe e ridicola profezía di Tiresia «tutto quello che io dirò, o egli sarà, o egli non sarà?» In che ancora sarà da più la provvidenza divina che l’opinione umana, se, come gli uomini fanno, giudica le cose incerte, l’avvenimento delle quali non è certo? Ora, se appo quel certissimo fonte di tutte le cose non può essere cosa nessuna incerta, l’avvenimento di quelle è certo, le quali egli dovere avvenire avrà fermamente saputo innanzi; onde a’ consigli e operazioni degli uomini non rimane alcuna libertà, poiché la mente divina, la quale senza errore di falsità vede tutte le cose, a uno avvenimento solo le lega e costrigne: la qual cosa se pure una volta si riceve e concede, vede ogn’uomo manifestamente quanto danno séguiti e quanto distruggimento alle cose umane tutte quante; perchè in vano si propongono a’ buoni i guiderdoni, e le pene a’ rei, posciachè nessuno movimento libero e volontario degli animi ha nè quegli nè questi meritato; e quello che ora è giudicato cosa giustissima, cioè punire i malvagi, e i buoni rimeritare, parrà più iniqua di tutte l’altre, poichè nè quegli al male, nè questi al bene propria volontà conduce, ma certa e infallibile necessità del futuro costrigne; nè i vizii dunque, nè le virtù alcuna cosa saranno, ma più tosto una di tutti i meriti mescolata e indistinta confusione. E quello, del che non si può pensare cosa alcuna più scelerata, procedendo ogni ordine d’ogni cosa dalla provvidenza, e non potendo nulla i consigli umani, ne segue che tutti i nostri vizii all’autore e capo di tutti i beni si riferiscano. E così non ci resta modo alcuno nè di sperare alcuna cosa, nè di dimandarla pregando; perchè che debbe o sperare alcuno, o chiedere con preghiere, se una ordinazione, la quale in modo nessuno piegare non si può, tutte le cose desiderevoli lega e annoda? Togliesi dunque quel commercio e levasi via quella pratica la quale è sola tra gli uomini e Dio, di sperare cioè e di pregare; posciachè noi, in guiderdone della nostra giusta umiltà, inestimabile vicenda e cambio della divina grazia meritiamo. Nel qual modo solo pare che possano gli uomini con Dio favellare, e a quella inaccessibile luce, ancor prima che l’ottengano, mediante il modo del supplicare congiugnersi. Le quali cose se noi, ammessa e conceduta la necessità delle cose future, crederemo che non abbiano forza nessuna; qual sarà quella cosa, mediante la quale a quel sommo principe di tutte le cose possiamo congiugnerci e appoggiarci? Laonde di necessità sarà che la generazione umana, come tu poco fa cantavi, partita e disgiunta dal fonte e principio suo, vada, come noi diciamo, per perduta, e si risolva in niente.
LE TERZE RIME.
Qual discorde cagione
Le leghe e i patti delle cose scioglie?
Qual Dio tal guerra tra due veri pone,
Ch'a quel che sta per sè medesimo e solo,
5Quando altro vero accolo,
Giugnersi insieme e mescolarsi toglie?
O più tosto tra loro
Non discordano i veri, anzi pur sempre
Certi e concordi son, dome mai fôro?
10Ma non può, chiusa in questo carcer cieco,
Col lume oppresso e bieco
Veder la mente tutte umane tempre.
Ma perchè tanto amore
L’arde di ritrovar quei che coperti
15Del vero porta segni entro, a tutte ore?
Sa ella quel che conoscer disia?
Ma chi quel, ch’ei sa, spia?
O fatica i non dubbii fare aperti?
E, se nol sa, che chiede?
20Chi può bramar quel ch’ei non seppe mai,
O seguir quel che non intende o vede?
Dove trovar? Come, trovato poi,
Conoscer pensi o vuoi
Un, che i tuoi occhi non mirâr giammai?
25Forse, quando vedea
L’alta mente su in cielo, il tutto insieme
E ciascuna per sè parte scernea:
Or chiusa in queste oscure e gravi membra
Solo il tutto rimembra,
30Ma di ciascuna cosa obblío la preme.
Dunque ciascun, che ’l vero
Cerca trovar, ben l’ha veduto in parte,
Non già del tutto lo conosce intero:
Ma quello universal, che in ciel comprese
35Membrando, fa palese
Ogni obblïata sua spezïal parte.
PROSA QUARTA.
Allora ella: Questa della provvidenza è, disse, quistione antica da Marco Tullio ne’ libri della Divinazione fortemente ricerca e abburattata, e cosa da te stesso lungamente e molto investigata, ma non già da alcuno di voi tanto diligentemente, infin qui, e tanto fermamente spedita, che basti. La cagione della qual nebbia e oscurità si è, che il movimento del discorso umano alla semplicità della divina prescienza appressar non puote; la quale se pensare in alcun modo si potesse, nulla rimarrebbe di dubbio: il che così finalmente d’aprire e spacciare tenterò, se prima avrò quelle cose spedito, per le quali tu ti muovi. Perchè io ti dimando per qual cagione tu pensi che la ragione di coloro, i quali solvono questa quistione, non sia efficace? La quale, perciocchè stima la prescienza non essere cagione di necessità alle cose future, reputa la libertà dell’arbitrio in niente essere dalla prescienza impedita: perciocchè nè tu ancora trai d’altronde l’argomento della necessità delle cose future, se non perchè quelle cose, le quali si preveggono e sanno innanzi, non possono non avvenire. Se dunque l'anticonoscenza, cioè il conoscere le cose innanzi, non aggiugne necessità nessuna alle cose future, la qual cosa tu ancora poco fa confessavi, qual cagione fa che le riuscite ed i fini volontarii si debbano a certo e determinato avvenimento di cose ristrignere? Perchè ponghiamo per cagion d’esempio, a fine che tu vegga quello che ne segua, che non sia prescienza nessuna. Dimmi dunque, quanto a ciò s’appartiene, le cose che da arbitrio procedono, sono a necessità ristrette? Mainò. Ponghiamo ancora che la prescienza sia, ma che ella non ponga necessità alle cose: egli, penso, rimarrà la medesima intera e assoluta libertà dell’arbitrio. Ma la prescienza, dirai tu, avvengachè non sia alle cose future necessità di venire, è nondimeno un segno che elle necessariamente siano per venire. In questo modo dunque, eziandío che la precognizione ovvero anticonoscenza non fosse stata, manifesto sarebbe gli avvenimenti delle cose future essere necessarii: perchè ogni segno mostra solamente che sia, ma non già fa essere, quello che egli dimostra; onde a voler mostrare la preconoscenza essere segno della necessità, bisogna prima mostrare nessuna cosa avvenire, la quale necessariamente non avvenga: altramente, se questa necessità non è, nè anco quella preconoscenza potrà essere segno di quella cosa la quale non è: senza che manifesta cosa è che le prove e ragioni dimostrative non da segni nè da argomenti di fuora cavati, ma da convenevoli cagioni e necessarie deono pigliarsi. Ma, come può essere, dirai, che quelle cose non avvengano, le quali dovere avvenire si preveggono? quasi come noi quelle cose, che la provvidenza dovere avvenire preconosce, crediamo non dovere avvenire, e non più tosto arbitriamo loro, sebbene avvengono, non però avere di sua natura alcuna necessità avuto, per la quale avvenire dovessero. La qual cosa tu dallo esempio, che io ti darò, leggiermente potrai conoscere. Molte sono quelle cose le quali, mentre che si fanno, vediamo farsi dinanzi agli occhi nostri, come quelle che nel guidare i carri e maneggiarli si vede che fanno i carradori; e il medesimo di tutte l’altre. Dimmi dunque: che alcuna di quelle cose in quella guisa si faccia è alcuna necessità che ne costringa? Certo no, risponderai, perchè indarno sarebbe l’effetto dell’arte, se tutte le cose forzatamente si movessero. Quelle cose dunque, le quali, quando si fanno, mancano della necessità dell’essere, le medesime, innanzi che si facciano, hanno bene a essere, ma senza necessità; e così sono alcune cose, le quali deono bene venire, ma il loro avvenimento è libero da ogni necessità; perchè quello non penso io che alcuno sia per dire, che quelle cose che ora si fanno, prima che si facessero non fossero future. Queste cose dunque, ancorachè preconosciute, hanno gli avvenimenti liberi; perchè, come la scienza delle cose presenti non apporta necessità nessuna alle cose che si fanno, così la scienza delle future nessuna n’apporta a quelle che fare si debbono. Ma questo è quello, dirai tu, di che si dubita, se di quelle cose le quali non hanno gli avvenimenti necessarii, possa essere alcuna precognizione; perchè a te pare che discordino queste cose, e pensi che, se le cose s’antiveggono, séguiti che necessariamente debbano avvenire; e che, se elle necessariamente non vengono, non si possano antivedere: e pensi ancora, che nessuna cosa si possa sapere, la quale non sia certa. Ora, se quelle cose che non hanno l’avvenimento incerto si prevedono come certe, manifesto è questo essere abbagliamento d’opinione, e non verità di scienza; perchè tu credi che giudicare la cosa in altra maniera, che ella non è, sia dalla interità della scienza molto diverso. La cagione del quale errore è, che tutte le cose che alcuno sa, stima di saperle secondo la natura solamente, e secondo la forza delle cose sapute: la qual cosa è tutto il rovescio; perchè tutto quello che si conosce, non secondo la virtù della cosa conosciuta, ma più tosto secondo la facoltà del conoscente si comprende: il che a fine che con breve esempio si faccia chiaro, una medesima ritondità di corpo altramente dal viso, altramente è conosciuta dal tasto: il viso, stando discosto, la vede, gittati i raggi, tutta quanta insieme; ma il tasto, appoggiandosi al tondo, e congiunto insieme seco intorno alla circonferenza del movimento, comprende la ritondità parte per parte. L’uomo ancora altramente dal sentimento, altramente dalla fantasia, altramente dalla ragione, e altramente è conosciuto dalla intelligenza; perchè il senso giudica la figura insieme colla materia, ma l’immaginazione giudica la figura sola senza la materia. La ragione ancora queste trapassa, ed essa spezie, ovvero forma, la quale è negli individui e particolari, comprende universalmente. L’occhio dell’intelligenza, cioè di Dio, è più alto, perchè ella salita sopra il cerchio dell’universalità, essa stessa semplice forma, colla sottilissima vista della sua pura mente risguarda. Nella qual cosa quello è da essere grandissimamente considerato, che la virtù, che comprende maggiori cose, abbraccia e comprende sempre anco le minori: ma non già per lo contrario; perchè la virtù inferiore in niun modo può alla superiore innalzarsi; perciocchè nè il senso può alcuna cosa fuori della materia, nè la fantasia conosce le spezie universali, nè la ragione la forma semplice comprende: ma l’intelligenza, quasi di sopra e da alto luogo riguardando, conceputa e compresa la forma, anche le cose che di sotto sono, conosce e giudica tutte; ma le comprende in quel modo, che ella la forma, la quale a null’altro esser nota poteva, comprende: perchè ella e l’universale, come la ragione; e la figura, come la fantasia; e la materia, come fa il senso, conosce; non usando nè la ragione, nè l’immaginazione, nè il senso, ma tutte le cose formalmente, per dir così, in un solo batter di mente veggendo. La ragione ancora, quando ella alcuno universale risguarda, comprende, senza usare l’immaginazione e i sentimenti, le cose della fantasia e del senso, perchè questa è quella la quale l’universale della sua concezione così diffinisce: L’uomo è animale di due piè, ragionevole; la qual nozione ovvero concetto essendo universale, niuno non sa quello esser cosa immaginabile e sensibile, che ella non colla immaginazione nè col senso, ma col concetto considera della ragione. La fantasía ancora, tuttochè dai sentimenti di vedere e di formare la figura prendesse principio, nondimeno ancora senza la presenza del senso vede ciascuna cosa sensibile, non che il senso le giudichi egli, ma la fantasía. Vedi tu dunque come tutte le cose usano nel conoscere più tosto la facoltà loro propria, che di quelle cose che si conoscono? Nè ciò senza ragione; perchè, conciosiachè ogni giudizio stia nell’atto di colui che giudica, egli è necessario che ciascuno l’opera sua, non secondo l’altrui, ma secondo il proprio potere, compia e fornisca.
LE QUARTE RIME.
Troppo severi e troppo oscuri vegli
Diede già quella setta
Che dal portico fu stoica detta.
Volean costor che nelle umane menti,
5Quasi in puliti spegli,
Le spezie de’ sensibili parventi
S’imprimessero in lor non altrimenti
Che le lettre con stil segna nel piano
Di bianca carta ben veloce mano.
10Or, se la mente nostra per sè stessa
Nulla giammai non opra,
Ma sol servire altrui la mette in opra,
Nè altro sa che, ricevendo i segni,
Render l’immago spressa,
15Come vetro, di che che in lei si segni,
Ond’è ’l vigor che negli umani ingegni
Tutte le cose insieme sol possiede?
Qual ciascuna per sè virtute vede?
Qual facoltà le conosciute pârte?
20Qual le partite accoglie?
Ond’or s’innalza alle superne soglie,
Or per contraria via nel centro scende?
Perchè or, ciascuna parte
In sè ristretta, a sè sè stessa rende,
25E ’l falso con ragion vera riprende?
Questa è via più cagione efficiente
Della materiale, e più possente.
Ma non perciò neghiam che innanzi vada,
Perchè svegli le forze
30Dell’alma, e quasi a moversi la forze,
Alcuna passïon nel corpo vivo:
Come par ch’egli accada
Quando l’occhio, per sè organ passivo,
Lume ferisce che lo rende attivo,
35O l’orecchie percuote suon che ratto
Dalla potenza le riduce all’atto.
Desto allor della mente il gran valore,
Le forme, ch’entro tiene,
Chiamando a simil movimenti, viene
40Ad applicarle a quei segni che ogn’ora
Gli son pôrti di fuore;
E per contrario l’ordin vôlto, ancora
A quelle spezie, che in lui fan dimora,
L’ immagin, che di fuor gli vengon, sempre
45Agguaglia e mischia con mirabil tempre.
PROSA QUINTA.
Ora, se l’animo nostro nel sentire e conoscere le cose corporali; dove le qualità offerte e pôrte di fuori conciano in un certo modo e immutano gli strumenti de’ sensi, e dove è necessario che, innanzi che il vigore dell’animo operi, preceda alcuna passione del corpo, la quale provochi in sè l’operazione della mente, e desti in parte le forme e immagini che dentro si riposano; se in sentire, dico, e conoscere le cose corporee l’animo nostro non s’impronta nè riceve in sè passione alcuna corporale, e nientedimeno per la forza e virtù sua propria la conosce e giudica; quanto maggiormente quelle cose le quali da tutti gli effetti e qualità de’ corpi sono libere, quale è Dio, non seguono, nel discernere e giudicare, le cose pôrte e offerte loro di fuori, ma operano secondo la natura propria della loro mente? E per questa ragione a diverse e differenti sostanze diverse cognizioni e differenti toccarono; perchè agli animali che non si muovono, come sono le conche del mare, e altri i quali, stando appiccati a’ sassi, si nutricano, toccò il senso solo spogliato di tutte l’altre cognizioni; alle bestie che si muovono, e nelle quali par che sia alcuno effetto di fuggire le cose nocevoli e seguitare le giovevoli, toccò l’immaginazione; ma la ragione fu data solamente al genere umano, come l’intelligenza sola al divino: onde segue, che quella notizia a tutte le altre stia di sopra, la quale per sua natura medesima non solamente il suo proprio, ma ancora i subbietti di tutte l’altre notizie conosce. Che dunque sarebbe, se il senso e la fantasia si opponessero al discorso e contrastassero, dicendo che quello universale, lo quale si pensa la mente di vedere, non è niente? Perciocchè quello che si può col senso comprendere o colla fantasia, non può essere universale; e così essere necessario o che il giudizio della ragione sia vero, onde non si trovi cosa nessuna sensibile; ovvero, perchè a’ sentimenti e alla fantasia è manifesto che molte cose si ritrovino, le quali loro sottoposte sono, che il concetto della ragione sia vano, posciachè ella quello, che è sensibile e singolare, quasi come uno universale considera. Alle quali cose se la ragione dall’altro lato rispondesse, dicendo che ella vede bene e quello che è sensibile e quello che è immaginabile, comprendendo tutte le cose che essi comprendono, con modo però universale, ma che eglino alla cognizione dell’universale aspirare non possono, perciocchè il loro conoscimento più oltre che comprendere le figure corporali trapassare non può; e che, trattandosi della cognizione, a quel giudizio si dee credere più tosto, il quale è più saldo e più perfetto: dunque in questa cotal lite noi, i quali abbiamo la potenza così del discorrere come ancora dello immaginare e del sentire, non terremo più tosto la parte della ragione, dandole il piato vinto? Somigliante a questa è, che la ragione umana non pensa che la divina intelligenza vegga le cose avvenire se non come conosce ella stessa; perchè tu argomenti in cotal maniera: se alcune cose sono, le quali certi e necessarii avvenimenti non abbiano, quelle certamente dover venire sapere innanzi non si può; dunque di cotali cose non è prescienza nessuna; e, se noi pure vogliamo credere che ancora in queste si ritrovi, nessuna cosa sarà, la quale di necessità non avvenga. Se noi dunque, sì come siamo partecipi della ragione, così il giudizio della mente divina potessimo avere, come abbiamo giudicato che il senso e la immaginazione debbano alla ragione cedere così, che la ragione umana alla mente divina s’inchinasse, e sè medesima sottomettesse, giustissima cosa riputeremo. Laonde all’altezza di quella somma intelligenza erghiamoci, se è possibile, perciocchè quivi vedrà la ragione quello che in sè non può risguardare, cioè in che modo ancora quelle cose, le quali gli avvenimenti certi non hanno, siano dalla certa e determinata prescienza di Dio conosciute; nè sia opinione questa, ma più tosto semplicità di quella somma scienza, la quale da nessuno termine non è racchiusa.
LE RIME QUINTE E ULTIME.
Di molte e varie forme
Calcan la terra diversi animali.
Questi con piatto steso corpo enorme
Spazzan, strisciando, col petto la polve,
5Che lungo solco lascia u’ che si volve;
Quei poscia con dipinte e leggiere ali
I lunghi spazii del largo aere a volo
Notando vanno, quai vaghi augelli;
Altri s’allegran di stampar nel suolo
10Della terra i vestigi, e con isnelli
Passi, quai fiere belve,
Saltare i campi e trascorrer le selve.
I quai tutti, sebbene
Diversi aver varie figure vedi,
15A ciascun d’essi nondimeno avviene
Che la faccia inchinata vêr la terra
Le sentimenta rintuzzate atterra.
Sol l’uom all’alte e sempiterne sedi
Erge la fronte, e con dritta statura
20Spregia la terra: or te, se in tutto stolto
Non sei, accorto fa cotal figura,
Che avendo gli occhi al ciel diritti e ’l volto,
L’alma v’indrizzi ancora,
Perchè il senso non regni, e ragion mora.
PROSA SESTA E ULTIMA.
Poscia dunque che, come s’è poco dinanzi dimostrato, tutto quello che si sa, non secondo la sua, ma secondo la natura di quegli che lo comprendono si conosce, vediamo ora, per quanto n’è lecito, qual sia lo stato della sostanza divina, acciocchè qual sia ancora la scienza di lei conoscere possiamo. Che Dio sia eterno è giudizio comune di tutti coloro che con ragione vivono. Consideriamo dunque che cosa eternità sia; perchè questa la natura divina e la scienza egualmente manifesta ne farà. E adunque l’eternità una possessione perfetta e tutta insieme d’una vita interminabile, che mai non debba venir meno; il che per comparazione delle cose temporali più chiaramente si palesa: perciocchè chiunque vive in tempo, questo, essendo presente, procede dal passato nell’avvenire; e niuna cosa è nel tempo posta, la quale tutto lo spazio della sua vita possa insieme parimente abbracciare; perchè quel di dimane non apprende ancora, e quello di jeri ha di già perduto; e ancora nella vita d’oggi non più che in quel mobile e transitorio momento, che si chiama presente, vivete. Quello dunque, che è alla condizione del tempo sottoposto, ancorchè egli, sì come del mondo giudicò Aristotile, non abbia mai cominciato ad essere nè mai fornisca, e la sua vita con infinità di tempo si distenda, non è per tutto ciò tale, che meritamente credere eterno si possa: perchè, sebbene egli comprende e abbraccia lo spazio d’una vita infinita, non però l’abbraccia e comprende tutto a un tratto; perchè le cose future per ancora e le passate oggimai non ha. Quello dunque, che pienezza di vita non terminabile tutta insieme comprende e possiede, cui niente del futuro manchi e nulla del preterito sia passato, ragionevolmente essere eterno si dice; e questo è necessario che, padrone di sè medesimo, sia sempre presente a sè stesso, e sempre abbia presente l’infinità del tempo mobile. Onde errano alcuni i quali, udendo che l’opinione di Platone fu che questo mondo non avesse mai cominciamento di tempo avuto, nè mai dovesse aver fine, si fanno a credere che a questo modo il mondo fatto venga a farsi coeterno al suo facitore; perciocchè altro è essere menato per vita interminabile, il che Platone al mondo attribuì, e altro che la presenza d’interminabile vita sia parimente abbracciata insieme tutta quanta: il che essere proprio della mente divina è manifesto. Nè debbe parere Dio più antico delle cose da lui fatte per la quantità di tempo, ma più tosto per la proprietà della semplice natura sua; perciocchè quello movimento infinito delle cose temporali va imitando questo di vita immobile stato presentario, cioè sempre e tutto insieme presente; e, non potendo ritrarlo nè agguagliarlo, manca della immobilità in movimento, e dalla semplicità della presenza cresce in infinita quantità di futuro e di preterito. E, conciosiachè egli tutta insieme la pienezza della sua vita possedere non possa, pare che con questo stesso, che egli in alcun modo mai non finisce d’essere, vada in qualche parte contraffacendo quello che egli non può del tutto adempiere e sprimere perfettamente, legandosi alla presenza, qualunque ella si sia, di questo picciolo e veloce momento; la quale, perciocchè alcuna somiglianza porta di quella presenza immobile, a qualunque cosa viene le dà il parere tale, cliente è ella: ma perchè star ferma ed essere immobile non puote, infinito viaggio di tempo si prese e tolse; e così avvenne che ella con lo andare quella via continovasse, la cui pienezza collo stare abbracciare non potette. Laonde se vogliamo, seguitando Platone, porre alle cose degni nomi e convenevoli, diciamo Dio veramente eterno, e il mondo essere perpetuo. Poscia dunque che ciascuno giudizio le cose, che sottoposte gli sono, secondo la sua natura comprende, e Dio ha il suo stato sempre eterno e tutto insieme presente, ancora la scienza di lui trapassando ogni movimento di tempo, nella semplicità della sua presenza sta ferma, e, infiniti spazii di preterito e di futuro abbracciando, tutte le cose, come se allora si facessero, nella sua semplice conoscenza considera. Se tu per tanto la prescienza di Dio, mediante la quale tutte le cose conosce, pesare vorrai, tu stimerai più dirittamente pensare che ella non prescienza sia quasi del futuro, ma scienza d’un presente, il quale mai non venga meno; onde ella non previdenza, ma provvidenza si chiama: perciocchè, lungi posta dalle cose basse, quasi da un’alta sommità vede tutte le cose. Perchè vuoi tu dunque che quelle cose necessariamente si facciano, che dal divino lume illustrate e vedute sono, conciosiachè nè gli uomini ancora facciano che quelle cose necessarie siano, le quali essi vedono? Perchè, dimmi, quelle cose che tu vedi presenti, aggiugne il tuo vederle alcuna necessità loro? mainò. E pure, se degno è agguagliare il presente divino coll’umano, come voi con questo presente temporale alcune cose vedete, così Dio col suo presente eterno le vede tutte. Il perchè questa preconoscenza divina la natura e proprietà delle cose non muta; e tali vede appo sè le cose presenti, chenti, quando che sia, nel tempo futuro avverranno: nè i giudizii delle cose confonde; e con un guardo solo della mente sua vede tutte le cose, così quelle che necessariamente deono venire, come quelle che necessario non è che vengano: non altramente che voi, quando in un tempo medesimo alcuno uomo andar per terra e il sole in cielo levarsi vedete; perchè, sebbene vedete l’uno e l’altro insieme, questo però essere volontario discernete, e quello necessariamente avvenire giudicate: così dunque l’occhio divino sguardando il tutto, non perturba la qualità delle cose, le quali appo lui sono ben presenti, ma quanto alla condizione del tempo future; onde nasce che, quando egli conosce alcuna cosa dovere avvenire, la quale medesima sa che non ha necessità d’avere a essere, questa non è opinione; anzi è cognizione sopra essa verità fondata. E, se tu qui dicessi: quello che Dio vede dovere avvenire, non può non avvenire; quello che non può non avvenire, è di necessità che avvenga; e mi volessi astrignere a questo nome di necessità; io ti confesserò una cosa, la quale è bene saldissimamente vera, ma tale che appena alcuno, se già non fosse contemplatore delle cose divine, acconsentirla potrebbe. Perchè io risponderò: quel medesimo futuro essere, quando si riferisce alla conoscenza di Dio, necessario; e, quando nella propria natura sua si considera, libero al tutto e sciolto parere. Perciocchè due sono le necessitadi: una semplice, come è quella quando diciamo, egli è necessario che tutti gli uomini siano mortali; l'altra condizionale, come, se tu sai che alcuno vada, egli è necessario che egli vada. Perchè quello che alcuno conosce, altramente, che egli il conosce, essere non può: ma questa condizione non si tira dietro quella necessità semplice; perchè questa necessità non la fa la propria natura, ma la aggiunta della condizione. Perchè nessuna necessità costrigne ad andare uno che di sua propria volontà cammina, benchè lui andare, mentre che cammina, sia necessario; così nel medesimo modo appunto, se alcuna cosa vede presente la provvidenza, è necessario che ella sia, non ostante che ella di sua natura alcuna necessità non abbia. Ma Dio, potresti tu dire, quei futuri, che dalla libertà dell’arbitrio procedono, vede presenti. Questi dunque, se alla vista si riferiscono di Dio, divengono necessarii mediante la condizione del conoscimento divino; ma se per lor medesimi si considerano, della sciolta libertà della loro natura non mancano. Fannosi dunque senza dubbio alcuno tutte quante quelle cose, le quali Dio doversi fare anticonosce; ma alcune di loro da libero arbitrio procedono, le quali benchè avvengano essendo, non però perdono la loro natura propria; perchè, innanzi che si facessero, sarebbono eziandío potute non avvenire. Che monta dunque, dirai tu, e qual differenza fai che elle necessarie non siano, se elle rispetto alla condizione divina avvengono in tutti i modi, nè più nè meno, che se necessarie fossero? In ciò, rispondo, sono differenti, che, come quelle cose che io poco fa ti misi avanti, il sole quando nasce e l’uomo quando va, le quali, mentre che elle si fanno, non possono non farsi, e nondimeno una di loro ancora innanzi che ella si facesse era necessario che fosse, ma l’altra non già; così medesimamente quelle cose, le quali Dio ha presenti, saranno senza dubbio: ma di loro questa dalla necessità delle cose discende; l’altra dalla potestà procede di coloro che la fanno. Dunque non a torto dicemmo queste cose, se alla notizia divina si riferiscano, essere necessarie; se per sè si considerino, essere da’ legami sciolte della necessità, sì come tutto quello che è alle sentimenta palese, se tu alla ragione lo riduci, è universale; ma, se verso sè stesso lo risguardi, è particolare. Ma se in mio potere è, dirai tu, mutare proponimento, io annullerò e renderò vana la provvidenza; perchè muterò per avventura quelle cose che ella innanzi avrà conosciute. A questo risponderò, che tu puoi ben rivolgere il proponimento tuo; ma perchè la presente verità della provvidenza divina vede e che tu ciò puoi, e se tu ’l debbi fare, e dove ti rivolgerai, dico che tu la divina prescienza schifare non puoi; sì come tu non puoi fuggire che uno occhio, che ti sia presente, non ti vegga, dato che tu, avendo la volontà libera, a fare varie cose ti rivolga. Come? dirai tu, dunque si muterà per la disposizione mia la scienza divina, talchè secondo che vorrò io or questa cosa or quell’altra, ella ancora alterni e muti le vicende e volte del conoscere? Certo no; perciocchè lo sguardo divino precorre qualunque futuro, e alla presenza della propria cognizione lo ritorce e richiama: nè muta, come stimi tu, le vicende del conoscere or questa cosa or quella; ma in un batter solo le tue mutazioni, stando esso fermo, previene e abbraccia: la qual virtù e potestà di comprendere tutte le cose, e vederle presenti, non dall’avvenimento delle cose future ebbe Dio, ma dalla sua propria semplicità. Onde ancor quello si risolve, che tu poco innanzi ponesti, essere cosa indegna che i futuri nostri si dicano essere cagione della scienza di Dio; perchè questa forza e virtù di sapere, tutte le cose con presenziale conoscimento abbracciando, pone essa il modo e la misura all’altre cose tutte quante: ma non è già ella alle cose di poi obbligata punto. Le quai cose così stando, intera rimane ai mortali la libertà dell’arbitrio; nè le leggi ingiustamente e guiderdoni e pene propongono, essendo da ogni necessità sciolta e libera la volontà. Rimane ancora Dio, il quale sa innanzi tutte le cose, e tutte dal di sopra le risguarda, e l’eternità della visione sua sempre presente colla futura qualità dell’opere nostre concorre, a’ buoni, premii, e ai malvagi, tormenti dispensando. Nè sono in Dio poste indarno le speranze e preghiere di noi mortali; le quali, quando dirette sono, essere inefficaci non possono. Inimicate dunque i vizii, fuggendovi da loro; esercitate e onorate le virtù; innalzate a giuste speranze l’animo; umili preghiere a Dio su in alto porgete. Grande necessità, se infingere non vi volete, v’è stata imposta di dovere essere buoni; posciachè dinanzi agli occhi di quel giudice operate, il quale vede tutte le cose.
FINE DEL QUINTO ED ULTIMO LIBRO.