Commedia (Buti)/Paradiso/Canto III
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(Commento di Francesco Da Buti) (XIV secolo)
Canto terzo
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C A N T O III.
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1Quel Sol, che pria d’amor mi scaldò ’l petto,
Di bella verità m’avea iscoverto,
Provando e riprovando, il dolce aspetto.
4Et io, per confessar corretto e certo
Me stesso, tanto quanto si convenne,
Levai ’l capo a proferir più erto.1
7Ma visione apparve che ritenne
A sè me tanto stretto per vedersi,
Che di mia confession non mi sovvenne.
10Quali per vetri trasparenti e tersi,
O ver per acque nitide e tranquille
Non sì profonde che i fondi sian persi,
13Tornan dei nostri visi le postille
Debili sì, che perla in bianca fronte
Non vien men forte alle nostre pupille;
16Tali vidd’ io più facce a parlar pronte,2
Perch’ io dentro all’ error contrario corsi
A quel che accese amor tra l’ omo e ’l fonte.3
19Sì subito com’ io di lor m’ accorsi,4
Quelle stimando specchiati sembianti,
Per veder di cui fosser, li occhi torsi.
22E nulla viddi e ritorsili avanti
Dritti nel lume della dolce guida,
Che sorridendo ardea nelli occhi santi.
25Non ti meravigliar perch’ io sorrida,5
Mi disse, appreso il tuo pueril quoto.6
Che sopra ’l ver lo piè ancor non fida;7
28Ma te rivolve come suole a voto.8
Vere sustanzie son ciò che tu vedi
Qui relegate per manco di voto.
31Però parla con esse, et odi e credi
Che la verace luce che li appaga
Da sè non lassa lor torcer li piedi.
34Et io all’ ombra, che parea più vaga
Di ragionar, drizza’mi e cominciai,9
Quasi com’ om cui troppa vollia smaga:
37O ben creato spirito, ch’ ai rai
Di vita eterna la dolcezza senti,
Che non gustata non s’ intende mai,
40Grazioso mi fia se mi contenti
Del nome tuo e della vostra sorte;
Ond’ ella pronta e con occhi ridenti:
43La nostra carità non serra porte
Ad iusto prego, se non come quella10
Che vuol simile a sè tutta sua corte.
46Io fui al mondo vergine sorella,
E se la mente tua ben si riguarda,
Non mi ti celerà l’ esser più bella;
49Ma ricognoscerai ch’ io son Piccarda,
Che, posta qui con questi altri beati,
Beata sono nella spera più tarda.
52Li nostri affetti, che solo infiammati
Son nel piacer dello Spirito Santo,
Letizian del suo ordine formati.
55E questa sorte che par giù cotanto,
Però n’ è data perchè fuor negletti11 12
Li nostri voti, e voiti in alcun canto.13
58Ond’io a lei: Ne’ mirabili aspetti
Vostri risplende non so che divino,
Che vi trasmuta dai primi concetti.
61Però non fui a rimembrar festino;
Ma or m’ aiuta ciò che tu mi dici,
Sì che raffigurar m’ è più latino.
64Ma dimmi: Voi, che siete qui felici,
Desiderate voi più alto loco,
Per più vedere o per più farvi amici?
67Con quelle altre ombre pria sorrise un poco,
Da indi mi rispuose tanto lieta,
Ch’ arder parea d’ amor nel primo foco:
70Frate, la nostra voluntà quieta
Virtù di carità, che fa volerne
Sol quel ch’ avemo e d’ altro non ci asseta.
73Se desiassemo esser più superne,
Foran discordi li nostri disiri
Dal voler di Colui che qui ne cerne.
76Che vedrai non capere in questi giri,
S’ esser in carità è qui necesse,
E se la sua natura ben rimiri;
79Anti è formale ad esto beato esse14
Tenersi dentro alla divina vollia,
Per che una fansi nostre vollie stesse.
82Sì che come noi siam di sollia in sollia15
In questo regno, a tutto ’l regno piace,16
Come a lo Re ch’ al suo voler n’ envollia.17
85E la sua voluntà è nostra pace:
Ell’ è quel mare al qual tutto si muove
Ciò ch’ ella crea, o che natura face.
88Chiaro mi fu allor com’ ogni dove
In Cielo è paradiso, e sì la grazia
Del Sommo Ben d’ un modo non vi piove.
91Ma sì come elli avvien s’ un cibo sazia,
E de l’ altro rimane ancor la gola,18
Che quel si chiere, e di quel si ringrazia;19
94Così fec’ io con atto e con parola,
Per apprender di lei qual fu la tela,
Unde non trasse infin al cò la spola.
97Perfetta vita et alto merto inciela
Donna più su, mi disse, alla cui norma
Nel vostro mondo giù si veste e vela,
100Perchè sin al morir si vegghi o dorma20
Con quello sposo ch’ ogni voto accetta,
Che carità al suo piacer conforma.
103Dal mondo, per seguirla, giovinetta
Fuggi’mi e nel suo abito m’ inchiusi,21 22
E promissi la via della sua setta.
106Omini poi al mal più che al ben usi
Fuor mi rapitten della dolce chiostra:23 24
Dio lo si sa qual poi mia vita fùsi.25 26
109E questo altro splendor, che ti si mostra
Dalla mia destra parte e che s’ accende
Di tutto ’l lume della spera nostra,
112Ciò ch’ io dico di me, di sè intende:
Sorella fu, e così li fu tolta
Di capo l’ ombra de le sacre bende.27
115Ma poi che pur al mondo fu rivolta
Contra suo grado e contra buona usanza,
Non fu dal vel del quor giammai disciolta.28
118Quest’ è la luce della gran Gostanza,
Che del secondo vento di Soave29
Generò ’l terzo e l’ ultima possanza.
121Così parlommi, e poi cominciò: Ave
Maria, cantando e cantando vanio,
Come per acqua cupa cosa grave.
124La vista mia che tanto la seguio,
Quanto possibil fu, poi che la perse,
Volses’ al segno di maggior disio.
127Et a Beatrice tutta si converse;
Ma quella folgorò nel mio sguardo
Sì, che da prima il viso nol sofferse,
130E ciò mi fece a dimandar più tardo.
- ↑ v. 6. C. M. più certo.
- ↑ v. 16. C. A. Cotal vidi io
- ↑ v. 18. C. M. Di quel
- ↑ v. 19. C. A. Subito, sì com’
- ↑ v. 25. C. A. maravigliar
- ↑ v. 26. C. A. appresso tuo
- ↑ v. 27. C. A. Poi sovra il vero ancora i piè non fida;
- ↑ v. 28. C. A. Ma sè
- ↑ v. 35. C. A. drizzaimi
- ↑ v. 44. C. A. A giusta voglia, se non
- ↑ v. 56. Fuor, fuoro, terza persona plurale dal fuo singolare, annessovi ro, colla interposizione dell’ u, come in cuore, puose ec. E.
- ↑ v. 56. C. A. fur
- ↑ v. 57. Voiti. Gli antichi e il popolo frappongono talora un i in alcune parole, come brieve, Europia, faite. E. — C. A. vuoti in
- ↑ v. 79. Esse; condizione, stato, voce primitiva, derivata dall’ esse latino e qui
adoperata a mo’ di sustantivo. E. - ↑ v. 82. C. A. E si come noi sem
- ↑ v. 83. C. A. Per questo
- ↑ v. 84. C. A. Siccome al Re che suo voler ne invoglia,
- ↑ v. 92. C. A. E d’ un altro
- ↑ v. 93. C. M. si chiede -: e il nostro e il Cod. Ant. chiere dal quœrere latino, ed appo de’ Classici truovasi l’ uno e l’altro come fere e fiede, chiere e chiede. E.
- ↑ v. 100. C. M. e dorma
- ↑ v. 104. Fuggi’mi; mi fuggii, dove la mancanza dell’ i viene indicata dall’ apostrofo, come Vedra’mi Par. C. I. v. 25. e C. III. v. 35. E.
- ↑ v. 104. C. A. mi chiusi,
- ↑ v. 107. C. A. rapiron
- ↑ v. 107. Rapitten; rapitteno, aggiunto il no alla terza singolare rapitte. E.
- ↑ v. 108. C. M. E Dio si sa — C. A. E Dio sa
- ↑ v. 108. Fùsi; si fu, perchè gli antichi non costumavano duplicare la consonante dell’ affisso. E.
- ↑ v. 114. C. M. sante bende.
- ↑ v. 117. C. A. cor
- ↑ v. 119. Soave, Soavia, Suapia rinviensi negli antichi nostri in vece di Svevia. E.
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C O M M E N T O
Quel Sol ec. Questo è lo canto terzo della terza cantica del nostro
autore, nel quale l’autore incomincia a trattare de’ beati che sono
in vita eterna, figurando sì come poeta ch’elli si li 1 rappresentino
in quel cielo che figura lo grado in che sono in vita eterna ne la
presenzia di Dio 2: imperò che, benchè secondo la lettera parli dei
beati che sono in vita eterna 3 per la santa Chiesa; niente di meno
intese ancora di quelli che sono nel mondo confirmati in grazia, sì
che stando qui col corpo sono in cielo colla mente; e sono quelli,
che secondo li Filosofi ànno le virtù dell’animo purgato. E s’elli
dice che fusse guidato su 4 da Beatrice di cielo in cielo, non è altro
se non che la mente sua fu levata a considerare li passati che
furno di quelle virtù, e quelli del suo tempo, se alcuno n’era; ma
non ne nomina alcuno, perchè possibile è a chi è in vita a cadere,
s’elli non fusse già confermato in grazia. Et all’autore non potea, nè
può ad alcuno uomo essere noto che è 5 confirmato in grazia, se Iddio non glielo rivelasse, e però finge l’autore ch’elli montasse suso;
lo qual montamento fu mentale e non corporale, e di cielo in cielo
montando vedessi li beati, rappresentatili ciascuno in quello cielo
che figurava lo grado che aveva in vita eterna, e per mostrare
che la loda de la virtù per la quale l’anima è beatificata 6 torna al
cielo, unde è venuta tale influenzia, e niente di meno finge che poi
trovasse quelle medesime anime beate in vita eterna in su le loro
sedie nel cospetto d'iddio. E non osta ch’elli fingendo le pongna in
diversi luogi: imperò che è possibile che l’anima sia in paradiso
nel cospetto di Dio, e che anco si rappresenti in altro luogo, benchè
l’autore dice questo fingendo come poeta, per dimostrare che li
pianeti e li cieli ànno influenzie di virtù; e però in ciascuno cielo finge che truovi li beali che ebbono quelle virtù che vegnano da la influenzia di quello cielo. E come sono nove cieli, contando li cerchi dei pianeti; così finge che siano in vita eterna nove gradi, come apparrà quando saremo al canto xxx dove elli ne tratta; e però questa parte si divide in due parti: imperò che prima tratta de li rappresentamenti dei beati nei cieli; nella seconda, del loro essere nel cospetto d’Iddio in vita eterna nel cielo empireo, et incominciasi la seconda nel canto xxx che incomincia: Forsi sei milia millia di lontano, quine: Cotal quale io la lasso ec. Ma la prima si divide in nove parti, come sono nove cieli: imperò che prima tratta dei beati che li si presentano nel globo de la Luna, e questa incomincia in questo canto; ne la seconda, di quelli che si li rappresentano nel cielo di Mercurio, et incominciasi quine: E siccome saetta che nel segno ec., nel canto v; ne la terza, di quelli che si li presentano nel cielo di Venere, et incominciasi quine nel principio dell’ottavo canto: Solea creder lo mondo ec.; nella quarta, di quelli che si li presentano nel quarto cielo del Sole, et incominciasi nel principio del canto x: Guardando nel suo figlio co l’amore; nella quinta parte tratta di quelli che si li presentano nel quinto cielo di Marte, et incominciasi nel canto xiv quine: Quindi ripreser li occhi miei virtute ec.; nella sesta parte tratta di quelli che si li presentano nel sesto cielo di Iove, et incominciasi nel decimo ottavo canto: Io mi rivolsi dal mio destro lato ec.; nella settima parte tratta di quelli che si li presentano nel settimo cielo di Saturno, et incominciasi nel canto xxi: Già eran li occhi miei refissi al volto ec.: nell’ottava parte tratta di quelli che si li presentano nell’ottavo cielo stellifero, et incominciasi nel canto xxii quine: La dolce donna dietro a lor mi pinse, o vero: Così mi disse, et indi si ricolse; nella nona parte tratta di quelli che si li presentano nel nono cielo cristallino primo mobile, et incominciasi nel canto xxvii quine: La mente innamorata che donnea.
E benchè questa divisione fusse posta nel principio del libro dove si mostrano li ascendimenti figurati dall’autore corporalmente, che si denno intendere essere stati mentalmente, dei quali è già incominciato a narrare lo primo, qui è diviso ancora secondo li rappresentamenti dei beati che elli finge che li fusseno fatti in ciascuno cielo, secondo lo suo montamento; dei quali rappresentamenti in questo canto si incomincia lo primo, cioè di quelli che li furno presentati nel globo della Luna. E però si divide questo canto terzio in due parti principali: imperò che prima finge che li apparissono nella Luna molti beati, e che incominciasse a parlare con loro, e come continuando lo parlare con una di quelle anime beate mosse uno dubbio e dimandòne dichiaragione; nella seconda finge come quell’anima beata, co la quale parlava, li dichiarò lo suo dubbio, et incominciasi quine: Frate, la nostra voluntà ec. La prima, che serà la prima lezione, si divide in cinque parti: imperò che prima finge come li apparveno nel corpo della Luna alquanti spiriti beati; ne la seconda finge com’elli, meravigliantesi di ciò, fu dichiarato da Beatrice, et incominciasi quine: Sì subito com’io; nella terza parte finge com’elli incominciò a parlare con uno di quelli spiriti, et incominciasi quine: Et io all’ombra ec.; ne la quarta parte finge come quello spirito, incominciata la sua narrazione, si li manifesta chi fu nel mondo, et incominciasi quine: Io fui al mondo ec.; nella quinta parte finge come elli replicando mosse uno dubbio al detto spirito, et incominciasi quine: Ond’io a lei ec. Divisa adunqua la lezione, ora è da vedere lo testo co la litterale, allegorica, o vero morale esposizione.
C. III — v. 1-18. In questi sei ternari lo nostro autore finge come, volendo rispondere a Beatrice confessando quello ch’avea detto esser vero, vidde molti spiriti nel corpo della Luna pronti et apparecchiati a voler parlare con lui, et arreca a proposito una bella similitudine, dicendo cosi: Quel Sol; cioè quello splendore e illuminatore della mia mente, cioè Beatrice, che come è stato detto, significa la grazia d’Iddio illuminante, cooperante e consumante, e la santa Scrittura, che; cioè la quale, pria; cioè prima, mi scaldò ’l petto; cioè mio di me Dante, d’amor: imperò che Beatrice, che figura la grazia d’Iddio e la santa Scrittura, di sè l’aveva innamorato, m’avea; cioè avea a me Dante, iscoverto il dolce aspetto Di bella verità; cioè m’avea scoperto lo dolce vedere d’una bella verità, cioè che cosa fusse cagione del turbo de la Luna; e ben dice di bella verità: imperò che niuna cosa è più bella a vedere che la verità, Provando; cioè lo vero per ragione demostrati va, e riprovando; cioè la falsa oppinione del denso e raro, come appare nel precedente canto. Et io; cioè Dante, per confessar corretto; della falsa oppinione del denso e raro, e certo; della vera oppinione detta da Beatrice de la cagione del turbo de la Luna, Me stesso; cioè Dante, Levai ’l capo più erto; cioè più alto, cioè lo mio, tanto quanto si convenne; di levare si, ch’ io non passai lo modo, a proferir; cioè la mia confessione. Ma visione apparve; cioè a me Dante, che; cioè la quale, ritenne A sè me tanto stretto; cioè me Dante a considerare essa visione, per vedersi; cioè perch’ella fusse veduta da me, Che di mia confession non mi sovvenne; cioè non mi ricordai di fare la mia confessione della predetta oppinione del dubbio. Et ecco che arreca una similitudine a dimostrare la visione che li apparve, dicendo: Quali Tornan le postille; cioè le rappresentazioni e figure, dei nostri visi; cioè dei volti di noi omini, per vetri trasparenti; questo dice a differenzia delli specchi che non sono trasparenti, perchè ànno lo piombo di rieto, e tersi; cioè e forbiti sì che non siano macchiati, nè appannati, O ver per acque nitide; cioè nette e monde, e tranquille: nitide pone, a differenzia de’ paduli, tranquille, cioè riposate, a differenzia de’ fiumi, Non sì profonde; cioè non sì alte, che i fondi sian persi; cioè perduti; questo dice a differenzia dei fossi cavi e del mare, li fondi dei quali sono tanto cupi che non si vedono, anco si vedono neri; e però si potrebbe intendere che i fondi siano persi; cioè neri, e queste sono l’ acque purissime delle fonti che sono chiarissime e basse e riposate, e però in esse si specchia la faccia umana come in specchio, e così nei vetri, Debili sì; cioè per sì fatto modo mancante dei loro colori tornano le postille, cioè le figure e le rappresentazioni dei nostri visi per li vetri e per l’acqua detta di sopra, che perla; ecco che arreca un’altra similitudine della perla che è bianca, nella fronte che è bianca, e però dice, che perla: perla è una pietra preziosa che si trova nelle conche marine, in bianca fronte; cioè d’alcuna donna, e però dice in bianca fronte, perchè si portano in capo delle donne che sono più bianche che li omini, e se non sono, si fanno, Non vien men forte; che vengano le postille dei nostri visi per lo vetro e per l’acqua, le quali vengnano sì debili che la perla nella bianca fronte non vien più debile. E puossi dire che qui sia abusio nella significazione del comperativo, quando vale tanto quanto lo suo contrario, come si dice: Lo mare di Pisa è più dolce che li altri mari, cioè meno amaro, e così men forte, cioè più debile, alle nostre pupille; cioè a le luci dei nostri occhi. E per questo dà ad intendere che, come non si vede bene la perla quando è in su la bianca fronte de la donna; così non si vedono ben chiaramente l’anime che apparittono a lui nel corpo lunare. Tali; cioè sì fatte come tornano le imagini dei nostri volti dei vetri, o dell’acqua, viddi’io; cioè Dante, più facce a parlar pronte; cioè sollicite et apparecchiate di parlare meco, Perch’io; cioè per la qual cosa io Dante, dentro; cioè nella mia mente pensando, corsi all’error contrario A quel; cioè errore, che accese; cioè lo quale accese, amor tra l’omo e ’l fonte; cioè tra Narcisso e ’l fonte nel quale si specchiava. Questa fizione si è detta di sopra nella prima cantica nel canto xxx, quine dove dice: E per leccar lo specchio di Narcisso ec. Ovidio Met. 1. iii lo pone, e ben dice errore contrario: imperò che elli; cioè Narcisso, vedendo la sua figura nell’acqua, credea che fusse una persona nell’aqua, che fusse distinta da lui; e Dante pensava quello che avvenisse perchè le persone fusseno di rieto a lui e rilucessono, come Narcisso riluceva nell’acqua, nel corpo lunare, e quello le rappresentasse come uno specchio, e però si volse a drieto per vedere se v’ era persona, come si dirà di sotto. E per questo dà ad intendere l’autore ch’elli vidde nel corpo lunare anime che li volevano parlare, delle quali dirà di sotto.
C. III — v. 19-33. In questi cinque ternari lo nostro autore finge com’elli, accortosi di quelle anime che li erano apparite nel corpo lunare credendo che si rappresentasseno quine, e come l’imagine della cosa posta dinanzi nello specchio, si volse a drieto per vederle, et a rieto non vidde alcuno; e però, rivoltosi inanti a Beatrice sorridente, fu dichiarato da lei che quelle anime erano nel corpo lunare e della loro condizione, dicendo così; Sì subito; cioè altresì tosto, com’io; cioè com’io Dante, di lor; cioè di quelle anime, m’accorsi, cioè m’avvidi, Quelle; cioè anime, stimando specchiati sembianti; cioè imagini che si rappresentassono: nello specchio si rappresentano le cose poste dinanzi, li occhi torsi; cioè miei io Dante a drieto, Per veder di cui fosser; li sembianti, cioè le imagini e li atti che io avea veduti nella Luna. E nulla viddi: io Dante di rieto a me, e ritorsili avanti; cioè inanzi li miei occhi, Dritti nel lume; cioè nelli occhi che sono illuminati dal lume; e però si pone lo lume per li occhi, della dolce guida; cioè di Beatrice, che è mia guida a questo montamento, Che; cioè la quale, sorridendo ardea nelli occhi santi; cioè risplendea ne li occhi suoi che sono santi, e sorridea de la mia credulità. E qui è da notare che l’autore parla allegoricamente, volendo dare ad intendere che elli considerò se questa fizione ch’elli à posto verisimile, si potesse verificare per ragioni e per demostrazioni altre che della santa Scrittura 7, che è ardentissima ne lo investigare la verità et illuminatissima a cognoscerla; e li occhi suoi sono la ragione e lo intelletto dei santi uomini, o lo intelletto allegorico e anagogico che significano l’uno occhio; e letterale e morale che significano l’altro occhio. E finge che sorridesse, perchè usanza è de’ savi di sorridere, cioè temperatamente ridere dello errore dei semplici omini che ànno la verità inanti e vannola cercando altre; e però finge che poi ella lo dichiari della verità la quale ad altra scienzia non può essere nota: imperò che l’ordine dei beati in vita eterna a niuna scienzia è noto, se none alla santa Teologia, e lui riprende della sua simplicità, e però seguita: Non ti meravigliar; tu, Dante, finge che dicesse Beatrice, perch’io; cioè Beatrice, sorrida: sorridere è temperatamente ridere: imperò che è meno che ridere, e questo s’appartiene ai savi, Mi disse; cioè disse a me Dante Beatrice, appreso; cioè compreso et inteso, il tuo pueril quoto; cioè lo tuo puerile iudicio 8: quotare è iudicare in quale ordine ogni cosa sia 9, e però quoto si può pilliare per lo iudicio; e dice puerile, cioè di garzone che è più che fanciullo: fanciullo è infine a li 7 anni, e garzone è infine ai 14; ine la quale età non è anco discrezione perfetta sopra tutte le cose, benchè sia in alcuna cosa, cioè ine le cose manifeste, e però riprende Beatrice Dante che sopra le cose manifeste, come è la verità, non fida lo suo piè, cioè la sua affezione. Secondo la lettera: Non ti meravigliare se io sorrido, vedendo che ài lo vero inanzi: imperò che vedi questi spiriti che sono nella Luna, et avvisi a drieto per vedere se sono rappresentati quine, come nello specchio le cose apposte di fuori, bene aduuqua lo tuo iudicio puerile et in vano ti rivolge a drieto: non ti rivolgere, che vere sustanzie sono quelle che vedi poste in questo basso pianeto, perchè furno manche nel suo voto; e però dice lo testo: non fida lo piè; cioè tuo, Dante, che significa l’affezione che anco tornava a drieto alle scienzie mondane, non fidandosi della vera scienzia, cioè di Beatrice che è scienzia di verità; e però dice: Che sopra ’l ver; cioè sopra la verità che io ti mosterrò, et òttela mostrata insino di sopra, quando disse nel secondo canto: Drizza la mente in Dio grata, mi disse, Che n’à coniunti colla prima stella. Nel qual luogo si dimostra in che modo si debbia intendere come l’omo si coniunga, o vero l’anima col pianeto, cioè quando l’omo adatta sè ad operare secondo la influenzia del pianeto, come ora puossi ponere esemplo de la Luna, la quale à a dare influenzia nell’anime nostre di mutamento 10 a’ beni temporali e mondani, et ai beni spirituali et eterni, li quali si cognoscono per comperazione; e dà influenzia di mutabilità dell’uno bene nell’altro, cioè del maggiore nel minore, e del minore nel maggiore; nella quale influenzia vince lo savio quando discerne che l’uno bene sia migliore che l’altro et al migliore s’attiene; ma quando è ingannato dai beni temporali, a quelli s’inchina secondo la influenzia della Luna. Et allora si dice coniungere con lei con biasimo, s’elli si dà al tutto a quelli sì, che abbandoni lo vero bene: imperò che è dannato; ma s’elli si dà non a lucro: ma discendi 11 dal migliore a lo men buono, benchè non si perda: imperò la grazia d’Iddio supple: imperò che àe minor grado di beatitudine, si può anco dire che sia con biasimo. Ancora si dice coniungere l’omo col pianeto, quando l’omo s’inalza a considerare la influenzia del pianeto e ’l moto suo, e secondo questo modo lo nostro autore si coniunse colla Luna, e così si dè intendere. E che ora finga che quelle anime siano nel corpo della Luna si dè intendere ch’elle vi fusseno quanto a l’operazione che aveano fatta nel mondo, amando li beni spirituali e temporali onesti, e quelli seguitando insino a la fine coi quali si può meritare vita eterna per mezzo della grazia d’Iddio, quando quelli beni sono consecrati per la grazia dello Spirito Santo, siccom’è lo matrimonio lo quale, benchè per sè non sia di merito, può essere accompagnato da altre virtù per le quali diventa meritorio. Et imperò che la influenzia di tale mutamento si dà al primo pianeto; cioè alla Luna, la loda di tal bene si rende 12 a lui, e similmente lo biasimo d’esser caduto da maggior bene a minore, benchè ’l savio signoreggia tutte le influenzie dei pianeti, mediante la grazia d’Iddio. E perchè da quella opera si comprende lo merito e secondo lo merito si dà lo premio, però finge l’autore che tutte l’anime che sono in vita eterna si rappresentino più alte e meno, secondo l’operazioni che ànno fatto in questa vita, con le quali si sono adattate et assimilliate all’influenzie dei corpi celesti. E però come sono nove cieli; così finge che siano nove gradi di beati in vita eterna secondo li nove ordini de li angeli; e che ciascuno grado si rappresenti nel suo cielo, secondo la virtù della influenzia di tale cielo, cioè che la loda e lo biasimo di tale operazione s’arreca a tale cielo, e di quinde si comprende di che grado di beatitudine sia degna l’anima in cielo, come si dimosterrà questo nel processo. E perchè qui si fa menzione delle influenzie dei pianeti, dirò in ciascuno pianeto le influenzie sue, secondo che pone Abbumasar 13, trattato vii del suo introduttorio, dimostra 14 contra non che tutte si trovino in uno omo; ma trovansi le più secondo che ’l pianeto si truova nell’essere suo. E dèsi notare quando le influenzie della Luna le quali elli pone in questa forma: La Luna è fredda, umida e flemmatica, calda accidentalmente et à a dare leggerezza, attitudine in ogni cosa, desiderio d’allegrezza, di bellezza e di loda, incominciamento di tutte opere, scienzia di ricchi e di nobili, ventura nel vivere, acquistamento ne le cose di quel che vorrai, religione nella fede, scienzie superiori, multitudine di pensieri, nigromanzia, acuità d’animo nelle cose, geometria, scienzia delle terre e dell’acque e loro misure e numero, debilità dei sentimenti, femine nobili, matrimoni, pregnesse, notricamenti, imbasciate, bugie, accusazioni, essere signore coi signori, servo coi servi, e confarsi con ogni omo di simile natura, oblivione di quella, timido, di simplice cuore, lusinghevile, onorevile appresso li omini, agevile a loro, non appiattare suo secreto, moltitudine d’infirmità e cura d’acconciare li corpi, tondamento di capelli, largezza di cicli 15, pogezza di coito. Queste sono le significazioni della Luna sopra le cose che truova, lo biasimo e l’onore delle quali secondo li Astrolagi si recano al pianeto; ma l’omo savio le buone influenzie seguita e l’altri: lassa. benchè tutte sono necessarie e buone al vivere dell’universo. Seguita: Ma te; cioè Dante, rivolve; cioè lo tuo puerilc iudicio, a voto; cioè in vano, come suole; tu se’ usato di ricorrere alla Fisica per le cagioni delle coso naturali, e così vi ricorri ora per cagione delle cose sopra naturali, et a questo non è sufficiente la Fisica; ma la Teologia. Vere sustanzie son ciò che tu vedi; cioè ciò che tu vedi nel corpo lunare sono vere sustanzie e non imagini, e vero dice; cioè cio che tu vedi che si rappresenti in questo corpo è, Vere sustanzie: impero che dalla influenzia lunare depende l’operazioni delle vere sustanzie, e però quine si rappresentino, Qui; cioè in questo luogo, relegate; cioè di lungi tanto da Dio poste: imperò che come questo è lo nono ultimo cielo in verso la terra; così quelle anime che qui si rappresentano sono nell’ultimo grado di sotto in vita eterna, per manco di voto: cioè per difetto della loro promissione: voto è promissione fatta a Dio dall’omo; e però manco di voto è manco di promissione: imperò che se fusseno state costanti nel voto fatto da loro, sarebbeno state in più alto grado, cioè nel grado delle vergini. E come detto è, da la influenzia de la Luna viene la incostanzia delle cose mondana e temporali e la mutabilità che l’omo à nel suo desiderio dall’uno bene all’altro; e nel mondo alcuno bene mondano e temporale è, lo quale l’omo seguitando et operando, può meritare vita eterna per mezzo della grazia di Dio, e questo è lo matrimonio che è sacramento de la Chiesa, nella quale coll’altre virtù che si denno avere l’omo si può beatificare colla grazia d’Iddio. E per questo finge l’autore che l’anime che sono vissute santamente nel matrimonio, benchè siano in vita eterna, essenzialmente nell’ultimo grado si rappresentano quine; cioè nel corpo della Luna, perchè da quella influenzia non si sono partite nella vita. se già per più alte virtù, oltra quelle che si richiedono al matrimonio, non avesse meritato più alto grado; e quelle che da maggior grado si sono partite sforzate e venute a quello, anco quine si rappresentano: imperò che lo biasimo d’essersi partite in maggior grado viene di quinde, e la loda di non essersi inchinate a minor bene anco è venuta di quinde. Puossi anco intendere che ogni fidele cristiano, quando si baltezza che entra nella religione cristiana, fa volo e promissiome a Dio d’aver la sua onesta conversazione nella congregazion dei cristiani, d’obbedir a’ prelati et ai signori mandati da Dio, come consillia l’Apostolo, e castità o verginale o matrimoniale: e chi osserva perfettissimamente questo voto è del supremo grado, chi meno è del secondo e così poi descendendo; e chi manca tanto che meriti essere dell’infimo si rappresenta nella Luna, e però ben dice che ogni uno che quine si rappresenta è per manco di voto: imperi) che, se di voto perfetto o più perfetto, si rappresenta nei gradi più alti. E questo è quello che l’autore intese in questa sua fizione, che è conforme alla verità della santa Chiesa, siccome si mosterrà di sotto 16. Però parla con esse; cioè parla con quelle anime, et odi; cioè da loro ciò che ti diranno, e credi; cioè tu, Dante, Che la verace luce; che è Iddio, che è vera luce, che; cioè la quale, li appaga; cioè che li contenta, non lassa lor torcer li piedi; cioè le loro affezioni, Da sè; cioè da lui, da Dio: imperò che sono confermati in grazia: imperò che sono beati 17.
C. III — v. 34-45. In questi quattro ternari lo nostro autore finge, come confortato da Beatrice che parlasse con quelle anime ch’elli vedea, e certificato ch’erano vere sustanzie, e confortato che udisse da loro e credesse 18 ch’elle erano piene di carità: imperò che erano beate, incominciò a parlare con loro dicendo così: Et io; cioè Dante, drizza’mi all’ombra, che parea più vaga Di ragionar; ecco che finge che tra quelle sustanzie che avea vedute, ve ne fusse alcuna più vaga che l’altre di ragionar con lui, inverso la quale finge che dirizzò lo suo sermone, secondo lo consillio di Beatrice; sopra la quale fizione si può considerare che l’autore avesse questo intendimento; cioè dimostrare che non è contro la Teologia quello ch’elli dice, intendendosi per lo modo che detto è: e cominciai; cioè io Dante, Quasi com’om; ecco che fa similitudine, cui; cioè lo quale, troppa vollia smaga; cioè consuma. O ben creato spirito: ogni spirito che è beato è ben creato, cioè in buona ora e buona felicità, ch’ai rai Di vita eterna la dolcezza senti; cioè che ai raggi, che io ti veggo, cognosco che tu senti la dolcezza di vita eterna: li raggi, che ànno intorno a sè l’anime beate, sono segno de la loro beatitudine, Che; cioè la quale dolcezza, non gustata; cioè non assaggiata, non s’intende mai: nessuno può intendere la dolcezza di vita eterna, se non l’assaggia, Grazioso mi fia; cioè a me Dante 19, se mi contenti Del nome tuo; cioè che tu mel dichi, e della vostra sorte; cioè de la vostra parte della beatitudine, cioè che tu mi dichiari in che stato siete di beatitudine. Ond’ella; cioè unde la detta anima addimandata da me, pronta; cioè presta a rispondere et apparecchiata, e con occhi ridenti; e per questo si mostrò allegra, rispose, s’intende, così: La nostra carità; cioè di noi anime beate, non serra porte; cioè non leva audienzia et adempimento, Ad iusto prego; cioè che fatto ci sia, se non come quella; cioè carità, Che; cioè la quale, vuol simile a sè tutta sua corte; e questa è la carità d’Iddio, che vuole tutta la corte di paradiso simile a sè in carità; cioè che ogni beato sia pieno di carità, quanto ne cape nel suo vagello: nessuno potrebbe avere tanta carità, quanta àe Iddio, perchè la sua carità è infinita e quella dell’omo è finita.
C. III — v. 46-57. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come una di quelle sustanzie che li erano apparite nel globo della Luna, addimandate e pregate da lui che li dovessino dire lo suo nome e la sua condizione, ora li rispuose in questa forma: Io fui al mondo vergine sorella; disse una di quelle anime addimandate; e perchè dice vergine sorella, dà ad intendere che fusse monaca di santa Chiara, E se la mente tua; cioè di te Dante, ben si riguarda; cioè bene si ricorda: a l’ora la mente ben si riguarda, quando ella si ricorda: imperò che mente tanto viene a dire, quanto cosa che si ricorda; dunqua guardare con la mente è ricordarsi, Non mi ti celerà; cioè non appiatterà me a te, lesser più bella; ora, ch’io non era quando io era nel mondo: imperò che nel mondo mi cognoscesti bella, et ora anco mi dei cognoscere, ben ch’io sia più bella che allora, Ma ricognoscerai; cioè tu, Dante, ch’io; cioè io che ti parlo, son Piccarda; questa fu quella, della quale fu detto nella seconda cantica nel canto xxiv, che fu sorella di Forese amico di Dante e di messer Corso Donati da Firenze 20: chi vuole sapere chi fu ritruovila quine, dove dice: La mia sorella, che tra bella e buona, dove dice a Dante ch’ella era in vita eterna, Che; cioè la quale, posta qui; cioè in questo luogo, con questi altri beati; cioè li quali sono meco, Beata sono nella spera più tarda; cioè nella spera della Luna, che è più bassa che tutte l’altre spere et à più tardo moto che tutti li altri pianeti e cieli. E questo si pruova: imperò che, avendo minor cerchio che li altri in equale spazio gira che li altri, ben che abbiano maggior giro, secondo lo moto uniforme del primo mobile, e secondo lo moto difforme et erratico dei pianeti si spaccia più tosto che li altri della sua revoluzione; ma sono tanto maggiori li altri e questo cerchio tanto minore, che ben che li altri girino in maggior tempo e questo è minore, questo è più tardo che li altri; e però ben si può dire che sia Beata nella spera più tarda: cioè in quella della Luna. E questo finge, per figurare che è in vita eterna nel più basso grado che vi sia et in quello che meno à di carità, perchè meno festino lo pianeto si muove per lo cerchio che quello figura, lo quale è mosso da motori che meno grado ànno di carità: imperò che è mosso dalli angnoli. Li nostri affetti: cioè li nostri desidèri di noi spiriti, che siamo in questo grado, formati; cioè in su la forma rimasi, cioè nell’anima che è forma dell’omo, e non più nel coniunto dell’anima e del corpo, che solo infiammati; cioè li quali affetti solamente infiammati dell’ardore de la carità, Son nel piacer dello Spirito Santo: imperò che altro desiderio non ànno, se non di piacere allo Spirito Santo dal quale procede la carità, Letizian; cioè letizia ànno e godono, del suo ordine; cioè del suo grado di beatitudine nel quale ciascuno è posto. E questa sorte; cioè questa parte di beatitudine, che; cioè la quale, par giù cotanto: però che è più bassa che tutte l’altre come si mostra nel corpo della Luna, che è più bassa che tutti li altri pianeti, Però n’è data; cioè a noi è assegnata, perchè fuor negletti; cioè impigriti e dispregati da noi, Li nostri voti; cioè le nostre promissioni che avevamo fatte a Dio, e voiti: cioè mancanti e diminuiti, in alcun canto; cioè in alcuna sua parte: chi entra in monasterio promette tre cose a Dio; prima, onesta conversazione nel monisterio, obedienzia e castità. Et è da notare che voto è, secondo che dice lo Maestro delle sentenzie lib. iv, distinzione xxxviii 21, Testificatio quaedam promissionis spontaneae quae Deo et de his quae sunt Dei fieri debent. Et al voto si richiedono, come appare per la detta definizione, tre cose; prima, la deliberazione; secondo, proponimento di volontà; la terza, la publicazione: e queste tre cose si richiedono al voto solenne singolare, e così dice la diffinizione: imperò che ’l voto è di due spezie, cioè comune e singulare; comune quello che si fa nel battesimo quando si risponde: Abrenuntio, diabulo, et pompis eius; singulare è quello, che l’omo fa per sua propria volontà, d’osservare alcuna cosa. Ancora lo singulare si divide: imperò che alcuno è privato, et alcuno solenne; privato è quello che l’omo fa da sè in occulto; solenne è quello che si fa in publico nel cospetto della chiesa. Dice lo detto maestro che lo voto solenne non si può rompere 22, credo che in queste così fatte si dispensano l’opera, o se non avendo forsi tanta contrizione nella fine che basta, l’autore voglia che si siano potute salvare. E per mostrare questo à fatto questa fizione, et ancora perchè non ruppono 23 lo voto per lor propria volontà; ma furno sforzate sì, che più leggiermente potevano essere a salute. Queste anime di quelle femine che abandonorno la religione ratte dei monasteri, rompendo lo voto della conversazione onesta nel monasterio, potettono tenere poi onesta conversazione; ma non nel monasterio, e così si ruppe quanto a questa ultima parte: ruppeno ancora in parte lo voto de l’obedienzia in tanto, che non furono obedienti alle badesse dei loro monasteri; ma tennenlo in tanto che furno obedienti ai loro mariti: promisseno castità, ruppeno la castità verginale; ma tenneno la castità matrimoniale, e così furno manchi e voiti li loro voti in alcuna parte. Puossi anco intendere che l’autore intendesse che li voti loro fusseno manchi nell’opere di fuora; ma non nella voluntà loro d’entro, la quale sempre stette ferma di volere osservare lo voto, e non furno mai contente che fusse rotto; ma stavano mal contente per non avere peggio, o per non potere fare altro. E perchè mancorno de la virtù, mancorno del merito, e così del premio; ma perchè osservorno bene lo sacramento del matrimonio, furno salve per merito di quello coll’altre virtù che ebbono: che lo sacramento del matrimonio non è meritorio tanto che vasti a vita eterna: imperò ch’elli vale a fuggire lo peccato; ma ad acrescimento di merito: fuggesene lo peccato de la fornicazione, e colle virtù che si possono operare stando in quello stato s’acquista merito; unde segue poi lo premio. Puòsi anco intendere, come è stato detto di sopra, che in altro modo si può intendere lo mancamento del voto che di quelli della religione, dei quali pare sonare lo testo. E questo è quello che l’autore vuole dimostrare in questa parte.
C. III— v. 58-69. In questi quattro ternari Io nostro autore finge com’elli rispuose a Pictarda, e com’elli la dimandò d’alcuno dubbio, al quale apparecchiandosi di rispondere, mostrò grande allegrezza; e nell’altra lezione, che seguita, risponderà al dubbio. Dice dunqua così prima: Ond’io; cioè per la qual cosa io Dante, a lei; cioè a Piccarda rispuosi, s’intende: Ne’ mirabili aspetti Vostri; cioè ne’ meravigliosi ragguardamenti vostri o nelle vostre meravigliose apparenzie, risplende non so che divino; cioè non so che cosa di divinità: imperò che in voi alcuna cosa di divinità riluce, Che; cioè la qual cosa divina, vi trasmuta dai primi concetti; cioè da li primi segni che l’omo s’à impresso nella fantasia, per arricordarsi de la prima, li quali si chiamano concetti: imperò che la fantasia dentro a sè insieme li pillia. Però non fui; cioè io Dante, festino; cioè avaccevile 24, a rimembrar; cioè a ricordarmi di te, Ma or m’ aiuta; cioè me Dante a raffigurarti, ciò che tu mi dici; cioè tu, Piccarda, a me Dante: imperò che mi dici lo nome tuo e la condizione tua, e la dichiaragione che m’ài fatto dell’essere più bella per la cagione della letizia, Sì che raffigurar; cioè te, m’è più latino; cioè è più agevile a me. Et ora muove Io dubbio: Ma dimmi: cioè tu, Piccarda, a me d i s o 111. [ Dante: Voi, che siete qui felici; cioè beati vi rappresentate in questo luogo, Desiderate voi più alto loco; che questo, s’intende, Per più vedere; che non vedete ora della gloria d’Iddio, s’intende, o per più farvi amici; cioè a Dio che non siete: imperò che chi più ama Iddio, più si fa amico a Dio? Ecco che dimostra l’atto che fe Piccarda inanzi che rispondesse al dimando, dicendo così: Con quelle altre ombre; che erano con lei, pria; cioè prima, sorrise un poco; cioè sogghignò, che è confusamente e non apertamente ridere. Da indi; cioè di poi, mi rispuose; cioè a me Dante, tanto lieta; cioè Piccarda nella sua apparenzia, Ch’arder parea; cioè che ardere parea, nel primo foco; cioè nel primo splendore del primo pianeto, cioè de la Luna, che è lo primo che si truovi montando dalla terra in su verso lo cielo, d’amor; cioè di carità: tutta la corte dei beati arde di fervore di carità in qualunqua stato sia, o alto o basso; niente di meno ciascuno àe tanto di carità, quanto in lui ne cape. E qui finisce la prima lezione del canto iii, ora incomincia la seconda.
Frate, la nostra voluntà ec. Questa è la seconda lezione del canto terzo, nella quale Piccarda risponde a Dante nel dubio mosso di sopra, secondo che finge l’autore; et appresso finge ch’elli movesse altro dubbio a Piccarda, e com’ella lo solve. E dividesi questa lezione in parti cinque: imperò che prima finge come Piccarda, seguitando lo suo parlare, dichiarò lo dubbio mosso di sopra dall’autore; nella seconda finge com’elli, veduta la dichiaragione del primo dubbio, ne mosse uno altro, et incominciasi quine: Chiaro mi fu allor ec.; nella terzia parte finge com’ella incominciò a dichiarare l’altro dubbio mosso da lui, et incominciasi quine: Perfetta vita ec.; nella quarta parte finge com’ella dichiara a lui chi fu l’altra ombra che era presso a lei, et incominciasi quine: E questo altro splendor ec.; nella quinta finge come, compiuto lo parlamento, incominciò a cantare Ave Maria e come sparitte da lui e come si rivolse a Beatrice, et incominciasi quine: Così parlommi ec. Divisa la lezione, ora è da vedere lo testo colla esposizione litterale, allegorica e morale.
C. III — v. 70-87. In questi sei ternari lo nostro autore finge come Piccarda, continuando lo suo parlare, li dichiarò lo dubbio ch’elli avea mosso, dicendo così: Frate; questo è nome di carità, e però finge che Piccarda lo chiamasse Frate, per dimostrare che nella vita beata è perfetta carità, la nostra voluntà; cioè di noi beati, quieta; cioè fa quieta, cioè riposata e contenta, Virtù di carità; cioè d’amore che aviamo in verso Iddio, et inverso lo prossimo quanto si dè; e perchè noi amiamo perfettamente Iddio, stiamo contenti di ciò ch’elli vuole, et accordasi la nostra voluntà colla sua; e perchè amiamo lo prossimo come noi medesimi, siamo contenti del bene del prossimo, e godiamone come del nostro; e però la voluntà nostra è riposata, che; cioè la qual virtù, fa volerne; cioè noi volere, Sol; cioè solamente, quel ch’avemo; cioè noi beati, e d’altro non ci asseta; cioè e d’altro non ci fa desiderosi, se non di quel che noi abbiano 25. Se desiassemo esser più superne; cioè se noi desiderassimo d’essere in più alto grado che noi non siamo, Foran discordi li nostri disiri; cioè sarebbono discordevoli li nostri desidèri, Dal voler di Colui; cioè d’Iddio, che; cioè lo quale, qui; cioè in questo luogo, ne cerne; cioè iudica noi che debiamo stare. Che; cioè la qual cosa, cioè che’ nostri voleri si discordino dal volere d’Iddio, vedrai non capere; cioè tu, Dante, in questi giri; cioè cieli che si muoveno in giro, S’ esser; cioè se essere, in carità 26 è qui; cioè in questo luogo, necesse; cioè necessario. A la dubitazione, che l’autore à mosso di sopra; cioè se l’anime che sono in vita eterna in diversi gradi secondo diversi meriti, desiderano maggior grado che l’abbiano, si può rispondere che non per questa ragione l’ultima felicità dell’anima è la beatifica visione de la Divina Essenzia: essa contenta ogni desiderio, dunqua non si può desiderare altro che l’anima abbia. La maggiore è vera, che non è altro vita eterna che vedere Iddio; la seconda anco beati, e d’altro non ci asseta; cioè e d’altro non ci fa desiderosi, se non di quello che noi abbiamo è vera: imperò che, se non contentasse ogni desiderio, non sarebbe perfetta felicità; dunqua seguita che ogni anima sia contenta e non desideri più. E se avviene che una abbia maggior felicità che l’altra, questo è da la parte de la capacità dell’anima, e da la parte del donatore sì come de’ vagelli grandi e picculi che, posti alla fonte che sempre versa, ciascuno s’ empie quanto ne cape, benchè l’uno abbia maggior tenuta che l’altro. Ma lo nostro autore, fingendo che Piccarda risponda, arreca una altra ragione: E se la sua natura; cioè di questo luogo, ben rimiri; cioè bene consideri: prova che discordarsi dal volere di Dio non è possibile all’anime beate che sono in cielo, per questo antecedente; se è necessario ai beati che sono in cielo in carità perfetta essere, dunqua non si possano discordare dal Volere Divino: l’antecedente si pruova per questo; dove Iddio è, quine è carità perfetta; Iddio è in cielo, dunqua in cielo è carità perfetta: chi è nel luogo dov’è carità perfetta non può essere sensa carità perfetta, dunqua necessario è che’ beati, che sono in cielo, siano in carità perfetta; e se sono in carità con Dio perfetta, non si possano discordare da Dio. Anti è formale ad esto beato esse Tenersi dentro alla divina vollia; dice che la forma della beatitudine è essere contento alla volontà d’ Iddio, e non volere altro che vollia Iddio, Per che; cioè per la quale cosa, cioè per tenersi dentro alla Voluntà Divina, una fansi nostre vollie stesse; cioè s’accordano insieme le nostre voluntadi: imperò che s’accordano colla voluntà d’Iddio, ecco la conclusione: Sì che come noi siam di sollia in sollia; cioè noi beati di grado in grado in vita eterna, essenzialmente e qui in questi cieli per rappresentamento, In questo regno; cioè d’ Iddio, a tutto ’l regno piace: imperò che ogni uno ne sta contento, Come a lo Re; cioè come al re di questo regno, cioè a Dio, piace, ch’al suo voler n’envollia; cioè noi fa volere Iddio quello che vuole elli. E la sua: voluntà; cioè d’Iddio, è nostra pace: tanto à pace la mente, quanto ella vuole lo bene, et Iddio non vuole se non bene; dunqua tanto à pace la voluntà nostra, quanto ella vuole quello che vuole Iddio. Ell’è; cioè ella è, cioè la voluntà d’Iddio, quel mare; cioè quella profondità che non si può comprendere, come dice l’Apostolo: Voluntas Dei abyssus multa — , al qual; cioè mare, tutto; cioè ogni cosa, si muove; cioè tutte l’acque si muoveno dal mare per andare al mare, e così tutte le voluntà e tutte le cose da Dio e da suo volere si muoveno, per andare alla voluntà d’iddio, Ciò ch’ella crea; cioè che crea la voluntà d’iddio: creare è di nulla fare qualche cosa, e questo senza mezzo fa Iddio: l’operare d’Iddio è lo volere, com’elli vuole, così la cosa è fatta, o che natura; cioè la natura naturata è vertù messa nelle cose da Dio creante di cose simili, face; cioè produce ad essere da la preiacente materia: imperò che fare presuppone materia de la quale si fa la cosa; ma creare niente presuppone e pertanto dà intendere che tutte le cose create e fatte vanno secondo che Iddio vuole, e però disse s. Agustino 27: Voluntas Dei est prima et summa causa omnium corporalium, et spiritualium motionum ec.
C. III — v. 88-96. In questi tre ternari lo nostro autore finge come elli, dichiarato del dubio detto di sopra, dimanda dichiaragione d’un altro, dicendo così: Chiaro mi fu allor; cioè allora mi fu manifesto e chiaro a me Dante, com’ogni dove; cioè com’ongni luogo, in Cielo; cioè in qualunque cielo sia, è paradiso; ecco che per le parole, che à finto che dicesse Piccarda di sopra, dice che li fu manifesto che ongni luogo del cielo et ongni cielo è paradiso: imperò che li cieli sono di più pura materia, e di più nobil forma che possi essere cosa creata; e però essere in essi è essere in paradiso: imperò che in essi riluce la Divina Gloria, e la Divina Bontà più che in nessuno altro luogo; e però se paradiso è, luogo in essi cieli è, e sì la grazia; cioè benchè la grazia, Del Sommo Ben; cioè d’Iddio, che è sommo bene, non vi piove d’un modo; cioè benchè in uno luogo più che in uno altro descenda la grazia d’Iddio: imperò che, come è stato detto di sopra, li cieli superiori ànno maggiore e milliore influenzia che quelli di sotto, ciascuno secondo lo grado suo come la grazia di Iddio si sparge sopra essi. Ma sì come elli avvien s’un cibo sazia; ecco che arreca la similitudine volendo descendere all’altro dubbio, dicendo che come avviene che se uno cibo sazia l’appetito, E de l’altro; cioè cibo, rimane ancor la gola; cioè lo desiderio e l’appetito della gola, Che quel si chiere; cioè quello, di che l’omo non è sazio, e di quel si ringrazia; cioè di quello, di che l’omo è sazio, si ringrazia 28 lo donatore, Così fec’io; cioè io Dante; ecco che adatta la similitudine, con atto e con parola; cioè che con atto e con parole ringraziai Piccarda che m’avea dichiarato lo dubbio detto di sopra, e dimandai che mi dichiarassi questo altro; cioè quali furno li suoi voti che furno negletti, e voiti in alcun canto; ma parla l’autore sotto similitudine, dicendo: Per apprender di lei; cioè per imparare da lei; ecco perchè chiesi, qual fu la tela; cioè qual fu la vita virtuosa ch’ell’ incominciò, come s’incomincia quando s’ordisce, Unde; cioè per la qual tela, non trasse; cioè non tirò e gittò, infin al cò, cioè infine al capo, cioè infine alla fine: tutte le cose create ànno due capi, cioè lo principio e lo fine, la spola; questa spola è lo instrumento, con che si tesse e gittasi lo filo per la tela. E per questo dà ad intendere qual fu la tela, che tu non compiesti di tessere; e per questo significa quale fu la vita virtuosa, che incominciasti e non continuasti infine al fine 29.
C. III— v. 97-108. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come Piccarda al suo dimando rispuose, dichiarando in che modo furno manchi li suoi voti, dicendo così: Perfetta vita; cioè religiosa e santa, et alto merto; cioè merito eccessivo, inciela; cioè in cielo alluoga, Donna; questa è santa Chiara, de la quale intende, più su; cioè in più alto cielo, come furno più alti li suoi meriti, mi disse; cioè disse Piccarda a me Dante, alla cui norma; cioè a la regola della quale, Nel vostro mondo; ecco che dice a Dante nel vostro mondo a differenzia del suo 30, giù; a significare che è basso quanto al luogo, e quanto alla nobilità per rispetto del suo, si veste e vela; cioè si piglia vestimento et adornamento e velamento, come si vestono e velano le monache di santa Chiara 31; ecco la cagione: Perchè; cioè acciò che, sin al morir; cioè infine alla morte, si vegghi o dorma; cioè sempre si viva o dormendo o vegghiando, Con quello sposo; cioè con Cristo, ch’ogni voto accetta; cioè lo quale accetta ongni voto 32, Che; cioè lo quale voto, carità conforma; cioè fa conforme e concordevile, al suo piacer; cioè di Cristo. Ecco che dichiara quali voti sono quelli che piacciono a Dio e che Iddio accetta; cioè quelli che procedono da carità e conformansi colla sua voluntà e col suo piacere. Dal mondo, per seguirla; cioè la donna detta di sopra, cioè santa Chiara, giovinetta; cioè io Piccarda, che era ancora giovinetta, Fuggi’mi; ecco come dice che fuggì dal mondo a la religione del monasterio, e nel suo abito m’inchiusi; cioè io Piccarda fecimi monaca e presi l’abito di santa Chiara 33, E promissi la via della sua setta; e per questo dimostra che facesse professione nel monasterio, di po’ la quale non è licito ai religiosi d’uscire della religione, e sono apostate 34 quando n’escono poi. Omini poi; cioè poi ch’io ebbi fatto la mia professione, nella quale si conferma lo patto fatto con Dio, usi al mal più che al ben: li omini scellerati sono quelli che non si fanno coscienzia di rapire li religiosi de le religioni, Fuor mi rapitten; cioè 35 me Piccarda, della dolce chiostra; cioè del chiostro e de la clausura del monasterio che era dolce a me, che mi contentava di vivere in religione, et è dolce ad ongni animo ben disposto. Dio lo si sa; cioè Iddio, al quale niuna cosa si può appiattare, sa questo; cioè, qual poi; cioè ch’io fui rapita del monasterio, mia vita fùsi; cioè come fatta fu la vita mia. E per questo vuole dare ad intendere l’autore che la vita sua fu poi onesta e buona appresso la vita religiosa.
C. III — v. 109-120. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come Piccarda, continuando lo suo parlare, li manifestò un’altro beato spirito che li era allato, che per simile modo fu rapito del monasterio e ridutto al mondo, e questo fu secondo che alquanti ànno scritto; ma lo testo dimosra che no, Gostanza de la casa di Baviera, la quale fu fatta monaca e del monasterio fu cavata, e fu donna dello imperatore Currado iii di Soave, filliuolo dallo imperadore Federigo ii di Soave, che fu lxxxxv imperadore contando dal primo del quale fu figliuolo ancora lo re Manfredi di Sicilia; ma non fu legittimo. E di questo imperadore Currado iii e di questa Gostanza imperadrice nacque Curradino, lo quale fu fatto decapitare dal re Carlo di Puglia e di Sicilia, come fu detto di sopra nel secondo canto del purgatorio. E dicesi che lo imperadore Federigo ii, avendo questo solo figliuolo legittimo, cioè Currado, cercò d’ammogliarlo di più alto sangue che potesse; e non trovandosi della casa di Baviera se non questa donna che era fatta monaca, perchè quelli di Baviera erano antichi più nobili 36 che altri della Mangna, fece accordio 37 coi parenti di fare lo parentado, e cavornola per forza del monasterio e diernola poi per donna allo imperadore Currado, come detto è. Fu un’altra Gostanza figliuola del re Tancredi di Sicilia, la quale fu mollie dello imperadore Arrigo vi di Soave, padre dello imperadore Federico ii di Soave, della quale fu detto nel canto iii della seconda cantica, quando disse: Nipote di Gostanza imperatrice; e di questa credo che l’autore nostro intendesse, la quale fu rapita del monasterio di Palermo e data per donna allo imperadore Arrigo vi, lo quale fu secondo imperadore coronato della casa di Soave: imperò che lo primo fu Federico primo, lo secondo fu esso, lo terzo fu Federico secondo. E questo par che vollia lo testo che seguita: imperò che questo Federico fu l’ultimo imperadore, che ricevesse corona di quelli di Soave; e però dice l’autore: E questo altro splendor; cioè questo altro spirito splendido, che ti si mostra; cioè lo quale si mostra a te Dante, Dalla mia destra parte; cioè dal lato ritto di me Piccarda, e che; cioè lo quale, s’accende Di tutto ’l lume della spera nostra; cioè della spera lunare dalla quale avemmo influenzia mentre che fummo nel mondo, osservando lo stato matrimoniale con quell’onestà e con quelle virtù che a quello stato s’appartengnano, le quali tutte ebbe la detta Gostanza; e però finge che s’ accenda ora di tutto lo lume della spera lunare, Ciò ch’io dico di me; cioè come io Piccarda fui rapita del monasterio e data al matrimonio, di sè intende: imperò che così fu rapita ella, e data al matrimonio. Sorella fu; cioè nel monasterio nel quale tutte si chiamano suore le monache, come li religiosi si chiamano frati per sengno di carità, che dè essere tra loro come tra i fratelli, e così li fu tolta Di capo l’ ombra de le sacre bende; cioè e così come a me li fu levato lo velo: e per questo dà ad intendere che l’una e l’altra fu consecrata e velata. Ma poi che pur al mondo fu rivolta; cioè la detta Gostanza maritata fu, che è stato mondano, Contra suo grado; cioè contra suo piacere: grado si dice, cioè grato; e grato significa piacere o piacevole, e contra buona usanza: imperò che non è onesto, anco è sozza cosa che le monache sacrate, che sono spose di Cristo, siano tolte dal matrimonio spirituale e date al corporale, e dallo sposo eterno al mortale, più che se la donna dello imperadore li fusse tolta e data ad uno vile omo, Non fu dal vel del quor giammai disciolta; cioè la detta Gostanza non lasciò mai coll’animo la religione; ma sempre l’osservò quanto potette. Quest’è; cioè questa è, la luce; cioè lo splendore: imperò che l’anime beate sono tutte splendide più che’l Sole, della gran Gostanza: imperò che così fu nominata e fu grande donna e di grande lingnaggio: imperò che fu di quelli di Baviera nata, secondo coloro che dicono che fu quella, che fu donna del re Currado, Che; cioè la quale, del secondo vento di Soave; cioè del secondo imperadore di quelli di Soave, Generò ’l terzo; cioè Curradino, e l’ultima possanza: imperò che in lui venne meno la casa di Soave; ma per questo lesto si può vedere che l’autore non intese di questa Gostanza: imperò che ’l re Currado non fu lo secondo, anco fu lo quarto: imperò che lo primo fu Federico primo, lo secondo Arrigo quinto figliuolo del re Federigo, lo terzo Federigo secondo filliuolo del detto Arrigo, e tutti e tre furno imperadori incoronati, e lo quarto Currado iii che non fu chiamato imperadore, nè coronato benchè elli si pilliava lo imperio per forza, e secondo questo si dè esponere lo testo, Che; cioè la quale, del secondo vento di Soave; cioè del secondo imperadore che fu dei duchi di Suave: Suave è uno ducato della Mangna che si chiama in Grammatica 38 Suavia, della quale nacque Currado terzio; ma non ebbe lo imperio. Questo fu Arrigo filliolo di Federigo primo duca di Suavia fatto imperadore, essendo nipote di Currado di Baviera suo antecessore; e questo Federigo fu lo primo imperadore dei duchi di Suave, lo secondo fu Arrigo v suo filliolo, del quale fu donna la detta Gostanza; e bene dice vento: imperò che le dignitadi mondane sono come vento: imperò che non ànno stabilità e fermezza, se non come lo vento, Generò ’l terzo; cioè Federigo secondo lo 39 quale aspettava d’ essere imperadore; ma fu morto, come è stato detto di sopra, e l’ultima possanza; cioè l’ultima potenzia della casa di Suave: imperò che dopo Federigo secondo nessuno ne fu poi chiamato imperadore di quella casa; prese bene Currado terzio lo imperio per forza; ma tosto moritte inanzi che si coronasse perchè fu avvelenato, del quale 40 nacque Curradino.
C. III — v. 121-130. In questi tre ternari et uno versetto lo nostro autore finge come Piccarda finì lo suo ragionamento, e finito si sparìo et elli tornò a ragguardare Beatrice, dicendo così: Così parlommi; cioè Piccarda parlò a me Dante così, come è stato detto di sopra, e poi cominciò: Ave Maria, cantando; ecco che finge che quelli beati spiriti cantasseno la salutazione della Vergine Maria, che è verisimile fizione che li spiriti beati istiano in canti et allegrezze delle cose dette; ma allegoricamente intende di quelli che sono di santa vita nel mondo, che sempre tornano dopo li virtuosi ragionamenti e pensieri ai canti et alle lode d’Iddio e dei Santi, e cantando vanio; cioè e cantando sparitte da’ miei occhi; ma allegoricamente intende che uscisse fuora della sua mente: imperò che non aveva più a trattare di lei, Come per acqua cupa cosa grave; ecco che fa la similitudine che, così profondò nel corpo lunare Piccarda sì, che non la vidde poi, come la cosa grave nell’acqua cupa: imperò che va a fondo. La vista mia; cioè la mia virtù visiva, dice l’autore, che; cioè la quale, tanto la seguio; cioè tanto seguitò Piccarda, Quanto possibil fu; cioè di seguitarla a me Dante, poi che la perse; cioè poi che la mia vista perdette lei, che non la potetti più vedere, Volsesi al segno; ciò volse la mia vista al segno, cioè a Beatrice che era mia guida per questo luogo, come lo sengno guida chi lo seguita, di maggior disio; cioè di maggiore desiderio 41: maggiore desiderio avea l’autore d’essere informato da Beatrice della verità della Santa Scrittura, che di seguitare la sua poesi e fizione. Et a Beatrice; ecco che dichiarò qual fusse questo sengno, dicendo che fu Beatrice, tutta si converse; cioè la mia vista tutta si convertì a Beatrice, Ma quella; cioè Beatrice, folgorò; cioè risplendè, nel mio; sguardo; cioè nel mio ragguardamento, Sì che da prima il viso; cioè mio; nol sofferse; cioè lo suo fulgore, cioè sì grande fu che mi abballiò e non potei sofferire a guardare Beatrice al principio; ma avvezzato lo soffersi. E ciò mi fece; cioè e questo abballiamento ch’io ebbi al principio me Dante fece più tardo; che non sarei stato, a dimandar; cioè Beatrice dei dubbi, che m’erano levati nella mente. E per questo dà ad intendere lo nostro autore che, finita la sua fizione, ritornò alla dottrina della Santa Scrittura, la quale è di tanto splendore che ogni vista vince nel primo sguardo; ma poi, se l’omo dura, Iddio infonde la sua grazia nella mente, unde ella diventa abile ad intendere 42 le sue grandi considerazioni. E qui finisce il canto iii 43, et incominciasi lo quarto.
Note
- ↑ C. M. ellino si li
- ↑ C. M. Dio; e dal qual cielo è proceduta la influenzia delle virtù, per la quale ànno meritato tal grado: imperocchè,
- ↑ C. M. eterna, esemplificando e nominando di quelli che veramente si tiene che siano in vita eterna per la santa Chiesa ;
- ↑ C. M. suso
- ↑ Che qui vale chi. E.
- ↑ C. M. santificata torna in cielo,
- ↑ C. M. Scrittura, e questo fa torcere li occhi a rieto, e vedendo che non ritornò alla santa Scrittura, che è
- ↑ C. M. giudicio: quotare è giudicare
- ↑ C. M. sta,
- ↑ C. M. di dimostramento
- ↑ C. M. non al tutto; ma disende
- ↑ C. M. bene scende a lui,
- ↑ C. M. Albumasar,
- ↑ C. M. introduttorio, differenzia non à non che
- ↑ C. M. di cibi, pocanza di
- ↑ C. M. di sotto, e siccome disse Cristo: In domo Patris mei mansiones multae sunt -. Però
- ↑ C. M. beati in vita eterna; sicchè, benchè si rappresentino quine a te, lo loro desiderio è sempre congiunto con Dio. E per questo si può intendere che l’ autore nostro intese di quelli, che sono nel mondo confirmati in grazia.
- ↑ C. M. credesse loro, incominciò così:
- ↑ C. M. Dante sarà a grande grazia, se
- ↑ C. M. da Fiorensa; unde l’ autore indusse lo ditto Forese a parlare, dicente: La mia
- ↑ C. M. xxxviii. Uno manifestamento di promessa voluntaria, la quale si dè fare a Dio e di quelle cose che sono di Dio. Et al voto
- ↑ C. M. rompere ; ma l’ autore nostro non pare che vollia che, dispensando lo papa in questi voti solenni, o avendo alla fine tanta condizione che vasti, l’omo si possa salvare ; e per ’mostrare
- ↑ C. M. ruppeno
- ↑ C. M. avaccievole o tostano, a rimembrar ;
- ↑ Abbiano; ora abbiamo, e presso gli antichi scontrasi tale desinenza foggiata su quella de’ Trovatori. E.
- ↑ Quel peregrino ingegno di Torquato Tasso, il quale pure con grande studio ed amore avea cercato il divino volume dell’ Alighieri, nel suo Discorso della Virtù eroica e della Carità, ricordando questi versi, così la ragiona « Carità propriamente si dice quando si distende nel prossimo non più o meno efficacemente di quel che l’ uomo creda che sia volontà d’ Iddio; e quando l’amor d’ Iddio è freno o stimolo dell’ amore, che a sè stesso o al prossimo si porta. E perciò del cielo della Luna contenta era Costanza, madre di Federico imperatore, la quale per difetto di voto non adempito, ivi aveva la sua sede, che sebbene non aveva tutta quella gloria della quale godevano gli altri ne’ cieli superiori; tanto nondimeno ne aveva quanto a Dio piaceva di compartirgliene, ed essa più non poteva riceverne » E.
- ↑ Agustino; levata la prima u, come tuttora sentesi dalla bocca del popolo toscano, che profferisce Agusto. Fastina per Augusto, Faustina ec. E.
- ↑ C. M. lo creatore e lo
- ↑ C. M. al fine. Seguita l’ altra parte.
- ↑ C. M. del suo: lo nostro è temporale; e lo suo è eterno, giù;
- ↑ C. M. Chiara; ecco la religione nella quale ella fu, Perché;
- ↑ C. M. voto che non sia fuor della catolica Chiesa o che non sia stolto, e però dice, Che;
- ↑ C. M. Chiara; mi chiusi nel suo monasterio,
- ↑ Apostate; dal singolare apostata, come idolatre, omicide da idolatra, omicida. E.
- ↑ C. M. cioè tolsen per forza me
- ↑ C. M. più antichi
- ↑ Accordio: trammesso l’ i come in brieve, vadia ec. E.
- ↑ Grammatica qui torna lo stesso che Lingua latina, o Latino. E.
- ↑ C. M. secondo, del quale nacque Currado terso; ma non ebbe lo imperio : bene aspettava
- ↑ C. M. e di lui nacque
- ↑ Con la scorta del Magl. abbiamo ripetuto - maggiore desiderio. E.
- ↑ C. M. a considerare le
- ↑ C. M. iii, e seguita lo iiii del paradiso.