Commedia (Buti)/Paradiso/Canto IV

Paradiso
Canto quarto

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Paradiso - Canto III Paradiso - Canto V
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C A N T O     IV.

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1Intra du’ cibi distanti, e moventi1
     D’ un modo, prima si morria di fame,
     Che libero om l’ un si recasse ai denti.
4Sì si starebbe uno agno intra du’ brame2
     Di fieri lupi, equalmente temendo:
     Sì si starebbe un cane intra du’ dame.
7Per che s’ io mi tacea, me non riprendo,
     Da li miei dubbi equalmente sospinto,3
     Poich’ era necessario, nè commendo.
10Io mi taceva e ’l mio disir dipinto4
     M’ era nel viso, e ’l dimandar con ello
     Più chiaro assai, che nel parlar distinto.5
13Fesi Beatrice, qual fe Daniello,
     Nabuccodonosor levando d’ ira,
     Che l’ avea fatto iniustamente fello;
16E disse: Io veggo ben come ti tira
     Uno e altro disio, sì che tua cura
     Sè stessa lega sì, che fuor non spira.

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19Tu argomenti: Se ’l buon voler dura,
     La violenzia altrui per qual cagione6
     Di meritar mi scema la misura?
22Ancor a dubitar ti dà cagione
     Parer tornarsi l’anime a le stelle,7
     Secondo la sentenzia di Platone.
25Queste son le question, che nel tuo velle8
     Si pontano equalmente; e però pria
     Tratterò quella, che più à di felle.
28Dei Serafin colui, che più s’ india,
     Moises, Samuel, e quell’ Ioanni,9
     Qual prender vuoli, io dico, non Maria,10
31Non ànno in altro Cielo i loro scanni,
     Che quelli spirti, che mo t’appariro,11
     Nè ànno all’ esser lor più o men anni;
34Ma tutti fanno bello il primo giro,
     E differentemente àn dolce vita,
     Per sentir più o men l’ eterno spiro.12
37Qui si mostraro, non perchè sortita
     Sia questa spera lor; ma per far segno
     De la celestial, ch’ à men sallita.
40Così parlar conviensi al vostro ingegno:
     Perocchè solo da sensato apprende
     Ciò, che fa possa d’ intelletto degno.13
43Per questo la Scrittura condescende
     A vostra facultate, e piede e mano
     Attribuisce a Dio, et altro intende;

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46E santa Chiesa con aspetto umano
     Gabbriel e Michel vi ripresenta,14
     E l’ altro che Tobbia rifece sano.
49Quel, che Timeo dell’ anime argomenta,
     Non è simile a ciò, che qui si vede:
     Perocchè, com’ ei dice, par ch’ ei senta.15
52Dice, che l’ alma a la sua stella riede,
     Credendo quella quinde esser decisa,
     Quando Natura per forma la diede.
55E forse sua sentenzia è d’ altra guisa,
     Che la voce non suona, et esser puote
     Con intenzion da non esser derisa.
58S’ elli intende tornar a queste ruote
     L’ onor della influenzia e ’l biasmo, forse
     In alcun vero suo arco percuote.
61Questo principio male inteso torse
     Già tutto ’l mondo quasi, sì che Iove,16
     Mercurio e Marte a nominar trascorse.
64L’ altra dubitazion, che ti commuove,
     A men venen: però che sua malizia
     Non ti porria menare da me altrove.17
67Parer iniusta la nostra iustizia18
     Ne li occhi de’ mortali è argomento19
     Di Fede, e non d’ eretica nequizia.
70Ma perchè puote vostro accorgimento
     Ben penetrare a questa veritate,
     Come desiri, ti farò contento.

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73Se violenzia è quando quei che pate,
     Niente conferisce a quei che sforza,20
     Non for quest’ alme per esso scusate:21
76Che volontà, se non vuol, non s’ammorza;
     Ma fa come Natura face in foco,
     Se mille volte violenzia il torza;22
79Perchè s’ ella si piega assai o poco,
     Segue la forza, e così queste fero,
     Possendo ritornar nel santo loco.23
82Se fusse stato lor voler intero,
     Come tenne Lorenso in su la grada,
     E fece Muzio alla sua man severo;
85Così l’ avria ripinte per la strada,
     Onde eran tratte, come fuoron sciolte;24
     Ma così salda vollia è troppo rada.25
88E per queste parole, se ricolte
     L’ài come dei, è l’ argomento casso,
     Che t’ aria fatto noia ancor più volte.26
91Ma or ti s’ attraversa un altro passo
     Dinanti a li occhi tal, che per te stesso27
     Non n’ esceresti, pria seresti lasso.28
94Io t’ ò per certo nella mente messo,
     Ch’alma beata non porria mentire:
     Però che sempre è al primo Vero appresso.29
97E poi potesti da Piccarda udire,
     Che l’ affezion del vel Gostanza tenne,30
     Sì ch’ ella par qui meco contradire.

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100Spesse fiate già, frate, adivenne,
     Che per fuggir perillio contra grato31
     Si fe di quel, che far non si convenne.
103Come Almeone, che di ciò pregato
     Dal padre suo, la propria madre spense,
     Per non perder pietà si fe spietato.
106A questo punto vollio, che tu pense,
     Che la forza al voler si meschia, e fanno32
     Sì, che scusar non si posson l’ offense.
109Vollia assoluta non consente al danno;
     Ma consentevi ’ntanto, quanto teme,
     Se si ritrà, cader in più affanno.33 34
112Però quando Piccarda questo spreme,35
     Della vollia assuluta intende; et io
     De l’ altra sì, che ver diciamo insieme.
115Cotal fu l’ ondeggiar del santo rio.
     Ch’ uscì del Fonte, ond’ ogni ver deriva;
     Tal puose in pace uno e altro disio.
118O amanza del primo amante, o diva,
     Diss’ io appresso, il cui parlar m’ innonda
     E scalda sì, che più e più m’avviva;
121Non è l’ affezion mia sì profonda,
     Che vasti a render voi grazia per grazia;36 37
     Ma Quei, che vede e puote, a ciò risponda.
124Io veggio ben, che giammai non si sazia
     Nostro intelletto, se ’l Ver nollo lustra,38
     Di fuor dal qual nessun vero si spazia.

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127Posasi ’n esso, come fera in lustra,
     Tosto che iunto l’ à; et iunger pollo:39 40
     Se non, ciascun disio serebbe frustra.41
130Nasce per quello a guisa di rampollo
     A piè del vero il dubbio; et è Natura,
     Ch’ al sommo pinge noi di collo in collo.42
133Questo m’invita, questo mi sigura43
     Con riverenzia, donna, a dimandarvi44
     D’ un’ altra verità, che m’ è oscura.
136Io vo saper, se l’ om può sodisfarvi
     Ai voti manchi sì con altri beni,
     Ch’ a la vostra statera non sian parvi.
139Beatrice mi guardò co li occhi pieni
     Di faville d’ amor, con sì divini,
     Che, volta mia virtù, diede le reni,
142E quasi me perdei colli occhi chini.

  1. v. 1. C. A. duo cibi
  2. v. 4. C. A. due
  3. v. 8. C. A. Dalli miei dubbi d’ un modo sospinto,
  4. v. 10. C. A. tacea; ma il mio
  5. v. 12. C. A. Più caldo assai che per
  6. v. 20. C. A. qual ragione
  7. v. 23. C. A. l’ anima
  8. v. 25. Velle; infinito alla guisa latina, del quale servivansi talora i nostri classici. Truovasi nel Frezzi « Il vostro velle il puote ritenere » E.
  9. v. 29. C. A. Moisè.....Giovanni,
  10. v. 30. C. A. Che prender
  11. v. 32. C. A. questi
  12. v. 36. C. M. C. A. più e men
  13. v. 42. C. A. poscia
  14. v. 47. C. A. rappresenta,
  15. v. 51. come dice, per che senta,
  16. v. 62. C. A. Giove,
  17. v. 66. Porria; dall’infinito pore; addoppiata la r secondo costumavano talora gli antichi nei futuri di taluni verbi, seguendo l’ antico francese: onde abbiamo porrò, crederrò; porria, porrebbe: crederria, crederrebbe. E.
  18. v. 67. C. A. ingiusta la nostra giustizia
  19. v. 68. C. A. Agli occhi
  20. v. 74. C. A. conferisco a quel,
  21. v. 75. C. A. Non fur queste alme per essa
  22. v. 78. Torza; torcia, perchè gli antichi scambiarono talora il c in z, come lanza, prenze, trezza per lancia, prence, treccia. E.
  23. v. 81. C. A. Potendo rifuggire al
  24. v. 86. C. A. furo
  25. v. 87. C. A. voglia
  26. v. 90. C. A. t’avria
  27. v. 92.C. M. Dinansi
  28. v. 93. C. A. ne usciresti, pria saresti
  29. v. 96. C. A. sempre al primo Vero è presso.
  30. v. 98. C. A. della Costanza
  31. v. 101. C. A. periglio
  32. v. 107. C. A. e il voler si mischia,
  33. v. 111. Ritrà; dall’ infinito ritrare, come fa, sta da fare, stare. E.
  34. v. 111. C. A. Se si ritrae,
  35. v. 112. C. A. quello spreme,
  36. v. 122. Render voi: a voi. modo ellittico non infrequente presso gli antichi e qui fa bel giuoco, perchè 1’ a sta innanzi all’ infinito pure preceduto da questa particella. E.
  37. v. 122. C. A. basti
  38. v. 125. C. A. non lo illustra,
  39. v. 128. giunto l’ à; e giunger puollo:
  40. v. 128. Pollo; po quello o ciò. In antico si disse po; ma oggi si accetta solo può o puote. E.
  41. v. 129. C. A. ogni disio sarebbe
  42. v. 132. Collo; colle, per una certa ragione d’ uniformità ridotto alla desinenza in o, come confessoro e confessore, mantaco e mantace. E.
  43. v. 133. C. A. mi assicura
  44. v. 134. C. A. con revenza

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C O M M E N T O


Intra du’ cibi distanti, e moventi; ec. In questo quarto canto lo nostro autore finge come per le cose dette di sopra elli era intrato in due dubbi li quali equalmente lo movevano, e per ciò non sapeva da quale incominciare; ma Beatrice cheli vidde quelli dubbi nella mente, lieli solve amenduni 1. E però questo canto si divide in due parti: imperò che prima finge come, stando equalmente desideroso di dichiararsi di due dubbi e non sapendo 2 da quale dovesse incominciare: tanto era lo desiderio equale, Beatrice rincominciò [p. 114 modifica]parlare e dirli li suoi dubbi et incominciò a dichiarare prima d’uno dubbio, e dichiaratolo incominciò la dichiaragione dell’altro; nella seconda parte finge come Beatrice dichiarò l’altro, et incominciasi quine: Se violenzia ec. La prima, che serà la prima lezione, si divide in sei parti: imperò che prima finge con alquante similitudini com’elli aveva due dubbi per le cose dette di sopra da Piccarda, e non sapea da quale incominciare, e così si stava e non parlava, e 3 sapendo li dubbi suoi, per ch’ella li vedeva la mente, lieli scoperse senza aspettare ch’elli parlasse, et incominciasi la seconda parte quine: Fesi 4 Beatrice; ec.; nella terzia parte, come Beatrice incominciò a solvere uno di quelli due dubbi, et incominciasi quine: Dei Serafin colui ec.; nella quarta parte finge come Beatrice si scusa del parlare grosso che li conviene fare a lui, per darli ad intendere quello ch’ella vuole dire, e come la sentenzia di Platone a tal modo si potrebbe intendere che sarebbe vera, et a tal modo che no, e cominciasi quine: Cosi parlar ec.; nella quinta parte dichiara Beatrice in che modo la sentenzia di Platone 5 potrebbe essere vera, e l’errore che se ne incorse non intendendosi bene, et incominciasi quine: E forse sua sentenzia ec.; nella sesta parte finge come Beatrice cominciò a solvere l’altro dubbio, et incominciasi quine: L’altra dubitazion ec. Divisa la lezione, ora è da vedere lo testo colla esposizione litterale, allegorica, o vero morale.

C. IV — v. 1-12. In questi quattro ternari l’autor nostro finge come per le parole dette di sopra da Piccarda elli era intrato in due dubbi, dei quali avea equale desiderio d’avere dichiaragione; e pertanto non sapea da quale incominciare, nè potea: imperò che secondo lo Filosofo tra li equali beni non cade elezione e così tra li equali mali, se l’omo è in sua libertà. E questo dimostra per tre esempli, dicendo così: Intra du’ cibi distanti e moventi D’un modo; cioè se uno omo libero, che non fusse costretto da violenzia, fusse posto in mezzo di du’ cibi li quali li fussono parimenti di lungi: imperò che essendo l’uno più presso che l’altro, per l’agio pillierebbe lo più presso, e che movessono l’appetito di pari, e però dice: D’un modo: imperò che se l’uno piacesse più che l’altro, non è dubbio ch’elli pillierebbe qual più piacesse, prima si morria di fame; cioè che l’uomo libero che non fusse forzato: imperò che se fusse sforzato converrebbeli seguitare la forza, Che libero om l’un si recasse ai denti; cioè di quelli due cibi, intra quali elli fusse, per [p. 115 modifica]mangiarlo. E questo s’intende, dovendo pilliare pur l’uno: imperò che, dovendoli pilliare amenduni 6, non è dubbio che li pillierebbe amenduni 6 inanzi che lassarsi morire di fame; ma dovendo pilliare pur l’uno essendo in piacere equalmente l’uno come l’altro, e di lungi l’uno come l’altro, veramente si lasserebbe morire di fame: imperò che è impossibile che tra le cose in ongni modo equali sia eleggimento. E posta questa sentenzia, che è del Filosofo, la conferma anco per due esempli; cioè dello agnello 7 e del cane, dimostrando per lo primo esemplo che come la elezione non è tra du’ beni equali così non è anco elezione tra du’ mali equali, convenendosi eleggere l’uno; e per lo secondo esemplo conferma quello che è detto prima, che non è elezione tra du’ beni equali dovendosi pilliare pur l’uno, dicendo: Sì; cioè per sì fatto modo, si starebbe uno agno; cioè uno agnello, intra du’ brame; cioè grandi fami, Di fieri lupi; cioè che non saprebbe qual più si temesse di quelli due periculi, cioè o dell’una brama o dell’altra di quelli fieri lupi; e però convenendoli eleggere uno di questi due pericoli, non potrebbe 8 essere de equali per la ragione detta di sopra; cioè ch’elli fusseno equalmente distanti, e la vista dei lupi e la ferità fusse temuta equale, equalmente temendo; cioè l’agnello si starebbe in mezzo e non potrebbe eleggere, posto ch’elli avesse elezione a qual parte si volesse accostare di quelli lupi per la parità del periculo; ma essendo l’uno periculo minore che l’altro, cadevi elezione: imperò che sempre si elegge lo men male: imperò che, benchè lo male non si possa eleggere: imperò che la voluntà non può volere lo male se non è ingannata, parendoli che sia bene; niente di meno lo men male s’elegge perchè à ragione di bene. E posto lo esemplo che conferma la sentenzia prima nel suo contrario; cioè che non è possibile essere elezione di schifare tra du’mali equali; la qual cosa conferma quello che detto è, che non può essere elezione di pilliare tra du’ beni equali; la qual cosa dice, essendo lo desiderio equale sì che non s’ingannasse più dell’uno che dell’altro, adiugne l’esemplo secondo a prova del primo detto; cioè che tra du’ beni equalmente amati e possibili ad avere 9 equalmente, non può essere elezione convenendosi pilliare pur l’uno, dicendo: Sì; cioè per sì fatto modo e per sì fatta cagione, si starebbe un cane intra du’ dame: lo cane da caccia è perseguitatore dei dami 10 e delle fiere; ma dice l’autore dame, perchè così si chiama in Grammatica 11; e disse più di queste fiere, perchè sono timide et agevilmente si [p. 116 modifica]pilliano dai cani: imperò che, avendo detto d’altre fiere feroci, si sarebbe potuto intendere che ’l cane fusse stato in mezzo equalmente temendo, come l’agnello tra lupi. Et elli per questo conferma la sua prima sentenzia che lo cane si starebbe in mezzo di due dami distanti e moventi equalmente l’appetito del cane, che non s’accostrebbe nè all’uno nè all’altro, come l’omo tra cibi equalmente distanti e moventi l’appetito sensa toccare l’uno o l’altro. Per che; cioè per la qual cosa, cioè per la ragione sopra detta, s’io; cioè s’io Dante, mi tacea; cioè mi stava cheto e non dimandava Beatrice, me non riprendo; cioè io non mi riprendo del mio tacere, perch’io sono sensato per la ragione già detta: imperò ch’io aveva due dubbi per le parole di Piccarda generati nella mia mente, dei quali pari desiderio avea d’avere la dichiaragione; e però non potea eleggere da quale io dovesse incominciare, perchè pari era lo desiderio, equalmente sospinto; cioè solicitato da li miei dubbi, Poich’era necessario; cioè ch’io tacesse, perchè lo libero arbitrio non poteva eleggere, nè commendo; cioè non mi lodo: imperò che, benchè io avessi equale desiderio dell’uno come dell’altro; pur era tra quelli due dubbi, che avea più pericolo a non esserne dichiarato che l’altro; e però non m’è onore ch’io non me ne avvedesse: imperò che s’io me ne fussi avveduto, da quello arei incominciato, e però ben dice che non se ne commenda: imperò che non avvedersi l’omo della cosa della quale si dè avvedere non è scusa; ma accusa. E però molti poco savi, credendosi scusare quando ànno fallito, diceno: lo non me ne avviddi et elli s’accusano. Io; cioè Dante, mi taceva; cioè mi stava 12 e non dimandava per la cagiono detta di sopra, e ’l mio disir; cioè lo mio desiderio, dipinto M’era nel viso; cioè era dipinto a me nel volto lo mio desiderio, ch’io avea d’avere la dichiaragione di quelli due dubbi, e ’l dimandar con ello; cioè insieme col mio desiderio era dipinto nel volto mio l’addimmidare. E questo finge l’autore, perchè si dice dai savi: Noscitur in vultu hominis secreta voluntas, per mostrare questa moralità; che nella faccia si mostrano le passioni principali che l’omo àe dentro; cioè allegrezza, dolore, speranza e timore; ma allegoricamente s’intende che Beatrice, che significa la santa Teologia, cioè la sapienzia creata dalla sapienzia increata, quando ammaestra o guida l’omo che a le’ 13 si dà, lo guida.14 e ammaestra per mezzo della grazia illuminante d’Iddio, sensa la quale niuno dono può intrare nell’anima umana. E però alcuna volta Beatrice figura la santa Scrittura, alcuna volta la Grazia Divina, la quale ci benefica 15, e [p. 117 modifica]la grazia d’Iddio sa e vede ongni concetto umano che è nella mente et ogni desiderio: imperò ch’ella è quella che li spira. E però finge l’autore che Beatrice vedesse nel volto suo; cioè nella voluntà sua, lo desiderio della dichiaragione di quelli dubbi, perchè ella l’aveva nella sua menta ispirato così lo dubitare come lo dimandare apertamente, e però dice: Più chiaro assai; m’era dipinto nel viso, che nel parlar distinto; cioè più chiaro e aperto si vedeva da Beatrice nel mio concetto che non si vedrebbe nel mio parlare diviso: imperò che quello, che ’l concetto concepe insieme, lo parlar lo profferisce diviso; et Iddio vede e sa mellio li nostri concetti che non sappiamo noi pensare nè col parlare esplimere 16. Ò trovato io alcuno testo che dice: Più caldo assai; cioè più fervente; ma la prima sentenzia credo che sia milliore.

C. IV — v. 13-27. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come Beatrice incominciò a parlare, rispondendo ai dubi dello autore proponendoli prima amenduni, dicendo: Fesi; cioè fece sè, Beatrice; cioè la mia guida, qual fe; cioè sè, Daniello; cioè Daniel profeta, levando d’ira 17 Nabuccodonosor; re di Babillonia levando dall’ira sua, Che; cioè la quale ira, l’avea fatto; cioè Nabuccodonosor, iniustamente fello; cioè corruccioso contra ragione, cioè la detta sua ira. E però è qui da sapere che nella Bibbia nel libro di Daniel profeta nel capitulo secondo è scritto come Nabuccodonosor re di Babillonia somniò 18 una notte uno somnio molto meravillioso, che dimostrava le cose che doveano venire 19 dei regni del mondo delle etadi, come appare nel predetto libro, del quale in nessuno modo si potea ricordare. Unde, mandato per li suoi savi e 20 arioli e magi, commandò loro che li dicesseno lo sogno che avea fatto la notte; e quelli si scusorno che non gli poteano dire; ma s’elli dicesse lo songno elli li direbbono la interpretazione. Allora commosso ad ira comandò ad Ariot, principe della sua milizia che tutti li savi di Babillonia dovesse uccidere. Uscito fuora della città Ariot e fatto mettere in prigione li savi per lo comandamento del re, e sparta la novella per la citta, Daniel dimandò Ariot, per che cagione lo re faceva uccidere li savi; et udita la cagione, tornò ai suoi compagni Sidrac, Misac et Abdenago, e disse loro la sentenzia del [p. 118 modifica]re; unde si gittorno in orazione a Dio, e pregornolo che dovesse mostrare la sua sapienzia e la sua potenzia; e fatta l’orazione et andati a dormire, Iddio rivelò a Daniel lo songno e la sua interpetrazione e però la mattina andò ad Ariot e disse che none uccidesse li savi di Babillonia: imperò ch’elli voleva dire lo sogno al re. Allora Ariot lo introdusse al re; et elli li disse come da Dio aveva avuto la notizia del suo sogno e la interpretazione, e disseli per ordine lo sogno e la sua interpretazione; cioè come aveva sognato ch’elli vedea una statua che avea lo capo d’oro, el collo e le spalle d’ariento et il petto di rame infine alle gambe, e le gambe avea di ferro, e l’un piè di terra cotta e l’altro di ferro; e come una pietra percotea questa statua nel piè e tutta la spezzava, e questa pietra cresceva in uno grande monte. E ditto lo sogno, li disse la sua interpretazione, dicendo che l’avea avuto da Dio, dandone gloria a lui. Allora lo re, ricordandosi del sogno e vedendo che la interpretazione era vera, la quale chi la vuole sapere leggala quine, magnificò Iddio e fece grandi onori a Daniel e fu placato dell’ira sua che avea conceputo contra li savi. E però dice l’autore che tale si fe Beatrice a lui, quale si fe Daniel a Nabuccodonosor: imperò che, sì come Daniel si fece narratore del songno che non sapea narrare elli, nè i suoi savi indivinare 21, e disseli la interpretazione; per la qual cosa cessò l’ira che avea contra li savi, così Beatrice disse li dubbi a l’autore ch’elli avea conceputo nella mente e non li poteva dire, perchè non sapeva da quale incominciare e solvetteli poi amenduni 22. E però qui arrecò questo esemplo l’autore, perchè veniva a suo proposito. E disse; cioè Beatrice a Dante: Io; cioè Beatrice, veggo ben come ti tira; cioè te Dante, Uno e altro disio; cioè 23 due desidèri, sì; cioè per sì fatto modo, che tua cura; cioè tua sollicitudine, Sè stessa lega; cioè impaccia et occupa, si; cioè per si fatto modo, che fuor non spira; cioè non esce fuora della tua mente; ma sta pur dentro. Ecco che incomincia a manifestare li dubbi: Tu; cioè Dante, argomenti; dentro da te: Se ’l buon voler dura; come appare nelle parole di Piccarda dette di sopra; cioè: Dio lo si sa qual poi mia vita fùsi, e di Gostanza: Non fu dal vel del quor giammai disciolta - La violenzia altrui; cioè la forza fattami d’altrui, per qual cagione Di meritar mi scema la misura; cioè manca lo mio merito? E questo è lo primo dubbio, et ora adiungne lo secondo dicendo: Ancor a dubitar ti dà cagione; cioè a te Dante, Parer tornarsi l’anirne a le stelle; poi che questi spiriti beati furno veduti da te nel globo lunare, Secondo la sentenzia di Platone: imperò che Platone in uno libro 24, che si [p. 119 modifica]chiama Timeo, pone che Iddio nel principio della creazione del mondo creò tutte l’anime 25 umane e ciascuna accompagnò colla sua stella, e ch’elle descendono di cielo in cielo e coniungensi ai corpi; e quando l’omo muore, selli è stato virtuoso, l’anima 26 rimonta di cielo in cielo, in fin che torna alla sua stella; e così poi anco discende secondo la virtù celeste, et incorporasi ancora, e così dice che è circulare processo dell’anime; e se viveno 27 disonestamente si purgavano colle pene, e poi purgate ritornavano a la sua stella. E pittagora tenne che andassono vagando di corpo in corpo, vivificando ancora li corpi brutali infino a tanto che fussono purgate e poi ritornasseno alle stelle, e però dice Beatrice secondo che finge Dante: secondo la sentenzia di Platone. Queste; cioè le quali io ò detto, son le question; cioè due, che; cioè le quali, nel tuo velle; cioè; nella tua voluntà, Si pontano; cioè poggiano, equalmente; in tanto che tu non sapevi da quale incominciare, e però pria; cioè prima, Tratterò; cioè determinandola, quella; cioè questione, che; cioè la quale, più à di felle; cioè più à di veleno e d’amaritudine, cioè quella che è più pericolosa, cioè l’ultima: imperò che induce errore nella fede, e però dice che vuole quella prima determinare.

C. IV — v. 28-39. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come Beatrice prima incominciò a solvere lo dubbio secondo, che era più pericoloso: imperò che era contra la fede, dicendo che quelle anime che nella spera lunare si rappresentano sono in cielo quine, dove sono li santi nel cospetto di Dio; ma quine si rappresentano per sengno, cioè che come la spera lunare è più bassa che l’altre tutte; così quelli beati sono nella celestiale corte in più basso grado che vi sia; e che sia licito di dire quel che non è per sengno lo dimostra nella sequente parte. Dice così: Dei Serafin: li serafini sono lo supremo ordine delli agnoli e sono più presso a Dio che nessuno altro ordine, e però dice di questo ordine: colui; cioè quello angelo del detto ordine, che; cioè lo quale, più s’india; cioè più participa della beatitudine creata da Dio 28, e più s’accosta a lui, Moises; per costui intende lo patriarca: imperò che questo fu guidatore per lo diserto del popolo d’Iddio 29 e liberatore della servitù di Faraone, Samuel; questo fu profeta, e per questo intende li profeti, e quell’Ioanni, Qual prender vuoli; cioè o lo Batista o lo Vangelista, e per questo intende lo stato de’ contemplativi e dei vergini 30, io dico, non Maria; cioè la Vergine Maria madre di Cristo; questa adiungne per eccellenza: imperò ch’ella è sopra tutti cori dei santi [p. 120 modifica]e delli agnoli: tutti questi sopradetti Non ànno in altro Cielo i loro scanni; cioè le loro sedie, nelle quali stanno perpetualmente beati Che quelli spirti; cioè Piccarda e Gostanza e li altri dello stato matrimoniale, che; cioè li quali, mo; cioè a vale, t’apparirò; cioè apparittono a te Dante nella spera della Luna: imperò che tutti sono in uno medesimo cielo, Nè ànno all esser lor; cioè a la durabilità loro ne la beatitudine che serà perpetua, più o men anni; che abbiano quelli spiriti che t’apparirono nella spera lunare: imperò che così serà la loro vita perpetua 31 in quella beatitudine, come quella delli agnoli e dei santi di sopra nominati. Ma tutti; cioè li beati che sono in vita eterna, fanno bello il primo giro; cioè lo primo cielo empireo, nel quale sono come splendori rilucentissimi più che il sole sì, che il cielo di loro viene adornato come s’adorna la città de li onorevoli et ornati cittadini. E differentemente àn dolce vita: imperò che ciascuno à beata vita, piena di diletto e di contentamento tanto quanto ne cape nel suo vagello: sì che, ben che l’uno sia in più basso grado che l’altro et abbia meno beatitudine, così si contenta di quella che à come colui che n’à più: et à allegrezza di colui che n’à più e letizia, e non ne vorrebbe più: imperò che è quietato lo suo appetito, Per sentir più o men l’eterno spiro; ecco la cagione, perchè disse di sopra differentemente: imperò che l’eterna beatitudine, la quale Iddio eterno spira nei suoi santi, che è la grazia sua, l’amor suo, è data parimente a tutti quanto dalla parte di Iddio; ma quanto dalla parte dei ricevitori è ricevuta in quantità più grande da chi è stato di maggior merito, et in meno grande da chi è stato di minor merito, secondo la continenzia del suo vasello: imperò che ciascuno n’à tanto, quanto in lui ne cape; e però disse: Per sentir; cioè per ricevere, più o men l’eterno spiro; cioè l’eterna beatitudine che Iddio spira in loro; e notantemente disse spiro, e dicesi d’Iddio spirare: imperò che32, come noi spirando non manchiamo nella nostra virtù vitale; così Iddio spirandola beatitudine 33 in lui non manca, nè non cresce. Et assegna la cagione, per che quelli beati spiriti si mostrarono nella spera lunare, dicendo: Qui; cioè in questa spera lunare, si mostraro; cioè li detti spiriti, non perchè sortita; cioè data in parte, Sia questa spera; cioè lunare, lor; cioè alli detti spiriti, ma per far segno; cioè per fare segno, De la celestial; cioè sedia, ch’à men sallita34; cioè la quale à minore sallita, cioè per mostrare che, come questa spera lunare è la prima spera che trovi chi monta suso e la più bassa di tutte le spere celesti; così la [p. 121 modifica]sedia loro nel cielo empireo è la prima che si truovi e la più bassa che vi sia; e questa è la cagione, perchè li beati 35 si rappresentano in questo spere celesti, non perchè stiano quine; ma per mostrare lo grado in che sono in vita eterna. Che Beatrice solvesse la questione nel detto modo è fizione dell’autore, e però dobbiamo vedere come questa fizione si debbia intendere: imperò che Beatrice, che significa la santa Teologia, non dice questo, nè li Teologi lo direbbono, dunqua che volse dire l’autore se non che, come la santa Scrittura parla alcuna volta sotto figura, come si mosterrà di sotto, per dare ad intendere ai grossi ingegni, et una cosa si dice et altro s’intende; così volse dire che parlava elli in questa parte dei beati, che finge che si rappresentino nei corpi celesti, per dare ad intendere sotto questa figura li gradi che ànno in vita eterna. E perchè questo si può fare e fassi nella santa Scrittura, però finge che Beatrice lo dica; e questo è secondo la lettera; secondo l’allegoria si può dire ch’elli intende di quelli che sono in questa vita, che sono dell’animo purgato et ànno quelle virtù che all’animo purgato s’appartegnano, quale è tanto sopra li altri uomini, che 36 la dubitazione sua mentale si può dire alta infine al cerchio della Luna; cioè al primo grado di vita eterna, siccome quelli che santamente vivono in matrimonio, e così poi delli altri infino al nono grado: imperò che come sono nove li ordini delli angioli; così diceno li Teologi che sono 37 nove li gradi de’ beati di vita eterna. E come l’autore à detto allegoricamente nelle cantiche precedenti di quelli di questa vita, e litteralmente di quelli dell’altra fingendo; così ora in questa cantica, fingendo secondo la lettera, dice che montò di spera in spera e vidde; la qual cosa fu mentale e non corporale; e questo secondo la lettera è verisimile fingendo ch’elli fusse guidato su da Beatrice, che è la sapienzia che è dono d’Iddio che non viene sensa la sua grazia, e colla sua grazia possibile è lo montamento mentale e corporale a chi Iddio lo volesse concedere, bench’elli montasse pure colla mente; dunqua lo suo montamento, secondo la lettera, fu mentale; e le cose fitte 38 oltra la verità della Teologia sono dette sotto figura litteralmente o allegoricamente da lui per quelli del mondo; e quelle, che sono dette secondo la verità della Teologia, sono dette litteralmente [p. 122 modifica]per li beati che sono in vita eterna. E pertanto quando l’autore finge che Beatrice solvesse lo dubbio, secondo la lettera, intese allegoricamente ch’elli, ammaestrato dalla sapienzia creata dalla sapienzia increata, considerasse che molti omini di santa vita nello stato matrimoniale erano tanto sopra li altri stando in questa vita, che elli si potevano dire abitare nella spera della Luna, cioè nel primo 39 grado de’ beati di vita eterna colla mente, in questo mondo stando per grazia. E ch’elli dica ch’elli vedesse Piccarda e Gostanza e li altri che erano morti non è altro a dire, se non che sono nel primo 40 grado della beatitudine per gloria: imperò che quando furno in questa vita si poteano dire abitare in quella spera per eccellenzia di vita appresso li altri di quello stato, li quali purgati poi verranno a simile grado di beatitudine. E che questa fizione sia conveniente, lo dimostra nella seguente parte.

C. IV — v. 40-54. In questi cinque ternari finge lo nostro autore come Beatrice, seguitando lo suo ragionamento, conferma quello che detto à di sopra per esemplo; cioè che molte cose si fingeno che non sono per dimostrare per quelle fitte 41 alcuna verità, sicchè la cosa fitta è segno della vera. E questo finge l’autore che lo dica Beatrice, et elli lo dice ammaestrato da Beatrice, che è la sapienzia creata che insegna a parlare allegoricamente, e figurativamente ad intendere a’ grossi ingegni; e però dice così Beatrice: Così; cioè per sì fatto modo, ponendo una cosa in segno d’una altra, parlar convienisi al vostro ingegno; cioè di voi omini, Perocchè solo da sensato apprende; cioè solamente dalla cosa, che per lo sentimento si comprende, pillia cognoscimento et apprensione, Ciò; cioè ogni cosa, che; cioè la quale, fa possa degno d’intelletto; cioè lo ingegno pillia delle cose sensate lo cognoscimento della cosa, sopra la quale lo intelletto fa poi la sua operazione dello intendere: imperò che dice lo Filosofo: Nihil est in intellectu, quod prius non fuerit in sensu; e così ci sono mostrati li sopra detti spiriti nella spera della Luna, perchè tu intenda che sono nel primo grado della celestiale beatitudine, come la Luna è la prima spera celeste. E però lo nostro autore àe finto che Beatrice li dica questo, perchè la sapienzia li à mostrato et insegnato ch’elli faccia sì fatta fizione, e che per quella dimostri la sua intenzione: imperò che la santa Scrittura ancora tiene sì fatto modo di parlare; e però dice: Per questo; cioè per considerazione della debilezza del vostro ingegno, la Scrittura; cioè santa, condescende A vostra facultate; cioè alla vostra possibilità dello ingegno; et alcuno testo à: A vostra42 feviltà; cioè debilezza, e piede e mano Attribuisce a [p. 123 modifica]Dio; che non è vero che Iddio abbia piedi e mano: imperò che Iddio è sustanzia incorporea, sicchè non à corpo nè membra, et altro intende; cioè la santa Scrittura: imperò che per li piedi intende la voluntà e la benivolenzia, e per le mani intende l’opere e la potenzia. E santa Chiesa; cioè la corte di Roma, che è capo della chiesa, vi ripresenta; cioè ripresenta a voi cristiani, cioè lascia e permette rappresentare a voi cristiani, Gabbriel e Michel; cioè quelli due agnoli, dei quali Gabriel fu dell’ordine dei serafini, e Michel fu dell’ordine degli arcagnoli, con aspetto umano; cioè con apparenzia di giovani; ma alati, per mostrare la loro leggerezza; senza piedi, per mostrare che non sono corporei, sicchè se si muoveno si muoveno coll’ ale della voluntà loro, che altre ale non ànno, et anco per mostrare che la loro voluntà è confermata in grazia, sicchè non possono volere se non quel che vuole Iddio, cioè lo bene. E perch’elli ci li 43 rappresenta così la santa Chiesa? Perchè li omini grossi, che sono la maggior parte, non intendrebbono altramente che si fusseno, e 44 così à permesso che si facciano l’immagini dei santi per più movere li animi de li omini a devozione, come li Romani, 45 come dice Salustio, faceano le statue a coloro che aveano operato eccessiva virtù, perchè la memoria di quella virtù durasse et accendesse li animi di coloro che le vedesseno, a seguitare simili virtù e maggiori. E l’altro; cioè agnolo, che; cioè lo quale, Tobbia; cioè quel profeta, rifece sano: imperò che li levò le squame dalli occhi che l’avevano fatto cieco e riebbe la vista; lo quale agnolo si nominò a lui Raffael. Leggesi nella Bibbia nel libro, che si chiama Tobia, che nel tempo che ’l popolo d’Iddio fu preso e menato in servitù del re di Siria e di Media, nella città di Ninive si trovò uno iusto uomo, Tobia nominato della schiatta de’ Neptalini, lo quale amava Iddio e per lo suo amore esercitava l’opere della misericordia in verso li bisognosi, et era molto largo della sua facultà ai poveri. Questo ebbe uno figliuolo lo quale fu nominato ancora Tobia per lo nome del padre, e fu simile in virtù al padre; et essendo questo padre Tobia di 56 anni, rivescio46 caddeli insù li occhi dal nido delle rondini lo sterco loro; per la qual cosa accecò e venne in necessità sì che conveniva alla donna sua, che avea nome Anna, che col tessere nutricasse lui e sè e lo figliuolo, e spesse volte lo rampognava di quello che aveva dato a Dio; onde, elli ricorse a Dio, pregandolo devotamente che ’l dovesse cavare di quelle pene. Et, esaudita la sua orazione, Iddio li misse in cuore che mandasse lo figliuolo nella città di Rages dei Medi, nella [p. 124 modifica]quale era uno suo parente della schiatta sua per nome Gabelo, al quale andando in quelle parti avea accomandato certa quantità d’ariento, e colui gli avea fatto scritta di sua mano 47; et apparecchiò al giovano l’angelo Raffael in specie di uno giovano che l’accompagnasse et ammaestrasse nel cammino di quel che dovesse fare: imperò che, dicendo Tobia al figliuolo: Io voglio che vadi in Rages per li tali denari, e porta questa scritta; rispuose lo giovano: lo non vi saprei andare; ma io uscirò in piazza e saprò se nessuno vi va, et accompagnerommi con lui. Et, andato in piazza, si li presentò inanzi l’angelo Raffael in specie d’uno bello giovano; e, dimandato da Tobia se li voleva fare compagnia in Rages, elli lo pagarebbe, e l’angelo disse che sì; unde elli lo menò al padre, lo padre liel raccomandò , et informato lo fatto li licenziò che dovessono andare. E messi in viaggio et iunti al fiume Tigri, lavandosi lo giovano li piedi, li venne uno pescio a dosso, lo quale l’angelo comandò ch’elli pilliasse e sparasse e pilliasse lo cuore e ’l fele, e l’avanzo insalasse per averlo a mangiare nella città, e le intestina riservasse. Et, andando al loro cammino, pervenneno alla detta città che si chiamava Rages dei Medi, nella quale era uno fratello primo cugino del padre che si chiamava Raguel, che avea una sua filliuola che si chiamava Sarra che l’avea maritata a sette giovani, li quali la prima notte che erano stati con lei, inanti che a lei si congiungessono, erano stati morti da uno dimonio che si chiamava Asmodeus. Unde Tobia, ammaestrato dall’angelo, andò a casa di questo suo parente e dimandolli la filliuola per moglie 48, et ebbela; e col cuore del pescio arso in sulla bruma cacciò quello dimonio da Sarra, e l’angelo lo legò nello diserto interiore d’Egitto, e tre notti stette in orazione Tobia colla donna sua Sarra, secondo lo comandamento dell’angelo, e la quarta notte si congiunse con lei. Et in questo mezzo l’angelo andò a Gabelo sopra detto, che non era nella città allora, per invitarlo alle nozze di Tobia, e per l’ariento depositato; e, tornato con esso, tornorono in Nini ve colla sposa e colla metà di ciò che avea Raguel, servi, bestiami e pecunia. E tornato a casa, secondo l’ammaestramento che li avea dato l’angnolo, col fele del pescio che avea serbato, unse li occhi del padre, et uscittene fuora allora a modo che uno pannicello d’uovo lo quale Tobia prese con mano e tironnelo fuora, et allora Tobia riebbe la vista, et era stato senza essa quattro anni, sicchè allora si trovò Tobia di 60 anni; e tornato lo fillio e la nuora [p. 125 modifica]con la grande ricchezza a casa, l’angelo si manifestò loro e sparittesi via. E visse poi Tobia, più che non era vissuto, in grande felicità; e dopo la morte sua e della madre tornò Tobia giovano a Raguel suo suocero, e seppellitte lui e la sua donna, e rimase erede d’ogni cosa; c così appare che Raffael fu l’angiolo che risanò Tobia, lo quale la santa Chiesa rappresenta in forma di giovano. Quel, che Timeo; cioè Platone nel libro, che si chiama Timeo 49, dell’anime argomenta; cioè ch’elle siano create da Dio e poste a stelle 50 a loro adequate, e quinde discendono 51 et incorporansi, e poi quine ritornino alla sua stella ciascuna, Non è simile a ciò, che qui; cioè in questo luogo, si vede; di questi spiriti, che ti si sono mostrati, Perocchè, com’ei; cioè com’elli, dice; cioè Platone nel detto libro, par ch’ei; cioè pare che elli, senta; cioè così intenda: imperò che, benchè parli a questo modo, potrebbe avere sotto questo parlare intenzione 52 che serebbe buona. Dice, che l’alma; cioè dice Platone in quello libro, che l’alma; cioè che l’anima, a la sua stella riede; cioè alla sua costellazione ritorna, Credendo; cioè Platone, quella; cioè anima, quinde; cioè da quella stella, esser decisa; cioè essere partita, Quando Natura; cioè la natura naturata, secondo questa oppinione: imperò che la natura naturante la creò prima et accompagnòla colla stella sua, per forma la diede; cioè quella anima al corpo ch’ella vivifica, e fa omo. Acciò che mellio s’intenda questo 53 che Platone disse in Timeo, debbiamo sapere che li Filosofi antichi; cioè alquanti, tenneno che al principio, quando Iddio creò lo mondo, creasse ancora l’anime umane e ciascuna ponesse colla sua stella nell’ottava spera dove sono le stelle fisse, acciò che vedessono e contemplassono lo ragionevile movimento del firmamento, e con isperanza e desiderio di somma beatitudine s’incorporasseno e reggessono li corpi secondo lo moto del firmamento ragionevilmente, quando ad incorporarsi discendesseno; e, stanti in quello cielo libere dal bruttamento del corpo, possedessono lo cielo et avessono perfetto cognoscimento delle cose passate, presenti e future; ma quella che intrasse in pensieri d’avere la vita terreste e la corpulenzia ch’ella vedea quaggiù in terra, stante nella sua altezza solamente per lo carico di quello pensieri, a poco a poco incominciava a descendere e pilliava corpo chiaro, sidereo; e descendendo di quello primo cielo, venia nel cielo, ovvero spera di Saturno, e quine si copria rotandosi e volvendosi con quel pianeto lo suo vestimento, e perdea della perfezione che prima seco avea arrecato, sicchè quine si vestiva del torpore e pigrezza perdendo [p. 126 modifica]della sua agilità; e quinde poi scendea in Iove, e rivolgendosi con esso pilliava della cupidità del regnare e signoreggiare, e di quella si vestia; e poi in Marte e rotandosi con esso prendea veste da lui d’iracundia; e poi discendeva nella spera del Sole, e da lui voltandosi con lui prendea desiderio di scienzia; e poi discendea in Venere, e rotandosi con lui pilliava da lui lo desiderio 54 della concupiscenzia e d’amore; poi descendea in Mercurio, e volgendosi con lui pilliava da lui lo desiderio delle ricchezze; e poi discendea ine la Luna, e rotandosi con essa pigliava da lei la incostanzia e volubilità; e poi passando per l’etere si disponeva già a sostenere l’esercitazioni delle virtù politiche; e poi passando per l’aire infimo, nel quale sono le turbazioni de le piogge, de le nievi, de le grandine, de’ tuoni e de’ venti, si disponea a sostenere le mutazioni mondane; e poi vestita del corpo grave e tenebroso perdeva ogni suo primo sapere e rimanevali l’attività e la potenzia; ma non l’atto. E diceano che ’l cielo del firmamento àe due porte; l’una in Cancro, unde si fa lo descenso; e l’altra in Capricorno, unde si fa l’ascenso; e che in Leone era la coppa di Bacco, della quale bevendo perdevano lo loro sapere. E dicevano che se l’uomo vivea virtuosamente, l’anima uscita del corpo si ritornava per quello medesimo modo, lassando nelle spere dei pianeti quello che nel descenso da loro avea preso; e beevano della coppa di Bacco, sicchè dimenticavano tutte le cose passate, e così si ritornavano quale a la compare stella, e quale, secondo lo merito, passava più su in divinità. E diceano che quelle che male vivevano, sensa tornare in suso, erravano di corpo in corpo cento anni vivificando li corpi bruti, secondo lo loro demerito, tanto che ritornavano in omo di sì fatta vita che meritavano di sallire, e poi di ritornare secondo la necessità del fato, e tanto si dovea fare questa revoluzione circulare, che tutte le buone fusseno passate in divinità; e le rie al tutto, che erano fuora d’ogni virtù, diceano essere punite in eterno. Questa è oppinione di quelli Filosofi: secondo ch’ella suona è falsa; ma adattandola come si dovrebbe 55 adattare, si potrebbe fare vera in questo modo; cioè che Iddio, quando fece lo cielo stellifero, a ciascuna stella diede la sua virtù che avesse a cagionare l’unione dell’anime umane ch’elli dovea creare 56 ai corpi, quando elli in essi le creasse; e così ai pianeti le loro virtù che influessono nell’anime umane, secondo che detto è. E che ritornino si dè intendere dalla virtù della influenzia della stella e del pianeto, che si ritorna unde [p. 127 modifica]viene 57; cioè la loda di sì fatta operazione e di sì fatta influenzia, come l’autore nostro dira di sotto nella parte che seguita.

C. IV — v. 55-63. In questi tre ternari lo nostro autore finge come Beatrice, poi che ebbe dimostrato a Dante che la sentenzia di piatone e de’ Filosofi che sì parlonno non era a quel modo che l’apparizione delli spiriti appariti di sopra nel globo lunare, secondo la sua fizione, avendo lo intelletto che detto fu di sopra, li dimostrò che la sentenzia di Platone, che diceva l’anime tornare alle stelle, si potrebbe verificare intendendola altremente ch’ella suoni, dicendo così: E forse sua sentenzia; cioè di Platone detta di sopra, che l’anime umane tornino alle stelle, è d’altra guisa; cioè d’altro modo e d’altra forma, Che la voce non suona; cioè che le parole non dicono, et esser puote Con intenzion da non esser derisa; cioè schernita la sentenzia di Platone; e dichiara come: S’elli; cioè Platone, intende tornar a queste ruote; cioè a queste revoluzioni del cielo e dei pianeti, L’onor della influenzia; cioè l’onore de l’attività, che è cagionata nell’anima umana da la virtù dei corpi celesti, e ’l biasmo: imperò che similmente si rende ancora lo biasmo, forse in alcun vero; cioè in alcuna verità, suo arco percuote; cioè sua sentenzia si dirizza, cioè intendendo che l’omo sia inclinato; ma non necessitato: imperò che, se ciò fusse, non sarebbe merito nè demerito; ma l’uomo può vincere tale inclinazione, e però dice: Sapiens dominabitur astris, e massimamente aiutandolo la grazia d’Iddio, la quale aiuta chiunqua la dimanda divotamente e con buon cuore. Questo principio; cioè che l’anima torni alla sua stella, male inteso: imperò che fu inteso da molti pur secondo le parole, e non secondo la intenzione, torse; cioè dalla verità, Già tutto ’l mondo quasi: imperò che tutti erano dati li omini ad idolatria, salvo che’l popolo d’Iddio, sì che Iove; che è lo secondo pianeto 58, perchè a lui credean tornare e non a Dio, Mercurio; che è lo sesto pianeto, e Marte; che è lo terzo pianeto 59, a nominar trascorse; cioè tutto lo mondo, perchè non si costituivano li omini ad altro fine, che la ritornata a le stelle; la quale tornata se avessono inteso come si dovea intendere, non sarebbono li omini caduti in sì fatti errori, che avessono nominato per iddii li pianeti, et a loro fatto sacrificio.

C. IV — v. 64-72. In questi tre ternari lo nostro autore finge come Beatrice rispuose al primo dubbio, poi che ebbe risposto al secondo lo quale riservò addirieto 60 perchè era meno periculoso, e [p. 128 modifica]rispose al secondo come detto è, perchè potea essere cagione d’errore. Et ora risponde al primo nel quale non è errore di fede; ma è argomento, come dice lo testo. Dice dunqua così: L’altra dubitazion; cioè la prima, che fu questa: Se ’l buono volere dura, come può la forza altrui mancare 61 lo merito dello sforzato: con ciò sia cosa che la voluntà libera sia quella che meriti e demeriti? E però se Piccarda e Gostanza furno sforzate a uscire del monasterio, per che cagione durando elleno in quel buono volere, meritorno d’essere nel primo grado dei beati e non in quello nel quale sarebbono state, se fussono state nel monasterio? che; cioè la quale, ti commuove; cioè te Dante, A men venen; cioè à meno di periculo, che quella che determinata è: imperò che quella potrebbe menare l’uomo in eresia, questa no; e l’eresia è periculosa all’anima: imperò che induce morte, e però si può dire che abbia veleno: questa à veleno, perchè mena l’omo in errore; ma non tanto quanto l’altra: imperò che non menerebbe l’uomo in eresia, e così non vi serebbe periculo di morte spirituale; et assegna la cagione: però che sua malizia; cioè di questa dubitazione, Non ti porria menare; cioè non potrebbe menare te Dante, cioè la tua mente, nè ’l tuo intelletto, da me; cioè Beatrice, altrove; cioè ad altra determinazione, che fusse eretica e non approvata da santa Chiesa. Parer iniusta la nostra iustizia Ne li occhi de’ mortali; ecco che dimostra Beatrice che questo dubbio non può separare l’omo dalla fede che tiene la santa Chiesa, dicendo che parere iniusta la iustizia de la santa Chiesa e della santa Scrittura alla ragione et allo intelletto delli omini, è argomento Di Fede; cioè è prova di fede: imperò che, perchè l’omo tiene per fermo e crede che la santa Chiesa sia la sposa di Cristo e filliuola d’Iddio padre, e la santa Scrittura che è dittata da Cristo e studiata et osservata da la santa Chiesa crede e tiene per fermo che abbia in sè perfetta iustizia, e per tanto tiene e crede che in essa non possa essere iniustizia; e però dice che dubitare di questo è argomento di fede, e non d’eresia, e però dice: e non d’eretica nequizia; cioè e non di malizia, che induca eresia. Ma perchè puote vostro accorgimento; cioè vostro intelletto di voi omini, Ben penetrare; cioè ben 62 pensare dentro, a questa veritate; cioè a questo vero, cioè come sia ragionevile che chi s’abassa per forza altrui del merito, sia abbassato del premio, Come desiri; cioè desideri tu, Dante, ti farò contento; io Beatrice, dichiarandoti questo dubbio. E qui finisce la prima lezione del quarto canto, et incominciasi la seconda.

Se violenzia è quando ec. Questa è la seconda lezione del canto quarto, ne la quale l’autore finge che Beatrice determinasse lo primo [p. 129 modifica]dubbio toccato di sopra; cioè come possa essere che, essendo l’omo sforzato, caggia dal merito e per consequente caggia dal premio, e che questo non sia contra la iustizia d’Iddio; e com’elli mosse uno altro dubbio, cioè se si può permutare lo voto, lo quale dubbio Beatrice dichiarerà nel seguente canto. E dividesi questa lezione in cinque parti: imperò che prima finge come Beatrice, continuando lo suo parlare, determinò lo dubbio sopradetto; nella seconda parte finge come Beatrice muove a lui un altro dubbio, che nacque delle parole dette di sopra, le quali parole si paiano contradire, et incominciasi quine: Ma or ti s’attraversa ec.; nella terza finge come Beatrice solve lo detto dubbio, et incominciasi quine: A questo punto ec.; nella quarta parte finge come, dichiarato di questo altro dubbio 63, congratulò a Beatrice ringraziandola, et incominciasi quine: O amanza del primo ec.; nella quinta parte finge com’elli mosse a Beatrice uno altro dubbio, cioè se lo voto si può trasmutare, et incominciasi quine: Questo m’invita ec. Divisa adunqua la lezione, ora è da vedere lo intelletto litterale 64 co l’allegorie e moralità, quando occorreranno.

C. IV — v. 73-90. In questi sei ternari lo nostro autore finge come Beatrice solve lo primo dubbio che fu: Se ’l buon volere dura, la violenza altrui per qual cagione mi scema la misura del meritare? A che risponde Beatrice in questa forma, dicendo così: Se violenzia è quando quei che pate; cioè se forza è, cioè avvegna Iddio che forza sia quando colui che riceve la forza, Niente conferisce; cioè nulla dà d’aiuto, nè di consentimento, a quei che sforza; come vollia dire chi argomenta: Non for quest’alme; cioè non sarebbono queste anime, per esso; cioè per ciò, scusate; ciò avvegna Iddio che fussono state sforzate e niente avessono consentito; et assegna la cagione per che: Chè volontà; cioè imperò che la voluntà, non s’ammorza; cioè non s’afferra e non si ferma nella cosa forzata, se non vuol 65; cioè s’ella, cioè la voluntà non vuole: et intende della voluntà assoluta la quale sempre vuole lo bene: imperò che, come si dirà di sotto, due sono le voluntà, l’una assoluta che sempre vuole lo bene, l’altra respettiva che vuole lo maggior bene, o lo men male; e però dice della voluntà assoluta ch’elli non si ferma, s’ella non vuole afferrarsi e fermarsi alla cosa a che ella è, Ma fa; cioè la voluntà assoluta, come natura face in foco; lo quale sempre torna ritto in su: de la fiamma si dè intendere che sempre si dirizza in alto, Se mille volte violenzia il torza; cioè se la torcia e faccia chinare in giuso: se una [p. 130 modifica]cosa tanto larga, che la fiamma nolla possa abbracciare, si pone sopra la fiamma, la fa chinare colla sua punta in giuso; ma come si rimove, incontenente ritorna ritta in su. Perchè; cioè imperò che, s’ella; cioè se ella, cioè la volontà, si piega assai o poco; cioè inverso a la cosa a che ella è sforzata, et allora è volontà respettiva sforzata, Segue la forza; stando e perseverando in essa, e così queste; cioè Piccarda e Gostanza, fero; cioè feceno, che seguittono la forza fatta loro, Possendo ritornar nel santo loco; cioè nel monasterio, del quale erano state cavate. Se fusse stato lor voler intero; cioè se la voluntà fusse stata intera delle dette due donne, Come tenne Lorenso; cioè santo Lorenzo martire. Santo Lorenzo nel 255 fu accusato da Partemio a Decio imperadore ch’elli avea li tesori della Chiesa; e fattoselo venire dinanti e dimandatolo dove erano, non li rispuose, unde elli lo diede ad Aurelio suo officiale, che lo fe prima battere co li scorpioni, poi colle piombate, poi colla pietra lo volto, e poi col fuoco lo fe arrostire in sulla grata 66 del ferro e li ministri colle forche del ferro lo stringeano; e niente di meno santo Lorenzio tra tutti questi tormenti stava lieto, e riprendeva loro del loro errore; e però dice: in su la grada; cioè in sulla graticula del ferro sopra lo fuoco la sua voluntà intera a sostenere quello incendio per l’amore d’Iddio, intanto che elli insultava al tiranno che lo faceva arrostire, dicendoli: Versa e manduca. E fece; cioè e come 67 l’intera voluntà, Muzio; cioè Cornelio Muzio Gaio Scevola romano che fu lo primo di 300 giovani romani che aveano giurato d’uccidere lo re Larte Porsenna di Chiusi, che era intorno a Roma et aveala assediata per rimettervi lo figliuolo del re Tarquinio Superbo, che n’era stato con tutti li suoi cacciato per la sua crudeltà, per liberare la loro città, a cui toccò d’andare nel campo a mettersi ad ucciderlo, come scrive Livio libro secondo della prima decade; et iunto al pavillione scogniosciuto, credendo uccidere Porsenna uccise uno altro suo officiale che stava in su una alta sedia allato al re a dare lo soldo ai cavalieri, e molto sè esercitava. Unde essendo preso e menato dinanti al re, esaminato chi elli era, disse che era cittadino di Roma, e che avea nome Gaio Muzio: Io inimico volsi uccidere te re, mio inimico, nè non sono meno apparecchiato a sostenere la morte, ch’io fusse a darla a te: costume è dei Romani e fare e sostenere le cose forte e dure; nè non sono pur io con questo animo, assai ne sono di rieto a me, addimandanti questo onore: provvediti quanto vuoi contra questo pericolo, tutta via arai l’insidiatori appresso di te: li giovani di Roma con teco solo volliano questa battallia. Allora lo re lo cominciò a minacciare che lo [p. 131 modifica]mettrebbe al fuoco, se non manifestasse queste insidie. Disse allora Muzio: Or vedi come li Romani, che tegnano la gloria essere grande, riputano vile lo suo corpo; et essendo quine in su uno altare acceso lo fuoco per lo sacrificio, misse la mano ritta nel fuoco e tennevela tanto ch’ ella arse. Et allora lo re alienato per lo miraculo e sceso di sedia, nel fe cessare e disse che li perdonava, dicendo: Va con Dio, che tu se 68 stato più crudele contra di te che contra di me: se tanta virtù fusse in te per la patria mia, io ti terrei meco, ora che ài usato la ragione della guerra contra di me vollio che sii libero per la tua virtù; e così comandò che li fusse perdonato. Et allora Muzio disse a re: Poi che se stato benivolo a me, io non vollio essere ingrato a te: sappi che noi siamo 300 giovani iurati d’ucciderti, et io sono lo primo; e benchè sii campato da me, impossibile è sicchè campi delle mani delli altri; e però io ti manifesto questo segreto, perchè ti provegghi. Allora lo re Porsenna prese partito di far pace coi Romani e partirsi dallo assedio, e questo Muzio fu poi detto Scevola, perchè ebbe meno la mano: imperò che, benchè fusse tirato del fuoco, tanto ve l’aveva tenuta salda ch’ell’era arsa; e però dice: alla sua man severo; cioè tanto iusto che fu detto crudele: severità è iustizia sensa misericordia. Ecco che l’autore par che vollia come per vendetta, che la mano ritta avea errato, Muzio la mettesse nel fuoco o per mostrare la sua costante volontà. Cosi; ecco che adatta li esempli detti di santo Lorenzio e di Muzio, l’avria ripinte; cioè la voluntà intera quelle donne, per la strada; per la quale s’andava al munisterio, Onde; cioè dal qual monisterio, eran tratte; cioè erano state tirate, come fuoron sciolte; cioè come furon libere dalli sforzatori. Ma così salda vollia; cioè così soda voluntà, come fu quella di santo Lorenzo e di Muzio, è troppo rada; cioè si truova troppo rade volte. E per queste parole; disse Beatrice a Dante, le quali io t’ò detto, se ricolte L’ài come dei; cioè come tu dei averle ricolte, è l’argomento casso; cioè 69 lo quale facesti di sopra, Che; cioè lo quale argomento, t’aria fatto noia; cioè arebbe fatto noia a te Dante et impacciatoti, ancor più volte; oltra questa; ma oggimai non ti potrà fare più noia, perchè se dichiarato che nel bene la voluntà conviene essere intera, altremente non merita: imperò che è parola di Cristo: Non qui inceperit; sed qui perseveraverit usque in finem, hic salvus erit; e però colla forza conviene essere la voluntà costante sì che, cessata la forza e tornata la possibilità, si ritorni nel ben fare.

C. IV — v. 91-105. In questi cinque ternari lo nostro autore [p. 132 modifica]finge come Beatrice, continuando lo suo parlare, mosse sopra la dichiaragione detta di sopra uno altro dubbio 70 cioè: Io t’ò già dichiarato che l’anime beate non possano mentire, e Piccarda à detto di sopra che Gostanza tenne l’affezion del monacato; et 71 io t’ò detto che no; dunqua questo è contradittorio: imperò che l’uno conviene essere falso. E però poi adiugne la soluzione, dicendo così: Ma or ti s’attraversa; cioè a te Dante, un altro passo Dinanti a li occhi; cioè un altro dubbio malagevole a passare dinanti a la ragione et a lo intelletto tuo, tal, che per te stesso; cioè per la ragione pura naturale, Non n’esceresti; cioè di questo passo, pria seresti lasso; cioè molto ti stancheresti, inanti che n’escissi. Ecco che pone lo dubbio: Io; cioè Beatrice, t’ò per certo nella mente messo; cioè a te Dante, Ch’alma beata; cioè che anima beata, non porria mentire; cioè non potrebbe mentire; et assegna la cagione: Però che sempre; cioè imperò che sempre, è al primo Vero appresso; cioè a Dio che è la prima verità: Iddio è la prima verità, et a lui tutti li beati sono sempre appresso, e chi sta presso a la verità non può mentire. Questo detto di sopra è uno antecedente del quale, e di quel che seguita nasce lo dubbio. E poi; ecco lo secondo antecedente unde nasce lo dubbio, potesti; cioè tu, Dante, da Piccarda udire; questo cioè, Che l’affezion del vel; cioè la voluntà e lo desiderio della religione monacale, che è significata per lo velo, Gostanza; della quale fu detto di sopra, tenne; come detto fu di sopra; ora conchiude dicendo: Sì ch’ella; cioè Piccarda, par qui; cioè in questa sentenzia, meco; cioè con me Beatrice, contradire; e così è contradizione tra lo suo detto e lo mio: imperò ch’ella dice che Gostanza tenne l’affezione del velo, et io 72 òne detto che no: imperò ch’ella sarebbe tornata al monasterio quando avesse avuto potenzia di tornare 73. Mosso e posto lo dubbio, innanti che lo solva pone una conclusione che conferma quello che avea detto Piccarda, che Gostanza tenne l’affezione del velo. Contra questo si può arguire che no: imperò che, s’ella avesse tenuto l’affezione del velo, non si sarebbe maritata. A che risponde la conclusione che seguita; cioè che l’omo fa quello che non si conviene contra la sua volontà per fuggire pericolo, sicchè per fuggire quello che l’uomo non vuole fa quello che non vuole; et arreca in esemplo Almeon filliuolo del re Amfiarao d’Argo sacerdote, lo quale s’era appiattato per non andare colli altri re a 74 Tebe: imperò ch’elli aveva veduto come vi doveva morire: imperò ch’elli era sacerdote di Febo et augure, secondo che fu detto nella prima cantica nel canto ix; ma [p. 133 modifica]Erifile sua donna lo insegnò, per avere l’ornamento della mollie di Polinice che aveva nome Argia 75; per la qual cosa Amfiarao indegnato quando fu a Tebe, vedendo che dovea morire si fe promettere ad Almeon suo filliuolo, e d’Erifile, ch’elli farebbe vendette della madre che avea appalesato Amfiarao per lo adornamento dell’oro ch’ella ebbe; per la qual cosa elli dovea morire: imperò ch’elli avea veduto che, s’elli andava a Tebe, la terra si dovea aprire et inghiottirlo, e così addivenne. Unde Almeon, per osservare la promessa che avea fatto al padre, quando fu tornato da Tebe uccise Erifile sua madre mal volentieri; ma per che l’avea promesso non volse che fallisse la sua promessa, sicchè Almeon per non essere spietato contra al padre, fu spietato contra la madre, e così addiviene spesse volte che l’uomo per fuggire lo periculo ch’elli schifa, quello che non dee fa contro la sua vollia; e così arrecandolo a proposito, Gostanza per cessare il periculo, stava nel matrimonio contra sua vollia, che sarebbe volsuta istare inanti nel monasterio, e però dice lo testo: Spesse fiate; cioè spesse volte, già, frate; parla Beatrice a Dante, e però lo chiama frate che è nome di carità, adivenne; cioè questo che ti dirò, Che per fuggir perillio; cioè alcuno pericolo, contra grato; cioè contra suo piacere e volere assoluto, Si fe; cioè da alcuno omo, di quel, che far non si convenne; e che non arebbe volsuto fare, avendo potuto per altro modo schifare lo periculo. Et arreca l’esemplo: Come Almeone; filliuolo del re Amfiarao, si fe spietato; cioè sè contra la madre sua Erifile, Per non perder pietà 76; la quale arebbe perduta, se non avesse osservato la promessa che avea fatto al padre, cioè Amfiarao, cioè d’uccidere Erifile sua madre che avea 77 dato lo marito, si può dire, per l’adornamento dell’oro per sua vendetta, che; cioè lo quale Almeon, spense; cioè uccise, la propria madre; cioè Erifile sua madre, di ciò; cioè d’uccidere la sua madre, pregato Dal padre suo; cioè da Amfiarao.

C. IV — v. 106-117. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come Beatrice, continuando lo suo parlare, tolse via lo dubbio dichiarato per la conclusione posta di sopra che dimostrò; come può essere che l’omo faccia contra sua vollia quel che non dè fare: imperò che nessuno fa quel che non vuole, dunqua parrebbe che volere 78 e non volere potesse stare insieme che non può essere: imperò che è contradizione. Et ad 79 intendere questo debbiamo sapere che sono due volontà; l’una assoluta, la quale non può volere lo male; e l’altra respettiva, la qual vuole minor male per cessare lo maggiore: e [p. 134 modifica]così può l’uomo volere con voluntà respettiva quel che non vorrebbe secondo la voluntà assoluta; ma può essere che l’uomo s’inganni nel discernere qual sia maggior male e qual minore, et allora si fa quel che non si dè, come è stato detto di sopra; e come fece Gostanza, com’io abbo detto di sopra, che elesse lo minor bene parendoli fuggire maggior male che non fuggitte e che non arebbe fuggito, se avesse seguitato lo maggior bene. E però è vero che Gostanza colla voluntà assoluta sempre tenne la religione; ma colla respettiva no, e però vero dico io Beatrice che intendo della volontà respettiva, e vero dice Piccarda 80 che intese della volontà assoluta; e così è soluto lo dubbio. Dice così: A questo punto; cioè che toccato è di sopra di Gostanza, vollio che tu pense; cioè tu, Dante, Che la forza al voler si meschia; cioè si fa una cosa insieme, e fanno; cioè la forza e la voluntà meschiata insieme, Sì, che scusar non si posson l’offense: imperò che vi concorre la voluntà. Vollia assoluta; cioè senza alcuno rispetto, non consente al danno; non può la voluntà 81 volere lo male quantunqua piccolo, Ma consentevi ’ntanto; cioè al danno la voluntà libera, quanto teme, Se si ritrà; dal danno al quale è costretta, cader in più affanno; cioè in maggior danno che quello a che consente: imperò che, come fu detto nel principio di questo canto, lo men male àe apparenzia di bene, e però tra du’mali disequali cade elezione alla voluntà sforzata. Però quando Piccarda questo spreme; cioè manifesta ciò che fu detto di Gostanza di sopra da lei, cioè ch’ella tenne affezione del velo, Della vollia assuluta intende; cioè Piccarda, secondo la quale niuno può volere lo male, et io; cioè Beatrice intendo, De l’altra; cioè voluntà, cioè respettiva che cade tra du’ beni, circa due mali l’uno maggior che l’altro, sì, che ver diciamo insieme; cioè ella dice vero, et io vero. Cotal fu l’ ondeggiar del santo rio; cioè lo parlare della santa Teologia che, come lo rio gitta una onda sopra l’altra; così Beatrice parlando gittò l’uno dubbio sopra l’altro co le soluzioni, Ch’uscì del Fonte; lo qual rio uscitte della fonte viva, cioè della sapienzia increata, ond’ogni ver deriva; cioè dal quale fonte vivo ogni vero descende in noi omini: imperò che da Dio viene ogni verità. Tal; cioè ondeggiar, puose in pace; cioè in riposo d’ozio, uno e altro disio; cioè l’uno e l’altro desiderio ch’io avea: imperò ch’io avea desiderio d’avere la soluzione dei primi due dubbi che furno mossi di sopra, e dell’altro che nacque quinde, sicchè ora rimaseno sazi li desidèri dell’autore. E però elli, congratulando e facendoli festa, la ringrazia, come apparrà nell’altra parte che seguita.

C. IV— v. 118-132. In questi cinque ternari lo nostro autore finge [p. 135 modifica]come elli dopo la determinazione dei dubbi fatta da Beatrice, congratulando a lei la ringraziasse et adiugnesse nel parlare certe notabili sentenzie sopra lo desiderio che a l’umano intelletto del vero, dicendo così: O amanza: bene si conviene a Beatrice, ch’è la sapienzia d’Iddio creata, questo nome, come appare nel libro della sapienzia di Salomone, del primo amante; cioè d’Iddio lo quale è primo e principio d’ogni cosa, sicchè 82 ancora è primo amante, o diva; ancora questo nome si conviene alla sapienzia ch’ella è diva, cioè iddia, e dice lo Grammatico che Iddio è eterno; ma divo è di mortale fatto eterno, e però diva si dice: imperò che per lei diventano li uomini, che sono mortali, eterni, Diss’io; cioè Dante, appresso; cioè di po’ lo suo parlare, il cui parlar; cioè lo parlare della quale 83, m’innonda; cioè mi bagna e purga da ignoranzia, E scalda sì; di puro amore e pura carità, che più e più m’avviva; cioè molto e molto 84 mi vivifica e vigorisce: la verità che è lo parlare della sapienzia, è quella che rinvigorisce e scalda sì l’uomo, che lo fa vigoroso e vivere in perpetuo. Non è l’affezion; cioè la mia carità, mia; cioè di me Dante, sì profonda; cioè sì alta e sì grande in me, Che vasti a render voi; cioè a voi, grazia per grazia; cioè a ristorare che quanto voi amate me, io ami tanto voi: grazia, carità, affezione, dilezione et amore una medesima cosa significano. Ma quei; cioè colui, che; cioè lo quale, vede; cioè la mia voluntà, et anco vede quanto si dè rendere, e puote; cioè rendere grazia condegna, a ciò; cioè a rendere grazie per me, risponda; cioè Iddio risponda per me a render grazie a voi sapienzia per la grazia che avete fatto a me. E benchè questo sia secondo la lettera, secondo l’allegoria questo è pregare Iddio che retribuisca ai savi uomini che si sono affaticati in trovare e scrivere queste veritadi, le quali per la loro fatica 85 sono venute a notizia dell’autore e delli altri studiosi omini. Io; cioè Dante, veggio ben; cioè questo che seguita, cioè, che giammai non si sazia Nostro intelletto; cioè umano, se ’l Ver nollo lustra; cioè se la verità non lo illumina; e dichiara 86 qual vero, cioè quello, Di fuor dal qual; vero, nessun vero si spazia; cioè lo quale àe in sè tutte le verità; e questo è Iddio, lo quale è via, verità e vita, come elli dice di sè medesimo: veramente lo intelletto umano mai non à posa e non si sazia, infine a tanto che Iddio nollo illumina. Posasi ’n esso; cioè lo nostro intelletto si posa nel vero, come fera’n lustra; ecco che fa similitudine che, così si posa lo intelletto umano [p. 136 modifica]nel vero, come si posa la fiera nella sua tana: lustra è la tana della fiera, Tosto; cioè altresì tosto, che iunto l’ a; cioè lo vero et iunger pollo; cioè lo nostro intelletto può iungere lo vero, Se non ciascun disio; cioè se non potesse lo intelletto umano iungere lo vero, ciascuno nostro desiderio che noi abbiamo di comprenderlo serebbe frustra; cioè sarebbe in vano, anco tutti li umani desidèri sono vani, se none lo desiderio d’avere Iddio. Nasce per quello; cioè per lo desiderio, lo quale l’omo à del vero, a guisa di rampollo; cioè a modo di pollone, che nasce a piè della pianta, A piè del vero il dubbio 87; cioè così lo dubbio nasce a piè del vero per lo desiderio che l’omo à di iungerlo, pensando come può essere questo o così, o così; e per questo modo si levano li dubbi, come si levano li polloni a piè della pianta, et è Natura; cioè è dato a l’omo per natura che mai non stia contento, infine che non è iunto a suprema verità che è Iddio; e però dice: Ch’al sommo; cioè la qual natura al sommo vero, pinge noi; cioè noi uomini spinge insuso, di collo in collo; cioè dall’una altezza della verità nell’altra più alta, infine a tanto che si viene a Dio, come chi va su per lo monte tanto sallie di colle in colle, ch’elli viene al supremo del monte.

C. IV — v. 133-142. In questi tre ternari et uno versetto lo nostro autore finge come, di po’ lo parlare sopra detto, elli conchiuse che per quello era indutto a muovere un altro dubbio a Beatrice; e quello mosse, cioè se al voto manco si può sodisfare con altro; al quale dubbio Beatrice risponderà nel canto che seguiterà. Dice ora così: Questo; cioè che a noi è dato da natura di sapere la verità, m’invita; cioè me Dante, questo; cioè che è detto, mi sigura; cioè rende me siguro, donna; cioè o donna, a dimandarvi; cioè a dimandare voi, cioè Beatrice, cioè sapienzia creata da Dio, Con riverenzia; cioè riverentemente, D’un’altra verità; oltra a quelle che sono dichiarate di sopra, che; cioè la quale, m’è oscura; cioè è oscura a me Dante quella verità. Io vo saper; ecco che move lo dubbio, dicendo: Io Dante vollio sapere da voi, se l’om può sodisfarvi; cioè alla corte divina, Ai voti manchi; cioè ai voti che non sono adimpiuti, nè osservati, sì con altri beni; cioè che quelli che sono promessi, Ch’a la vostra statera; cioè alla vostra iustizia del foro divino, non sian parvi; cioè non siano piccoli e none equivalenti. Proposto lo dubbio, dichiara l’autore come Beatrice ragguardò lui sì con li occhi focosi d’amore, che Dante non potò sostenere lo suo sguardo, dicendo: Beatrice; cioè la santa Scrittura e la sapienzia che era la mia guida, [p. 137 modifica]mi guardò; cioè guardò me Dante, co li occhi pieni Di faville d’amor; cioè colli occhi pieni di carità, con sì divini; cioè sì pieni di divinità: che siano 88 li occhi di Beatrice, è stato detto di sopra; cioè o la ragione o lo intelletto di coloro che la scrissono e trovornola, o l’esposizione litterale et allegorica che è in essa; li quali due occhi pieni di carità e di divinità fanno inamorare sì chi guarda in essi, che la potenzia 89 intellettiva umana non basta a guardare in essa, anco conviene che ceda e dia le reni; e però dice: Che, volta mia virtù; cioè che la mia virtù intellettiva volta in altra parte, diede le reni; cioè volsimi alle reni a lei, e co la faccia in verso la faccia opposita in verso l’altra parte opposita. E quasi; cioè presso, me perdei; cioè perdetti me medesimo, colli occhi chini; cioè colli occhi bassi alla terra. Per questo si dè intendere ch’elli, vedendo l’altezza della sapienzia partendosi dalla sua considerazione 90 delle cose terrene, fu quasi escito del primo pensieri ch’era perdere sè; e lo diventare più splendida Beatrice non è altro, secondo l’allegorico intelletto, se non che quanto l’omo più sè esercita nella santa Scrittura, tanto più alti intendimenti n’apprende e tanto li pare più alta e più bella; e tanto crescere vede lo lume del suo intelletto l’omo quanto più in essa sè esercita et essa studia, e vede in lei sì alti intendimenti che lo intelletto umano non li può apprendere, et allora dare li conviene le reni et essere vinto da loro, se grazia nuova non viene nella mente da Dio, la quale illumini lo intelletto; e però l’autore àe parlato nella sopra detta forma. E qui finisce lo canto quarto, et incominciasi lo quinto.

Note

  1. C. M. mente, li solveo amburo.
  2. C. M. sapendo delibere da
  3. C. M. parlava ; nella seconda finge come Beatrice, diventata molto splendida, vedendo ch’elli non parlava e sapendo li dubi suoi perch’ella vedea la sua mente, lieli aperse senza aspettare ch’ elli parlasse, e cominciasi quine: Fesi
  4. Fesi; si fe, fe sè, privo d’ accento: avvegnachè nol richieda fe proveniente da fere. E.
  5. C. M. Platone s’ intendere essere
  6. 6,0 6,1 C. M. amburo
  7. C. M. del agno e
  8. C. M. potrebbe, essendo equali
  9. Pongasi mente come i classici adoperano l’ infinito attivo assoluto, al quale mal verrebbe surrogato l’ infinito di forma passiva. E.
  10. C. M. de’ daini e
  11. Grammatica ; Latino. E.
  12. C. M. stava cheto e non
  13. Le’ per lei, come no’ per noi e altrettali E.
  14. C. M. lo guarda e
  15. C. M. ci beatifica e la ditta grazia sa
  16. Esplimere ; esprimere, alla pisana, secondo la quale pronunzia le due liquide l ed r mutansi agevolmente. E.
  17. C. M. d’ ira ; cioè di corruccio, Nabuccodonosor;
  18. Somniò, somnio; alla guisa latina somniavit, somnium. E.
  19. C. M. venire del regno suo, benchè l’ autore nostro nella prima cantica nel canto xiiii lo trasformò et arrecò a dimostrare, come appare ne l’esposizione de’ regni del mondo e de l’ etadi; ma qui s’ intende pure del regno suo, come appare nel preditto libro, del quale in nessun modo
  20. C. M. savi et astrologi e magi ,
  21. Indivinare; indovinare, dal latino divinare. E.
  22. C. M. amburo.
  23. C. M. cioè l’ uno e l’ altro de’ desidèri,
  24. C. M. uno suo libro
  25. C. M. l’ anime e ciascuna
  26. C. M. l’ anima ritorna di cielo
  27. C. M. vivano
  28. C. M. da Dio e conceduta loro e più
  29. C. M. popolo ebreo e
  30. C. M. vergini, io; cioè Beatrice, dico,
  31. C. M. perpetua in quello grado di beatitudine, che ànno come quella
  32. C. M. spiro : imperò che, come
  33. C. M. la beatitudine ne’ beati la sua per la quale elli è beato, nè cresce
  34. C. M. salita, cioè ascendimento; e questo dice per mostrare
  35. C. M. beati, secondo la fizione de l’ autore si rappresentano
  36. C. M. che l’ abitazione sua
  37. C. M. sono li stati e gradi de’ beati in vita eterna: bene che de l’ anime umane beate l’autore pone sette gradi in vita eterna; nel cielo empireo e sopra questi sono li angeli che è l’ ottavo grado, e di sopra li angeli Iddio che è lo nono e lo supremo come appare nè l’ ultimo canto; e così nove rappresentamenti dimostra secondo li nove cieli, ponendo in ciascuno cielo lo suo rappresentamento. E come
  38. Fitte ; finte, dal fictus latino. E.
  39. C. M. nel primo più basso grado
  40. C. M. nel più basso grado di
  41. Fitte; finte, dal fictus latino. E.
  42. C. M. feviltate; cioè
  43. C. M. ce li
  44. C. M. et anco perchè in forma umana si sono mostrati et appariti alli omini, e così à permesso
  45. C. M. secondo che dice Salustio nel Catilinario, che faceano
  46. C. M. riverto
  47. C. M mano. E Dio apparecchiò al giovano, andando cercando nella piassa persona saputa del cammino per comandamento del padre , l’Angelo Raffael
  48. C. M. mollie, malvolentieri liela concedette per la ditta cagione; ma avutola, con quelle osservanzie che l’ insegnò l’ angelo e col cuore arso del pescio in su la bruna cacciò via
  49. C. M. Timeo: imperò che a lui lo scrisse, dell’
  50. C. M. alle stelle
  51. C. M. descendano per incorporarsi, e poi separate dai corpi ritornino
  52. C. M. intenzione; ma elli non sentitte altramente che le parole suonino. Dice
  53. C. M. quello
  54. Col Magl. si è aggiunto da - della concupiscenzia .... desiderio delle - E.
  55. C. M. si potrebbero
  56. C. M. creare ne’ corpi; e così
  57. C. M. viene, come fa lo ragio del Sole che viene giù. e fa l’ operazione sua e ritornasi unde viene, e così la influenzia delle stelle e de’ pianeti ritorna in esse e da esse fatta la sua operazione e lo suo effetto et insieme la loda,
  58. C. M. pianeto, al quale credeano
  59. C. M. pianeto, contandoli descendendo, a
  60. C. M. a drieto, perchè potea essere cagione
  61. Mancare ; scemare, in senso transitivo. E.
  62. C. M. ben passare
  63. C. M. dubbio, mostrò allegrezza e letizia a Beatrice
  64. C. M. litterale col testo et esposizione allegorica e morale,
  65. C. M. non vuol ; cioè s’ ella, cioè la volontà non vuole afferrarsi e fermarsi alla cosa, a che ella è sforsata, et allora è volontà respettiva, Ma fa;
  66. C. M. sulla graticola del
  67. C. M. come fece la intera
  68. Se ; persona seconda del presente dall’infinito sere; oggi meglio se’ o sei. E.
  69. C. M. cioè l’ argomento, che facesti di sopra, vano et annullato, Che;
  70. C. M. dubbio, dicendo così; Io t’ abbo già
  71. C. M. et io t’ abbo ditto che non ; dunqua
  72. C. M io abbo ditto
  73. C. M. tornare, et ella non vi tornò mai; dunqua seguita che sia falso o lo ditto di Piccarda, o lo mio. Mosso
  74. C. M. all’assedio di
  75. C. M. Pollinice chiamata Argia filliuola del re Adastro; della qual
  76. C. M. pietà ; che avea in verso lo padre, la quale
  77. C. M. l’ avea tradito per l’ adornamento
  78. C. M. volere colla forsa potesse
  79. C. M. E per intendere
  80. C. M. disse Piccarda
  81. C. M. la volontà libera volere
  82. C. M. sicchè bene è
  83. C. M. del quale, mi monda; cioè mi netta e purga
  84. C. M. molto: imperocchè ’l comperativo si puone qui per lo propositivo, mi vivica et invigorisce
  85. C. M. loro notizia sono
  86. C. M. dichiara; e perchè si potrebbe dubitare di qual vero si parla, lo dichiara dicendo: quello,
  87. Riflette qui il Gioberti che tale dubbio è naturale, non è quello di Cartesio: è un dubbio riflessivo, scientifico, condizionato. Questo dubbio è tanto utile, quanto l’ altro dannoso: deriva dal non aver noi il pieno possedimento del vero: perocchè se l’avessimo, non saremmo mortali. E.
  88. C. M. che significhino li
  89. C. M. potenzia vivisa cioè intellettiva
  90. C. M. considerazione e descendendo alla considerazione delle cose
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