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C A N T O   XXVII.





1Già era dritta in su la fiamma, e queta
      Per non dir più; e già da noi sen gia
      Con la licenzia del dolce Poeta;
4Quando un’altra, che dietro a lei venia,
      Ne fece volger li occhi alla sua cima,
      Per un confuso suon che fuor n’uscia.
7Come il bue cicilian, che mugghiò prima1
      Con pianto di colui (e ciò fu dritto)2
      Che l’avea temperato con sua lima,
10Mugghiava con la voce dell’afflitto,
      Sì che, con tutto che fosse di rame,
      Pur ei pareva dal dolor trafitto;
13Così, per non aver via, nè forame,
      Dal principio del fuoco in suo linguaggio
      Si convertivan le parole grame.
16Ma poscia ch’ebber colto lor viaggio
      Su per la punta, dandole quel guizzo,
      Che dato avea la lingua in lor passaggio,
19Udimmo dire: O tu, a cui io drizzo3
      La voce, e che parlavi mo lombardo,
      Dicendo: Istà, ten va, più non t’adizzo;4

  1. v. 7. C. M. sicilian,
  2. v. 8. Col pianto
  3. v. 19. C. M. a cui dirizzo
  4. v. 21. C. M. istra, - Secondo il Commento dee dire issa, che è spiegato ora. L’Antaldino riporta: Stra, ten va, — e Vindelino: Istrà, ten va. Forse l’r è trammesso al modo che truovasi in listra, arismetrica e simili. E.