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cia alla mano fina, dalle unghie che parevano di alabastro rosa. A Cosima pareva una di quelle figure romantiche che le piacevano nelle vignette di qualche antica edizione di Chateaubriand, possedute da Santus; così, un giovine sventurato, preso da una segreta passione, che si smarrisce nella solitudine di un tramonto campestre e appoggiato al riparo di un precipizio, o seduto sul tronco abbattuto di una quercia, fra tralci d’edera e rupi coperte dal fiore del muschio, medita sulla sua triste sorte. Triste, certo, era la sorte del giovine Fortunio, e il cuore di Cosima non poteva non accoglierne l’eco, fra le voci poetiche che le raccontavano l’eterna poesia del dolore umano: e così, quando la comitiva prese la via del ritorno, lasciando lo sventurato poeta solo appoggiato alla roccia della sorgente, intento a sentirne anche lui il mormorìo melanconico, fra le ombre già dorate del crepuscolo, ella si sbandava, a capo chino, mentre le compagne si ricorrevano nello stradone e cantavano e ridevano come figlie di contadini, al ritorno dal lavoro dei campi.

Sorge la luna, fra i denti del monte, sopra i macigni che dànno l’illusione delle rovine di un castello: il suo chiarore lilla si fonde con quello arancione dell’orizzonte; l’odore della vegetazione inumidisce l’aria tiepida; canti lontani rispondono a quelli delle fanciulle che accompagnano e trasportano sull’ala del loro coro la tristezza indistinta di Cosima.