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100 | grazia deledda |
Non vedendo ritornare le bozze l’editore scrisse quasi seccato, richiedendole corrette. Allora Cosima si decise a correggere i molti errori di stampa, e sentì la prima tortura di ricercare le doppie lettere sul frusto vocabolario che era appartenuto a suo padre e ancora aveva odore e macchie di tabacco da naso; ma le correzioni ella le fece in un modo nuovo, mai veduto, cioè non sul margine del foglio, sibbene sul corpo stesso delle parole errate; talché ne germogliò una fioritura selvatica di sgorbi, un groviglio che terrorizzò il tipografo destinato a sbrogliarlo. L’editore decise di non mandare le ulteriori bozze alla scrittrice, ma le richiese una fotografia da mettere sulla porta del romanzo.1
Di fotografie Cosima ne possedeva solo una, che era stata anch’essa una delle prime sue disillusioni personali. S’era voluta fotografare coi capelli sciolti, col vestito nuovo color viola di mezzo lutto e il fermaglio d’argento al collo: ne era venuta una immagine torva, corrucciata, con gli occhi selvaggi, la bocca sdegnosa, il petto legnoso; la prima deformazione della sua personalità spirituale, che sotto le asprezze fisiche dell’adolescenza ella sentiva invece bella e fina. Era abbastanza vanitosa per non pensar neppure di mandare quel cupo ritratto di sé stessa ad affacciarsi all’apertura del suo libro di sogni: ma farne un altro era un po’ difficile, ed anche dispendioso. Forza e coraggio, e sopra tutto astuzia: altri mezzi litri di olio e di vino furono