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derdoni, e le pene a’ rei, posciachè nessuno movimento libero e volontario degli animi ha nè quegli nè questi meritato; e quello che ora è giudicato cosa giustissima, cioè punire i malvagi, e i buoni rimeritare, parrà più iniqua di tutte l’altre, poichè nè quegli al male, nè questi al bene propria volontà conduce, ma certa e infallibile necessità del futuro costrigne; nè i vizii dunque, nè le virtù alcuna cosa saranno, ma più tosto una di tutti i meriti mescolata e indistinta confusione. E quello, del che non si può pensare cosa alcuna più scelerata, procedendo ogni ordine d’ogni cosa dalla provvidenza, e non potendo nulla i consigli umani, ne segue che tutti i nostri vizii all’autore e capo di tutti i beni si riferiscano. E così non ci resta modo alcuno nè di sperare alcuna cosa, nè di dimandarla pregando; perchè che debbe o sperare alcuno, o chiedere con preghiere, se una ordinazione, la quale in modo nessuno piegare non si può, tutte le cose desiderevoli lega e annoda? Togliesi dunque quel commercio e levasi via quella pratica la quale è sola tra gli uomini e Dio, di sperare cioè e di pregare; posciachè noi, in guiderdone della nostra giusta umiltà, inestimabile vicenda e cambio della divina grazia meritiamo. Nel qual modo solo pare che possano gli uomini con Dio favellare, e a quella inaccessibile luce, ancor prima che l’ottengano, mediante il modo del supplicare congiugnersi. Le quali cose se noi, ammessa e conceduta la necessità delle cose future, crederemo che non abbiano forza nessuna; qual sarà quella cosa, mediante la quale a quel sommo principe di tutte le cose possiamo congiugnerci e