Commedia (Buti)/Inferno/Canto XVI
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(Commento di Francesco Da Buti) (XIV secolo)
Canto sedicesimo
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C A N T O XVI.
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1Già era in loco, onde s’udia il rimbombo1
Dell’acqua, che cadea nell’altro giro,
Simile a quel, che l’arnie fanno, rombo;2
4Quando tre ombre insieme si partiro,
Correndo, d’una torma, che passava
Sotto la pioggia dell’aspro martiro.
7Venian ver noi, e ciascuna gridava:
Sostati tu, che all’abito ne sembri3
Esser alcun di nostra terra prava.
10Aimè, che piaghe vidi’ nei lor membri,
Recenti e vecchie dalle fiamme incese!4
Ancor mi duol, pur ch’io me ne rimembri,5
13Alle lor grida il mio Dottor s’attese;
Volse il viso ver me, et: Ora aspetta,
Disse; a costor si vuole esser cortese:
16E se non fosse il fuoco, che saetta
La natura del loco, io dicerei,
Che meglio fosse a te, ch’a lor, la fretta.6
19Ei cominciar, come noi ristemmo, hei!7
L’antico verso, e quando a noi fur giunti,8
Fenno una rota di sè tutti e trei9
22Qual solean li campion far nudi et unti,
Avvisando lor presa e lor vantaggio,
Prima che sien tra lor battuti e punti;
25Così rotando ciascun lo visaggio
Drizzava a me; sì che contrario il collo
Facea, e i piè continuo viaggio.10
28E se miseria d’esto loco sollo11
Rende in dispregio noi e nostri prieghi,12
Cominciò l’uno, e il tristo aspetto e brollo,
31La fama nostra il tuo animo pieghi
A dirne chi tu se’, che i vivi piedi
Così sicuro per lo Inferno freghi.
34Questi, l’orme di cui pestar mi vedi,
Tutto che nudo e dipelato vada,
Fu di grado maggior che tu non credi:
37Nipote fu della buona Gualdrada,
Guido Guerra ebbe nome, et in sua vita
Fece col senno assai, e con la spada.
40L’altro, che appresso me la rena trita,
È Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce
Nel mondo su dovria esser gradita.
43Et io, che posto son con loro in croce,
Iacopo Rusticucci fui; e certo
La fiera moglie, più ch’altro, mi nuoce.
46S’io fossi stato dal fuoco coperto,
Gittato mi sarei tra lor di sotto,
E credo, che il Dottor l’avria sofferto;
49Ma perch’io mi sarei bruciato e cotto,
Vinse paura la mia buona voglia,13
Che di lor abbracciar mi facea ghiotto.
52Poi cominciai: Non dispetto; ma doglia
La vostra condizion dentro m’affisse14
Tanto, che tardi tutta si dispoglia,
55Tosto che questo mio Signor mi disse
Parole, per le quali io mi pensai,
Che quai voi siete, tal gente venisse.15
58Di vostra terra sono, e sempre mai
L’opre di voi e li onorati nomi16
Con affezion ritrassi et ascoltai.
61Lascio lo fele, e vo per dolci pomi
Promessi a me per lo verace Duca;
Ma fino al centro pria convien ch’io tomi.
64Se lungamente l’anima conduca
Le membra tue, rispose quelli allora,
E se la fama tua dopo te luca,17
67Cortesia e valor, dì, se dimora
Nella nostra città, sì come sole,
O se del tutto se n’è gita fuora?
70Chè Guiglielmo Borsiere, il qual si dole
Con noi per poco, e va là coi compagni,
Assai ne cruccia con le sue parole.
73La gente nuova, e i subiti guadagni,
Orgoglio, e dismisura àn generata,18
Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni.19
76Così gridai con la faccia levata;
E i tre, che ciò inteser per risposta,
Guardar l’un l’altro, come al ver si guata.
79 Se l’altre volte sì poco ti costa,
Risposer tutti, il satisfare altrui,20
Felice te: chè sì parli a tua posta!
82Però, se campi d’esti luoghi bui,
E torni a riveder le belle stelle,
Quando ti gioverà dicere: Io fui,21
85Fa che di noi alla gente favelle.
Indi rupper la rota, et a fuggirsi
Alie sembrar le gambe loro snelle.22
88Uno amen non saria potuto dirsi
Tosto così, come furo spariti;23
Per che al Maestro parve di partirsi.
91Io lo seguiva, e poco eravamo iti,
Che il suon dell’acqua n’era sì vicino,
Che per parlar saremmo appena uditi.
94Come quel fiume, ch’à propio cammino
Prima da monte Veso in ver levante,
Dalla sinistra costa d’Apennino,
97Che si chiama Acquacheta suso, avante
Che si divalli giù nel basso letto,
Et a Forlì di quel nome è vacante,
100Rimbomba là sopra San Benedetto
Dell’Alpe, per cadere a una scesa
Ov’io dovea per mile esser ricetto; 24
103Così, giù d’una ripa discoscesa,
Trovammo risonar quell’acqua tinta,
Sì che poco ora avria l’orecchie offesa.25
106Io avea una corda intorno cinta,
E con essa pensai alcuna volta
Prender la lonza alla pelle dipinta.
109 Poscia che l’ebbi da me tutta sciolta,
Sì come il Duca m’avea comandato,
Porsila a lui aggroppata et avvolta;26
112Ond’ei si volse in ver lo destro lato,
Et alquanto di lungi da la sponda
La gittò giuso in quello alto burrato.
115El pur convien che novità risponda,27
Dicea fra me medesmo, al nuovo cenno,
Che il Maestro con l’occhio sì seconda.
118Ahi quanto cauti li uomini esser denno
Presso a color, che non veggion pur l’opra;
Ma per entro i pensier miran col senno!
121El disse a me: Tosto verrà di sopra
Ciò ch’io attendo, e che il tuo pensier sogna,
Tosto convien che al tuo viso si scuopra.
124Sempre a quel ver, che à faccia di menzogna
Dee l’uom chiuder le labbra finch’el puote:
Però che sanza colpa fa vergogna.
127Ma qui tacer nol posso; e per le note
Di questa Comedia, lettor, ti giuro,
S’elle non sien di lunga grazia vote,
130Ch’io vidi per quell’aere grosso e scuro
Venir notando una figura in suso,
Maravigliosa ad ogni cuor sicuro;
133Sì come torna colui, che va giuso
Talora a solver l’ancora, che aggrappa
A scoglio o altro che nel mare è chiuso,
136Che in su si stende, e da piè si rattrappa.
- ↑ v. 1. ove s’udia
- ↑ v. 3. l’api fanno, rombo;
- ↑ v. 8. C. M. m’assembri
- ↑ v. 11. Incese; da incendere. E.
- ↑ v. 12. C. M. men duol,
- ↑ v. 18. C. M. meglio stesse a te,
- ↑ v. 19. Ricominciar, quando noi ristemo, ei
- ↑ v. 20. e poi ch’a noi fur giunti,
- ↑ v. 21. trei; tre. Gli antichi e tutt’ora il popolo toscano, ad evitare l’accento sull’ultima sillaba, amano l’aggiunta d’una vocale. E.
- ↑ v. 27. C. M. Facea ai piè
- ↑ v. 28. Deh! se miseria
- ↑ v. 29. C. M. Rende in dispetto
- ↑ v. 50. C. M. la buona mia voglia,
- ↑ v. 53. C. M. mi fisse
- ↑ v. 57. C. M. Che qual
- ↑ v. 59. C. M. L’opra di voi
- ↑ v. 66. C. M. di po’ te luca,
- ↑ v. 74. C. M. à ingenerata,
- ↑ v. 75. C. M. In te, Firenze, sì che già ten piagni.
- ↑ v. 80. C. M. a soddisfar
- ↑ v. 84. C. M. Quanto ti gioverà
- ↑ v. 87. Ale — C. M. Ale sembiar
- ↑ v. 89. C. M. furon smarriti;
- ↑ v. 102. Dove poria per mille
- ↑ v. 105. poco ora. Questo modo ellittico vale in poco tempo, o momento d’ora. E.
- ↑ v. 111. e ravvolta;
- ↑ v. 115. C. M. E pur
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C O M M E N T O
Già era in loco ec. In questo xvi canto l’autor nostro continua ancora la materia di sopra: imperò ch’ancora tratta del terzo girone e del peccato contra natura; e dividesi principalmente in due parti, perchè prima pone come era presso al descenso nell’altro cerchio; cioè nell’ottavo, e come scontra 1 un’altra schiera delli violenti contra natura che furono uomini armigeri e saputi nel mondo, e come parlò con loro delle loro condizioni; nella seconda, come presono a parlar delle condizioni della loro città, quivi: Se lungamente ec. Ma la prima, che fia la prima lezione, si divide in sei parti: imperò che prima descrive lo luogo ov’elli era, e come a lui vennono tre ombre; nella seconda mostra compassione alle loro pene, quivi: Aimè, che piaghe ec.; nella terza finge lo modo che tennono a restarsi a parlar con lui, quivi: Ei cominciar ec.; nella quarta finge l’autore come parlarono a lui, e come si manifestarono, quivi: E se miseria ec.; nella quinta mostra lo desiderio 2 ch’ebbe di fare loro festa, quivi: S’io fossi stato ec.; nella sesta finge ch’elli parlasse loro, mostrando dolore della loro pena, quivi: Non dispetto; ma doglia ec. Divisa la lezione, ora è da vedere la sentenzia litterale.
Dice adunque che già era in luogo, ove 3 s’udia lo rimbombo dell’acqua che cadea nell’altro cerchio; lo quale rimbombo era simile a quello che fanno 4 le pecchie al buco del bugno, quando tre ombre insieme si partirono della sua schiera, che passava su per la rena calda sotto la brazia o vero pioggia della fiamma, e veniano inverso Dante, e ciascuna gridava a Dante: Scostati 5 tu, che all’abito esser mi pari cittadino d’alcuna rea città. E dolendosi l’autore della condizione loro, dice: Aimè! che piaghe vidi nelli membri loro nuove e vecchie, fatte dal fuoco: ancor me ne duole pur a ricordarmene 6; et a questo grido dice che Virgilio si fermò e volsesi in verso Dante e disse: Or aspetta: a costoro si vuole essere cortese; e se non fosse il fuoco, io direi che meglio stesse a te Dante andare a loro, ch’ellino venire a te. E restatisi Virgilio e Dante, quell’anime incominciarono l’antico verso; cioè Hei, che è verso di dolore. E quando furono giunti a loro, feciono tutti e tre una rota di loro, et andavano in cerchio l’uno dietro all’altro, tenendo il volto riverso 7 Dante, come andavano li campioni nudi et unti al giuoco della palestra anticamente, innanzi che s’afferrassono l’uno dietro all’altro, per pigliar vantaggio della presa 8. Et incominciò l’uno a parlare e disse: Benchè miseria di questo luogo renda in dispetto noi e li nostri prieghi e il nostro tristo aspetto; niente di meno la nostra fama ti pieghi a dirci chi tu se’, che vai sì sicuro per l’inferno; et aggiugne: Se tu vuogli sapere chi noi siamo, io tel dirò: Costui che mi va inanzi, benchè vada nudo e pelato, fu di maggior grado che tu non credi, ch’elli
fu nipote della buona Gualdrada et ebbe nome Guido Guerra, et in sua vita fece assai col senno e con la spada; l’altro che trita la rena appresso di me è Tegghiaio Aldobrandi, la fama del quale nel mondo dovrebb’essere aggradita; et io che sono posto con loro a questi tormenti, sono Iacopo Rusticucci; e certo la fiera moglie ch’io ebbi mi nuoce più che altro. Et aggiugne Dante che s’elli fosse stato difeso dal fuoco, elli si sarebbe gittato tra loro di sotto all’argine, e credo, dice, che Virgilio me l’avrebbe sofferto; ma per ch’elli si sarebbe abbruciato paura vinse la sua buona voglia che lo facea desideroso d’abbracciarli, et aggiugne ch’elli rispondesse a loro, che non dispetto; ma doglia lo prese tale che tardi esce della mente sua, quando Virgilio li disse parole, per le quali elli comprese che tali fossono, quali egli erano: e rispose loro ch’elli era della loro terra, e che sempre lo loro operare e li onorati loro nomi sempre con affezione à ascoltati e scritti, e che lascia lo fiele e va per li dolci pomi che li sono stati promessi per lo verace duca; ma in prima li conviene discendere infino al centro della terra, ov’elli pone essere lo Lucifero: e finisce l’inferno, e questa è la sentenzia litterale. Ora è da vedere lo testo con la esposizione morale.
C. XVI — v. 1-9. In questi tre ternari l’autor nostro finge che andando per lo girone, attraversando come detto fu di sopra, elli s’approssimava alla scesa del vii cerchio nel luogo 9, ove cadeva lo fiume, su per l’argine del quale andavano, dicendo: Già era in loco; cioè io Dante già era nel luogo, onde s’udia il rimbombo; cioè dal quale luogo s’udia lo rimbombo; cioè lo rappresentamento del suono dell’acqua del fiumicello, Dell’acqua, che cadea nell’altro giro; cioè nell’ottavo cerchio, Simile a quel; rimbombo, che l’arnie; cioè li bugni delle api 10, fanno rombo; cioè fanno alcuno risonare per li buchi, ond’elle entrano et escono 11. E qui è colore retorico; cioè denominazione, quando la cosa che contiene si pone per la contenuta: li bugni non fanno suono 12 nell’aere voto, o nelli luoghi chiusi, come appare nella stufa: imperò che il sono ripercuote nell’aere e fa un altro suono non perfetto, come quello di prima; lo quale rimbombo li poeti chiamano eco. Quando tre ombre insieme si partiro; Correndo, d’una torma che passava; cioè brigata d’anime, che passava; e questi erano stati uomini valenti in arme, Sotto la pioggia dell’aspro martiro; cioè del fuoco, che piovea che li ardeva. Venian ver noi; cioè verso me Dante e Virgilio, e ciascuna; di queste anime, gridava; in verso di noi dicendo: Sostati tu; cioè Dante, che all’abito ne sembri Esser alcun di nostra terra prava; cioè ria; cioè di Fiorenza: imperò ch’erano stati fiorentini tutti e tre. Et è qui da notare che l’abito si può intendere per lo vestimento e per l’apparenzia della faccia e per l’uso convertito in natura, del quale dice il Filosofo che di molti atti si genera l’abito, e che segno dell’abito generato è la delettazione che l’uomo piglia nell’opera; e per tutti questi modi intendere si può qui.
C. XVI — v. 10-18. In questi tre ternari l’autor nostro finge che avesse compassione di quell’anime, e come Virgilio l’ammonisce che sia cortese in verso di loro, dicendo: Aimè; parla Dante, dolendosi: imperò che questo Ai è interiezione secondo li grammatici, la quale significa dolore, che piaghe; cioè come fatte, vidi; io Dante, nei lor membri; questo si può intendere di tutti i membri, et ancora de’ membri genitali, i quali aveano male usati; cioè contra natura, li quali erano incesi et arsi dalle fiamme che pioveano di sopra, e dalla rena che s’accendea di sotto, Recenti e vecchie; quelle piaghe, dalle fiamme incese! s’intende delli membri. Ancor mi duol; cioè a me Dante, pur ch’io me ne rimembri; quasi dica: Pur lo raccordare mi duole ora, non che 13 allora lo vedere. Alle lor grida; cioè di loro tre, il mio Dottor 14 s’attese; cioè Virgilio si fermò; Volse il viso ver me; cioè verso me Dante, et: Ora aspetta, Disse; Virgilio a me Dante; a costor si vuole esser cortese; cioè si conviene a te Dante d’essere cortese, perchè furono uomini d’autorità: E se non fosse il fuoco, che saetta La natura del loco; nel qual sono, io; cioè Virgilio, dicerei Che meglio fosse a te; Dante, ch’a lor; de’ quali fu detto di sopra, la fretta; cioè di conoscerli e d’andare però verso di loro, ch’ellino di venire a te: imperò che a te Dante è utile a conoscerli, et a loro non è utile a conoscer te; ma sì di farsi conoscere. Et è qui da notare che conoscere Dante loro era utile a Dante per due cagioni; l’una, per metterli in nota nella sua opera; l’altra, perchè moralmente parlando, era utile a Dante di conoscere e fare conoscere le persone viziose e la loro pena, per guardarsi dal lor vizio: et a loro non era utile di farsi conoscere e di conoscer Dante, se non per farsi nominare; della qual cosa si mostrano vaghi non per lo vizio; ma per la virtù che fu in loro, come appare di sotto. Et ancora per lo vizio può l’autore fingere che fossono vaghi d’essere nominati in tanto, che sappiendosi la loro pena correspondente al lor vizio, chi avesse preso malo esempro dal loro, se ne rimarrebbe et ammendrebbesi, e così non accrescerebbe loro la pena, come appare nell’evangelio di Lazaro e del ricco. Puossi notare secondo la lettera uno bello costume; che alle persone degne d’onore si dee andare incontro, se già non vi fosse impedimento. Sopra quella parte, quando dice: a costor si vuole esser cortese, si dee notare ch’alle persone virtuose, benchè sieno macchiate d’alcuno vizio, si vuole fare onore per amore delle virtù, e non del vizio. Et in quanto dice: se non fosse il fuoco, si dee notare allegoricamente che la ragione detta alla sensualità, che con le persone infette d’alcuno vituperoso vizio non si dee avere desiderio d’usare, a ciò che la conversazione non corrompa colui che è netto; ma pur se alcuna volta l’uomo non le può schifare, onori la virtù, se punto n’è in loro; ma non lo vizio, et aspetti loro, e non vada a loro.
C. XVI — v. 19-27. In questi tre ternari l’autor nostro finge come questi tre stettono per nuovo modo a parlar con lui, non levandosi dal lor debito; cioè d’andar continuamente, dicendo: Ei; cioè ellino, cominciar, come noi; cioè Virgilio et io Dante, ristemmo; cioè ci fermammo, hei! Questo hei è intergezione secondo lo Grammatico e significa dolore, come ai, L’antico verso; cioè l’antico lor modo: imperò che quando il foco cadea sopra loro, o s’accendea loro sotto, o cocea loro, elli gridavano hei! — e quando a noi fur giunti; cioè a Virgilio et a me Dante, Fenno una rota di sè tutti e trei; cioè cominciarono a andare in torno, l’uno dietro all’altro, sicchè tutta via andavano, com’era loro imposto per pena, e non si partivano dal luogo; e questo finge l’autore, per affermare quel che finse 15 di sopra, che dicesse ser Brunetto; cioè, che qualunque si resta 16; giace poi cent’anni, sanza rostarsi dal fuoco. Qual solean li campion far nudi et unti; qui fa una comparazione, che così andavano costoro dietro l’uno all’altro, come soleano andare li campioni nudi le braccia, et unti perchè non potessono essere afferrati, vestiti di cuoio strettissimo, l’uno dietro all’altro in giro, dentro al cerchio ove stava lo popolo a spettaculo intorno a una colonna sì, che l’uno parea cacciare l’altro, Avvisando lor presa; cioè come dovesse l’uno afferrare; cioè pigliare alle gavigne l’altro vantaggiosamente; e però dice: e lor vantaggio, Prima che sien tra lor battuti e punti: imperò che si battevano con le palle del piombo, che pendeano da una correggia che portavano in mano, per percuotere et avvinghiare l’uno l’altro: et avvenia che questa correggia avvinghiava sì che il tenea e così preso se l’approssimava e pungealo col coltello et uccidealo, e spesse volte avveniva che chi avea meno ardire, si partiva dalla colonna e fuggiva al popolo e così campava: et ancora quando s’arrendea e chiamavasi vinto, stava in podestà del vincitore di perdonarli la morte; e questo si chiamava lo spettaculo della gladiatura, e questi così fatti combattitori si chiamavano gladiatori. Così rotando; cioè andando in cerchio queste tre anime, ciascun lo visaggio; cioè suo, Drizzava a me; Dante quanto potea, per vedermi, sì che contrario il collo; cioè il volto; e ponsi qui lo collo per lo volto, perchè lo volto in sul collo si volge, Facea, e i piè continuo viaggio: imperò che i piè andavano innanzi, e il volto riguardava a dietro: questo dice per mostrare lo desiderio ch’aveano di vedere Dante, che girando in tondo, portavano lo volto a dietro, verso lui.
C. XVI — v. 28-45. In questi sei ternari l’autor nostro induce a favellare una di queste anime; cioè messer Iacopo Rusticucci, cavaliere fiorentino, nominando li altri e sè, dicendo così: E se; cioè benchè, miseria d’esto loco sollo; cioè di questo luogo arenoso: imperò che quivi è la rena e lo terreno sollo, Rende in dispregio noi e nostri prieghi; cioè 17 che siamo tenuti in dispetto et a vile noi et ancora li prieghi nostri, Cominciò l’uno; cioè messer Iacopo Rusticucci, e il tristo aspetto; perchè siamo arsicciati, e brollo; perchè siamo ignudi, ancora ci rende in dispregio, La fama nostra il tuo animo pieghi; cioè di te Dante, A dirne; cioè a dire a noi, chi tu se’ che i vivi piedi Così sicuro per lo Inferno freghi; cioè che vivo vai sicuro per l’inferno; e domandato ch’elli à di Dante, manifesta li compagni e sè, dicendo: Questi; cioè costui, l’orme; cioè le pedate, di cui pestar mi vedi; tu Dante, Tutto che; cioè benchè, nudo e dipelato vada, Fu di grado maggior che tu non credi: Nipote fu della buona Gualdrada. Questa fu una nobile donna de’ Conti da Modigliana, avola di messer Guido Guerra, e però volendoli dar fama, gliele dà prima per lei, dicendo: della buona; e perch’io non ò trovato altro di lei, però non lo scrivo; ma questo messer Guido conte e cavalieri fu saputo uomo et ardito e fu col re Carlo, quando venne in Toscana et a Fiorenza, et andossene con lui in Puglia e fu cagione ch’elli sconfisse lo re Manfredi col suo senno e con la sua prodezza; e però aggiugne: Guido Guerra ebbe nome; questo nipote di madonna Gualdrada, et in sua vita Fece col senno assai, e con la spada; sì che fu utile in consiglio et in battaglia. L’altro, che appresso me la rena trita; cioè che mi viene dietro, È Tegghiaio Aldobrandi. Questo messer Tegghiaio ancora fu cavaliere, e fu delli Aldobrandi da Fiorenza, uomo molto saputo e valoroso; e però dice: la cui voce; cioè fama, Nel mondo su dovria esser gradita; cioè esser fatta grande et onorata. Appresso dice di sè: Et io; cioè Iacopo che parlo, che posto son con loro in croce; cioè a questo tormento, Iacopo Rusticucci fui; ecco che si nomina. Costui fu ancora savio e valoroso cavaliere fiorentino; e certo La fiera moglie, più ch’altro, mi nuoce. Questo messer Iacopo ebbe una perversa moglie sì, che non potendola sostenere, la lasciò; e per odio ch’ebbe a lei, s’arrecò in dispetto tutte l’altre femmine e cadde in quello abominevole vizio: e di questi dice 18 con altri due che non li pone qui, fece menzione di sopra l’autore capitolo vi con messer Farinata, quando disse: Farinata e il Tegghiaio, che fur sì degni, Iacopo Rusticucci, Arrigo, e il Mosca, E li altri ch’al ben far puoser l’ingegni.
C. XVI — v. 46-51. In questi due ternari l’autor nostro, parlando a coloro che leggono questo suo poema, finge lo desiderio 19 ch’ebbe di far festa a quelli onorati uomini, ch’avea trovati suoi cittadini, dicendo così: S’io fossi stato dal fuoco coperto; cioè, se io Dante avessi avuto difensione dal fuoco che venia di sopra, e da quel di sotto, Gittato mi sarei; io Dante, tra lor di sotto; da l’argine nella rena, tra quelli onorati e famosi uomini, per amor della lor virtù, non del vizio, E credo; io Dante, che il Dottor l’avria sofferto; cioè Virgilio, ch’io fossi ito a loro; e questo conferma quel che fu detto di sopra in questo capitolo; cioè E se non fosse il fuoco, che saetta La natura del loco ec.; e confermasi l’esposizione detta di sopra. Ma perch’io; Dante, mi sarei bruciato e cotto; per lo fuoco, Vinse paura; dell’arsione, la mia buona voglia; ch’io avea d’onorarli e di far loro festa, Che di lor abbracciar mi facea ghiotto; cioè volentiroso. E qui si dè notare la moralità, che qui si può intendere convenientemente; cioè che la ragione non dee consentire ad alcuno usare con le persone maculate 20 di vizi, se già non fosse l’uomo sicuro di non imbruttarsi in sì fatto vizio; et inanzi dee l’uomo lasciar la virtù che è in loro, che mettersi a pericolo di cadere per l’usanza loro.
C. XVI — v. 52-63. In questi quattro ternari l’autor fìnge ch’elli rispondesse a quel ch’avea detto messer Iacopo, e risponde a tre cose; prima alla proposta 21; appresso alla narrazione; et ultimamente alla domanda, dicendo così: Poi; che messer Iacopo ebbe parlato, cominciai; io Dante: Non dispetto; ma doglia La vostra condizion dentro m’affisse; cioè non ebbi voi in dispetto; ma ebbi dolore e compassione della vostra condizione; che sì virtuosi uomini nell’altre cose, cadessono in sì abominevole 22 vizio, Tanto, che tardi tutta si dispoglia; da me la doglia, ch’io n’ò 23 preso nell’animo mio. E questo è notabile che sempre li uomini savi si deono dolere dell’errore de’ viziosi, e più di quelli che sono d’alcuna autorità: imperò che più si perde in loro che nelli altri, et ancora il loro errore passa in esempro alli altri, e sono cagione che caggiano in simile errore, come afferma Boezio 24 nella prima prosa, ove dice: At si quem prophanum (uti vulgo solitus) nobis blanditiae vestrae detraherent, minus moleste ferendum putarem. — Tosto che questo mio Signor; cioè Virgilio, mi disse Parole, per le quali io; cioè Dante, mi pensai Che quai voi siete; cioè voi tre, tal gente venisse; cioè di tal fama et onoranza. Di vostra terra sono; cioè io Dante, e così risponde alla domanda fatta; e sempre mai L’opre di voi e li onorati nomi; cioè vostri, Con affezion ritrassi; cioè scrissi, o ver nominai ad alcun, et ascoltai; quand’erano nominati d’altrui. Lascio lo fele; io Dante; cioè l’amaritudine dell’inferno, e vo per dolci pomi; cioè a vedere la purgazion de’ vizi che si fa nel purgatorio, et i meriti delle virtù che sono in paradiso, Promessi a me per lo verace Duca; cioè per Virgilio, come appare nel primo canto; Ma fino al centro; cioè della terra ove finge che sia lo profondo dell’inferno, pria; cioè innanzi ch’io venga al purgatorio et al paradiso, convien ch’io tomi; cioè ch’io Dante descenda. E questo dice l’autor moralmente; cioè che lascia la viziosità, significata per l’inferno, che è amara più che fiele, e va per le virtù promesse a lui per la ragione, significata per Virgilio, la qual guida l’uomo nelli atti virtuosi, li quali sono dolci; ma prima li convien vedere ogni distinzione e particolarità di peccati, innanzi che se ne possa o sappia 25 guardare, et andare alle
virtù; e qui finisce la prima lezione.
Se lungamente ec. Qui si comincia la seconda lezione del detto
canto, nella quale finge che con li sopra detti tre suoi cittadini parlasse delle condizioni della sua città 26; e dividesi in cinque parti: imperò che prima finge, come parlò con li detti tre cittadini delle
condizioni della sua città; nella seconda, com’ellino commendarono
la sua risposta e come si partirono 27 da lui, quivi: Se l’altre volte ec.; nella terza, come segue lo suo cammino quivi: Io lo seguiva ec.;
nella quarta pone una notabile fizione, quivi: Io avea una corda ec.;
nella quinta pone quello che seguitò del cenno fatto, quivi: Sempre a quel ver ec. Divisa la lezione, ora è da veder la sentenzia litterale.
Seguita adunque così:
Poi che Dante ebbe risposto, incominciò messer Iacopo: Se lungamente l’anima vivifichi le membra tue, e se la fama tua risplenda
dopo te Dante, dicci se cortesia e valore dimora nella nostra città
come suole, o se n’è partita al tutto: imperò che Guiglielmo Borsiere,
che poco è che è venuto al dolor nostro e vassene là con li compagni che vi son di nostra brigata, assai 28 come fa corrucciare con le
sue parole. Onde Dante finge che rispondesse con la faccia levata:
La gente nuova et i subiti guadagni, o Fiorenza, ànno generato in te
orgoglio e dismisura, sì che già ti piagni. Et allora quelli tre che
intesono questo per risposta, guardaron l’un l’altro, come si guarda
al vero, e risposono: Se l’altre volte ti costa sì poco a satisfare altrui,
felice te che sì favelli a tua posta! Perciò se campi da questi luoghi
oscuri e torni a riveder le belle stelle, quando 29 ti gioverà dire: Io
fui nell’inferno, fa che favelli di noi alla gente. E detto questo, ruppono la rota ch’aveano fatta per restarsi con Dante, e fuggirono che
parve che le lor gambe avessono alie; et aggiugne che uno amen non
si sarebbe potuto dir sì tosto, com’elli furono smarriti da loro; onde
a Virgilio parve di partirsi. E dice Dante ch’elli lo seguitava, e poco
erano iti che il suono dell’acqua era sì vicino, che per parlare a pena
sarebbono 30 uditi; e fa una similitudine che, come quel fiume che
nasce di monte Veso che è dalla parte sinistra del monte Apennino e corre in ver levante, che si chiama Acquacheta, quando è in sul
monte innanzi che scenda giuso nel basso; ma quando è giunto a Forlì, muta nome, rimbomba là sopra al monistero di san Benedetto 31,
perchè cade dell’alpe a una scesa, ove potea essere ricetto per mile,
o vero io Dante dovea essere ricevuto per mile; cioè per monaco;
così giù d’una ripa discoscesa trovamo risonare quell’acqua tinta 32
sì, che in poca ora avrebbe offeso l’audito. Et aggiugne ch’elli avea
una corda cinta, con la quale pensò alcuna volta pigliare la lonza
che à la pelle dipinta, la quale per comandamento di Virgilio elli
la sciolse da sè e porsela a lui avvolta et aggroppata; onde Virgilio
si volse in su lato ritto, e gittolla giù in quel burrato alto e profondo,
di lungi dalla sponda. Et aggiugne Dante che tra sè dicea: E pur
convien che qualche 33 cosa nuova risponda a questo atto, ch’elli vedea Virgilio stare attento a guardare giuso. Et aggiugne uno notabile
che li uomini convengono 34 essere molto cauti innanzi a coloro che
non veggono 35 pur l’opera; ma col senno veggono ancor li pensieri
dentro; onde aggiugne che Virgilio dicesse a lui: Tosto verrà di
sopra ciò ch’io aspetto; e quel che il tuo pensier sogna, tosto converrà che si scuopra. E perchè la cosa era maravigliosa, aggiugne
che sempre si vorrebbe a quel vero, che à apparenzia di bugia 36,
chiudere la bocca: però che sanza colpa fa vergogna. Ma qui dice
che non si può tacere, e per darlo a credere meglio, giura al lettore
per le note di questa Comedia, s’elle non sieno vote di grazia, ch’elli
vide, ragguardando per quell’aere nero et oscuro, venir notando in
suso una figura maravigliosa ad ogni cuor sicuro. E fa una similitudine che così veniva su notando, come fa lo marinaio che va a liberare l’àncora, che s’è afferrata a scoglio o ad altra cosa che, quando
torna su, si raccoglie li piedi 37 alle natiche et in su si stende; e qui
finisce il canto. Ora è da vedere il testo con l’esposizioni morali,
ovvero allegoriche.
C. XVI — v. 64-78. In questi cinque ternari l’autor nostro finge come ebbe parlamento co’suoi tre cittadini delle condizioni della sua città, domandando prima ellino; e poi Dante rispondendo et ammirando la risposta di Dante, così dicendo; parla messer Iacopo a Dante così: Se lungamente l’anima conduca Le membra tue; cioè se 38 abbi lunga vita; e fagli questo scongiuro, per invitarlo 39 a dire il vero, e ben dice conduca, che è vocabolo grammaticale e significa tenere a prezzo le cose altrui: e veramente l’anima nostra sta nel corpo nostro, come sta l’uomo in casa altrui che ne li conviene uscire quando il signore della casa vuole; così l’anima n’esce, quando vuole Idio che gli à prestato et accomandato così fatto albergo, rispose quelli allora; cioè messer Iacopo alla risposta che diede di sopra l’autore, et aggiugne un altro scongiuro, E se la fama tua; cioè di te Dante, dopo te; cioè dopo la tua vita corporale, luca; cioè risplenda; e questo dice, perchè tutti li poeti sono vaghi di gloria, e però dicono che Pales 40 che s’interpetra gloria, è la idia de’ pastori, Cortesia e valor, dì, se dimora Nella nostra città; cioè in Fiorenza, sì come sole; cioè al tempo nostro, O se del tutto se n’è gita fuora; della nostra città sì, che non vi sia più nè cortesia, nè valore? E qui si dee notare che cortesia è, secondo che dice il Filosofo nell’Etica, virtù reprimente l’avarizia e temperante la prodigalità: ella sta in mezzo tra l’avarizia e la prodigalità; onde si può dire parcità, che è dare quel che si dee, e tenere quel che si dee: e valore è, secondo lo predetto Filosofo, volonteroso pigliamento delle cose malagevoli, e tanto vale quanto magnanimità 41 e presunzione; e però dice lo Filosofo nel predetto libro: Magnanimità è virtù reprimente 42la pusillanimità, e temperante la presunzione. Et è da notare che la cortesia al tutto caccia l’avarizia 43 e tempera la prodigalità; e così la magnanimità caccia la pusillanimità e contempera la presunzione. Et aggiugne la cagione perchè ne domanda, dicendo: Chè; cioè imperò che, Guiglielmo Borsiere; questi fu ancor valoroso cittadino di Fiorenza, et ebbe tutti li onori che dare si poteano alli valorosi cittadini, e fu del casato de’ Borsieri; e finge l’autore che fosse 44 macchiato ancora di quello abominevole vizio, il qual si dole Con noi per poco; cioè lo quale è poco che venne a stare nel nostro girone, a sostenere dolore del peccato commesso insieme con esso noi: questo dice, perchè poco era ch’era morto, e va là coi compagni; cioè nostri, i quali aviamo lasciati andare, Assai ne cruccia; cioè ne turba, e fa crucciar 45 noi di quello ch’io t’ò addomandato, con le sue parole. Il parlare di Guglielmo in questa parte si dee intendere che fosse, che più era cortesia e valore ora in Fiorenza, che non era stato al tempo loro; e però se ne crucciavano, perchè ciascuno è lodatore delle cose sue e del tempo suo; e questo finge l’autore non sanza cagione: imperò che come porrà che in purgatorio et in paradiso è tutta carità; così pone che in inferno è tutta invidia: et ancora, perchè à mostrato ciascuno vago di fama, e ciascuno affetto dello stato che à avuto in questa vita. E soggiugne l’autore la sua risposta, dicendo: La gente nuova; cioè cittadini venuti e fatti di nuovo, e i subiti guadagni cioè fatti di subito, Orgoglio; cioè superbia e presunzione, e dismisura; cioè prodigalità, àn generata, Fiorenza, in te. E debbasi intendere che la novità de’ cittadini è stata cagione della presunzione sì, che in Fiorenza non è nè magnanimità, nè valore; ma presunzione, che ogni nuovo cittadino à tanta presunzione che vuole li onori come li antichi cittadini; e subiti guadagni sono stati cagione della dismisura nello spendere, e così non v’è cortesia; ma prodigalità: e questo è comunemente 46 che li uomini che arricchiscono di subito, sono smisurati spenditori; et aggiugne che in tanto sono cresciuti questi vizi, sì che tu già ten piagni; cioè ti duole di ciò, tu Fiorenza 47, vedendo a che inducono sì fatti vizi, come è presunzione e prodigalità, le citta. Così gridai; io Dante, con la faccia levata. Questo fu segno di cruccio 48 e d’indegnazione insieme col grido: imperò che a Dante increscea delli vizi della sua città; et ancora si può intendere che significhi ardire, e che mostrava che dicesse vero: imperocchè il vero si dice con ardire. E i tre; cioè detti di sopra, che ciò inteser per risposta; alla loro dimanda, Guardar l’un l’altro, come al ver si guata. Suole essere usanza che, quando li uomini odono una notabile cosa e vera, l’uno guarda l’altro, quasi dica: Bene odi! et ancora quando s’ode sentenzialmente parlare, li uomini maravigliandosi, guardano l’un l’altro.
C. XVI — v. 79-90. In questi quattro ternari l’autor nostro finge la commendazione della sua risposta, detta di sopra, e il dipartir 49 di sopra detti tre cittadini, dicendo così: Se l’altre volte; che tu parli, per rispondere a chi ti domanda, sì poco ti costa; come ora 50, s’intende, Risposer tutti; quelli tre cittadini detti di sopra a Dante, il satisfare altrui; cioè allo domandatore, Felice te; cioè noi diciamo te essere felice: chè; cioè imperò che, sì; cioè per sì fatto modo, parli a tua posta; cioè sì bene 51, sì sentenziosamente e severamente! Et è qui da notare che l’autore nella sua risposta approvò il dire di Guiglielmo Borsiere: imperò che Guglielmo chiamava valore quel che propiamente si dee chiamare presunzione, e cortesia quello che si dee chiamare prodigalità; e però dicea che v’era maggiore che non v’era stata al tempo di quelli tre, parendo così a lui che s’ingannava del superchio: imperò che la virtù sta nel mezzo, e quando si passa nel meno o nel più, allora è vizio; e questo trapassamento nel più mostra l’autore nella sua risposta. Però, se campi; tu Dante, d’esti luoghi bui; cioè di questo inferno che è buio et oscuro, E torni a riveder le belle stelle; cioè torni nel mondo, ove si veggion le belle stelle che sono in cielo: ecco che costoro scongiurono 52 Dante per quelle cose, di che avrebbono desiderio ellino; e questo finge l’autore, per fare verisimile la sua fizione: imperò che ognuno pensa che li altri sieno desiderosi di quel ch’è elli, Quando ti gioverà dicere: Io fui; cioè nell’inferno: però che con diletto racconta l’uomo lo pericolo, in che elli è stato, Fa che di noi; tre, alla gente favelle; tu Dante; cioè mettici nel tuo libro, sicchè noi aviamo fama. Questo è stato toccato di sopra; cioè che l’autor finge che’ dannati sono affettuosi di fama, perchè nella fama par loro vivere ancora, et acciò che per esempio di loro altri non faccia male, che sarebbe perciò a loro accresciuta la pena. Indi; cioè di poi, rupper la rota; ch’aveano fatta per parlare con Dante, et a fuggirsi; tutti e tre, Alie sembrar le gambe loro snelle; cioè veloci sì, che pareano che le gambe fossono alie. Uno amen non saria potuto dirsi; che si dice tostamente: con ciò sia cosa che sia dizione di due sillabe, Tosto così, come furo spariti; quelli tre delli occhi nostri; Per che al Maestro; cioè a Virgilio, parve di partirsi; poi ch’erano 53 partiti essi.
C. XVI — v. 91-105. In questi cinque ternari l’autor nostro finge come Virgilio continua il cammino, et elli li tien dietro, dicendo così: Io; cioè Dante, lo seguiva; cioè Virgilio, e poco eravamo iti; Virgilio et io Dante, Che il suon dell’acqua; del fiumicello detto di sopra, in su li margini del quale andavano, che cadeva nell’viii cerchio, n’era sì vicino; cioè era a noi si prossimano 54, Che per parlar saremmo appena uditi; cioè perchè avessimo parlato, non saremmo stati uditi; e fa una similitudine dicendo: Come quel fiume, ch’à propio cammino; cioè suo propio corso, che non entra in altro fiume come fanno li altri che sono dinanzi a lui, di verso ponente, che tutti entrano: imperò infino a questo; e questo è il primo che non v’entra e va per sè, Prima da monte Veso. Questo monte Veso è nel Piemonte et è il primo monte dell’una delle coste del monte Apennino; lo qual monte Apennino si comincia di là da Genova presso a Nizza, e va con l’uno corno per mezzo Italia 55, come la costola per la fronde della quercia, e finisce a Reggio in Calavra 56 che è rimpetto alla Cicilia; e con altro corno cinge la Lombardia e serra la Magna e va insino a’ monti Rifei 57. E da questo monte Veso si nasce il Po, fiume che corre in verso levante, e molti altri fiumi che discendono della costa sinistra d’Apennino; cioè di verso settentrione e tutti entrano in lui, e il primo di verso levante, che non entra 58 in lui, è questo che si chiama Acquacheta in fin che corre su per lo monte, e piglia questo nome, per che va molto cheto; ma poi che discende, corre e va infino a Forlì, e muta nome; e però dice: in ver levante: imperò che niun altro prima viene 59 verso levante, che corra per sè, e non entri in Po, Dalla sinistra costa d’Apennino; questo dice: imperò che il monte Apennino è posto da Vinegia in su in verso levante tra due mari; cioè Adriatico e Tireno, e la sinistra costa è in verso l’Adriatico, in verso settentrione; e la destra è verso lo mare Tireno, in verso mezzo di’ sì, che la costa, ond’esce il detto fiume, viene di verso settentrione e di verso lo mare Adriaco, Che si chiama Acquacheta suso; cioè in sul monte, avante; cioè innanzi, Che si divalli giù nel basso letto; cioè nel piano discenda, Et a Forlì; questa è una città di Romagna, della quale fu detto di sopra, di quel nome è vacante: però che non si chiama più Acquacheta; ma chiamasi Fiumata 60, e va tra Ravenna e Cervia et entra in mare, Rimbomba là sopra San Benedetto; questo è uno monasterio di monaci neri, posto in una valle del detto monte, Dell’Alpe, per cadere a una scesa; questo dell’Alpe si può intendere che sia il nome del monasterio che si chiama San Benedetto dell’Alpe; e puossi intendere che determini quel cadere; cioè per cader dell’Alpe ad una scesa, Ov’io; cioè Dante, dovea per mile esser ricetto; cioè essere ricevuto per milite; cioè cavaliere del detto monastero; cioè che dovea essere monaco del detto monasterio; ma pur non fu: e questo è ove rappresenta san Benedetto. Altrimenti si truova questo versetto; Dove poria per mille esser ricetto; cioè la quale scesa potrebbe essere ricettaculo per mille sì fatti fiumi, come è quello: et ancora si può referire al monasterio, dicendo che quel monasterio potrebbe essere ricettaculo di mille monaci, o vuogli di mille forestieri e viandanti, per la sua grande nobilitate e facultade; e però pigli lo lettore qual più li piace. Et è da notare che il monaco è cavaliere di Cristo e però si chiamano domni, che tanto avviene a dire quanto domini; ma cavasene quello61 m, per una figura che si chiama in grammatica sincopa. Ora adatta la similitudine dicendo: Così, già d’una ripa discoscesa; nel viii cerchio, Trovammo risonar quell’acqua tinta; di Flegeton, fiume dell’inferno, Sì; cioè per si fatto modo risonava, Che poco ora; cioè in poca stanzia, avria l’orecchie offesa; cioè avrebbe offeso l’audito.
C. XVI — v. 106-123. In questi sei ternari l’autor nostro 62 pone una notabile e bella fizione, dicendo così: Io; cioè Dante, avea una corda intorno cinta; questa corda ch’elli avea cinta significa ch’elli fu frate minore; ma non vi fece professione nel tempo della sua fanciullezza, E con essa; cioè con quella corda, pensai, io Dante, alcuna volta; cioè quando mi feci frate, Prender la lonza alla pelle dipinta63; come si dice: Io ò uno mantello a fregi d’oro; cioè che à li fregi dell’oro. Questa lonza, come fu posto nel primo canto, significa la lussuria, la quale l’autore si pensò di legare col voto della religione di san Francesco; e però dice che con la corda pensò di pigliar la lonza, e legarla, s’intende: però che chi piglia l’animale con la corda, lo lega. Poscia che l’ebbi dà me; Dante, tutta sciolta; questa corda, Sì come il Duca; cioè Virgilio che significa la ragione, m’avea comandato; questo si dee intendere quand’elli fu in questa considerazione de’ vizi, ove la ragione li fece vedere che quello pigliamento di religione era stato spezie di fraude; cioè atto d’ipocresia, poi che non v’era perseverato; e però li comandò che si sciogliesse la corda; cioè quello atto e segno d’ipocresia, Porsila a lui; cioè a Virgilio; cioè alla ragione che 64 non facesse quel che volesse; cioè sottomettesse la volontà alla ragione, aggroppata et avvolta; cioè raccolta, come si raccoglie la fune prima, et avvolta; perchè poi s’avvolge; Ond’ei, cioè Virgilio, si volse in ver lo destro lato; per questo significa che il giudicio della ragione sempre si piega 65 in verso la parte diritta, Et alquanto di lungi da la sponda; cioè del settimo cerchio; e di lungi dalla sponda dice, perchè la gittò tanto in là, ch’ella andò al fondo del nono cerchio, La gittò giuso; quella corda così raccolta et avvolta, in quell’alto burrato; cioè concavo et oscuro dell’ottavo cerchio e nono. El pur convien che novità risponda; a questo atto, ch’à fatto Virgilio, di gittar così quella corda, Dicea; io Dante, fra me medesmo; cioè dentro da me, al nuovo cenno; ch’à fatto Virgilio, Che; cioè lo qual cenno, il Maestro; cioè Virgilio, con l’occhio sì seconda; cioè sì seguita, avvisando giuso. Ora aggiugne uno notabile 66 dicendo: Ahi; questo è vocabolo che significa ammirazione, quanto cauti li uomini esser denno Presso a color, che non veggion pur l’opra; cioè che non veggion pur con l’occhio corporale; Ma per entro i pensier miran col senno; cioè che i savi uomini veggono con lor senno i pensieri altrui, considerando li atti di fuori! E però cautamente si dee 67 fare innanzi a sì fatti uomini sì, che non si faccia atto alcuno, se l’uomo non vuol essere compreso. El; cioè Virgilio avvedutosi del mio pensieri, disse a me; Dante: Tosto verrà di sopra; qua su all’orlo di questo vii cerchio, Ciò ch’io attendo; cioè ch’io Virgilio aspetto, e che il tuo pensier sogna; cioè imagina: però 68 il sognare è imaginare, Tosto convien che al tuo viso si scuopra; cioè tosto convien che tu veggi quel che tu imagini; cioè ch’al nuovo cenno risponda novità. Sopra questa parte è da notare 69 allegorico intelletto, benchè sia un poco toccato col testo; e prima la corda che dice ch’avea cinta, significa una specie di fraude che si chiama atto o vero abito d’ipocresi 70: imperò che benchè la corda significhi religione 71, tanto vale quanto rilegamento: imperò religioso è doppiamente legamento 72; prima alli comandamenti come ogni fedele cristiano; et appresso alli consigli per lo voto ch’à fatto; perciò volle san Francesco che’ suoi frati in segno di ciò portassono la corda cinta, perchè si ricordassino ch’elli erano rilegati. E questa corda a chi la porta con l’animo, come con l’abito di fuora, è segno di vera religione; ma a chi la porta mal volentieri, o lasciala come la lasciò Dante, è atto d’ipocresia: imperò che mostra che sia religioso colui che non è. E perchè Dante era caduto in sì fatto peccato, Virgilio; cioè la ragione, comanda alla libertà dell’arbitrio che à seguitato la sensualità, che si scinga così fatto peccato lasciandolo quivi; cioè nel luogo dove dee stare; cioè nello inferno; e 73 questo lo conforta et ammonisce che si proponga di sciogliersi da sì fatto peccato, quando sia tempo e luogo debito. Che la porgesse a Virgilio ricolta et avvolta significa che la volontà si sottomettesse 74 alla ragione apparecchiata di stare al suo giudizio; e perchè la volontà tirata della sensualità non bene chiaramente e distintamente vede; ma implicitamente et oscuramente, però finge che gliele porgesse raccolta et avvolta: che Virgilio si volga in sul lato ritto, significa che il giudicio della ragione si volge sempre alla dirittura, se non è ingannato dalla discrezione: che giuso la gitti significa che la considera degna di pena dell’inferno, che è in quello viii cerchio ove si punisce la fraude, della quale ella è spezie: che la gitti di lungi dalla sponda significa che la giudica degna discretamente della pena, che si conviene all’ipocrisia; e perchè 75 per questa così fatta considerazione Dante levasse da sè ogni atto d’ipocresia.
C. XVI — v. 124-136. In questi quattro ternari e uno verso finge l’autor nostro la novità, ch’apparve al nuovo cenno che fece Virgilio, mettendo innanzi una affermazione, dicendo così: Sempre a quel ver, che à faccia; cioè apparenza, di menzogna: cioè di bugia, benchè non sia, Dee l’uom chiuder le labbra; e non dirlo, finch’el puote; et assegna la cagione: Però che sanza colpa fa vergogna: imperò che pare l’uomo bugiardo dicendo il vero; e scusasi dicendo: Ma qui tacer nol posso; io Dante quel vero che à apparenzia di bugia; e la cagione è questa: imperò che nel principio del libro s’obbligò a dir quello ch’era venuto nella sua fantasia, e però quivi nol può tacere, e per le note Di questa Comedia; a confermamento di questo vero aggiugne l’autore lo suo giuramento e serva l’usanza: imperò che ognuno giura comunemente per quello che usa, come il prete che giura per lo sacramento dell’altare, e lo cavaliere per l’onor della cavalleria; e così Dante per le note; cioè per li canti, di questa Comedia. Ecco che manifestamente chiama Comedia l’opera sua: nota tanto è quanto segno di canto, e però si può pigliar per lo canto: ancor nota è la lettera e la scrittura, e così si può pigliar qui. lettor, ti giuro, S’elle non sien di lunga grazia vote; che sarebbe lo contrario del suo desiderio, che a fine che sia in grazia lungo tempo questa sua opera s’affatica, Ch’io vidi; io Dante, per quell’aere grosso e scuro; assai volte à mostrato l’autore che nello inferno à aere grosso e scuro 76: lo vedere di Dante in questa parte fu la considerazione e fantasia sua: le cose che l’uomo fantastica li pare vedere, Venir notando una figura in suso; per l’aere detto di sopra, Maravigliosa ad ogni cuor sicuro; questa figura, come si mosterrà di sotto, significa la fraude la quale si partì del fondo dell’inferno da Lucifero, la quale prima usò ad ingannare li nostri primi parenti. E che questa venisse al gittamento della corda significa che per la considerazione della ipocresia, che è spezie della fraude, elli venne in considerazione della fraude che è suo genere, e veramente la fraude è maravigliosa ad ogni cuore sicuro: imperò che li uomini sicuri, presi dalla fraude se ne maravigliano. Et a mostrare come venia, fa una similitudine che così venia in su, come fa lo marinaio che torna da sferrare l’àncora, dicendo: Sì come torna; notando, colui, che va giuso; in mare, Talora; cioè alcuna volta, a solver; cioè a sferrare, l’àncora, che aggrappa; cioè ch’afferra, A scoglio o altro che nel mare è chiuso; cioè appiattato, Che in su si stende; colui che nuota in su, e da piè si rattrappa; cioè si raccoglie e così tiene suso 77; e così facea quella fiera. E qui finisce il canto xvi.
Note
- ↑ C. M. scontrò
- ↑ C. M. l’avidità ch’ebbe
- ↑ C. M. in luogo, onde s’udia
- ↑ C. M. facean le api al buco
- ↑ C. M. Sostati tu,
- ↑ C. M. pur accordandomene;
- ↑ C. M. inverso Dante,
- ↑ C. M. della presa andava. Et incominciò
- ↑ C. M. del settimo cerchio nell’ottavo, dove
- ↑ Altrimenti - delle pecchie,
- ↑ Altrimenti - Fan nel rombo; cioè fanno nel buco, onde entrano et escono le api. — Cod. M. unde entrano e stanno l’ape. Et è qui colore
- ↑ C. M. suono; ma le lape. Et è qui da notare che rimbombare è rappresentare lo suono ne l’aire voito o in delli luoghi
- ↑ C. M. non che mi dolesse allora
- ↑ C. M. il mio Duca
- ↑ C. M. che disse di sopra,
- ↑ Altrimenti - s’arresta;
- ↑ C. M. cioè fa avere in dispregio et a vile
- ↑ C. M. di questi due con altri
- ↑ C. M. finge l’avidità che ebbe
- ↑ C. M. infette de’ vizi,
- ↑ C. M. alla risposta;
- ↑ C. M. in sì abominevole peccato o vizio,
- ↑ C. M. nabbo preso
- ↑ C. M. Boezio nel primo libro della Filosofica Consolazione, nella
- ↑ C. M. possa o vollia guardare,
- ↑ C. M. città, e come s’approssimonno al descenso nell’altro cerchio, et alcuno cenno che fece Virgilio ne l’acqua che cadea nell’altro cerchio, e quel che ne seguio; e dividesi
- ↑ C. M. partitte da lui,
- ↑ C. M. assai ce ne fa — Il nostro Cod. dà come, forse co me; con me. E.
- ↑ C. M. quanto ti gioverà
- ↑ C. M. sarebbe uditi;
- ↑ Da San Benedetto, varcato l’Apennino, si discende a San Godenzo. Nel coro di codesta Abazia, in giugno del 1304, Dante ed altri Consiglieri o Commissari de’ Bianchi si congregarono, e premessero che ristorerebbero Ugolino Ubaldini dai danni, che gli potessero venire per la guerra di Monte Accinico. E.
- ↑ C. M. quell’acqua tutta sì, che poco ora
- ↑ C. M. che quella cosa
- ↑ C. M. convegna
- ↑ C. M. non vedeno pur la persona; ma col senno vedeno
- ↑ C. M. di bugia tacere, perchè senza colpa
- ↑ C. M. li piedi e le natiche et in su si distende;
- ↑ C. M. se a lui lunga vita;
- ↑ C. M. per incitarlo
- ↑ C. M. Palas s’interpreta gloria, è dia
- ↑ C. M. magnanimità, e sta mezzo tra pusillanimità e presunzione;
- ↑ C. M. esprimente
- ↑ C. M. l’avarizia e contempera
- ↑ C. M. fosse infetto ancora
- ↑ C. M. corrucciare noi
- ↑ C. M. è conveniente che li omini
- ↑ C. M. Fiorenza; cioè li omini buoni che sono in Fiorenza, vedendo
- ↑ C. M. di corruccio
- ↑ C. M. e lo dipartimento
- ↑ C. M. come avale,
- ↑ C. M. sì breve,
- ↑ C. M. scongiurano
- ↑ C. M. che s’erano partiti loro.
- ↑ C. M. cioè sì prossimo a noi, che
- ↑ C. M. per lo mezzo d’Italia, come la costola per lo mezzo della fronde
- ↑ C. M. in Calavria che è rimpetto a Sicilia;
- ↑ C. M. infine ai monti Richei.
- ↑ C. M. non entri, imperò è questo
- ↑ altrimenti - prima ve n’è verso levante,
- ↑ C. M. Fiumaria,
- ↑ C. M. quello i,
- ↑ C. M. lo autore nostro finge e pone nobile e bella
- ↑ C. M. dipinta; cioè che à la pelle dipinta, come si dice: Io abbo uno
- ↑ C. M. che ne facesse quel che ne volesse; cioè sottomisse
- ↑ C. M. sempre significa in verso
- ↑ Pongasi mente con quanta grazia il nostro Commentatore usi di questo nome verbale notabile, a significare detto da essere notato. E.
- ↑ C. M. si dè stare innanti
- ↑ C. M. imperò che il sognare
- ↑ C. M. notare e da vedere l’allegorico
- ↑ C. M. d’ipocresia:
- ↑ C. M. religione: imperocchè è atta a legare, e religione tanto
- ↑ C. M. doppiamente legato
- ↑ C. M. e per questo
- ↑ C. M. sottomesse
- ↑ C. M. perchè questa così fatta condizione Dante l’avesse da sè ogni atto è d’ipocrisia.
- ↑ C. M. scuro, e quanto più scende, più è grosso e scuro: lo vedere
- ↑ C. M. così vien suso;