Comedia di Iacob e Ioseph/Atto terzo

Atto terzo

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Atto secondo Atto quarto

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ATTO TERZO

Nel quale si tratta la malignitá de la moglie di Putifaro, duca di Faraone.

SCENA I

Sesostri dice cosí solo:

     Son molti in casa qui del mio patrone,

c’han sopra di noi servi potestade,
perché hanno qualche offizio, et è ragione.
     Ma l’è si privo ognun di umanitade,
alcun è si superbo e ambizioso,
alcun si avaro e pien d’iniquitade,
     che mi fan spesse volte esser ritroso;
talché quando comanda alcun servizio,
io ’l faccio tardo e male e dispettoso.
     Un gli è pien di virtú, senza alcun vizio,
che mi fa iubilar quando comanda,
e porteria per esso ogni supplizio.
     Con tanta grazia quel che ’l vói dimanda,
et è al servire e al compiacer si presto,
che è forza che ognun l’ami d’ogni banda.
     Son presso a dodeci anni che fa questo,
e non è chi da lui si trovi offeso,
tanto el è umano, grazioso e onesto.

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     E questo è il nostro Ioseph, c’ha si preso,

in dodeci anni, il cor di noi conservi,
che ognun de l’amor suo par che sia acceso.
     Con esso noi non siamo mai protervi,
ma sia che vói che lui comandi o chieda,
ciascun fa voluntier senza riservi.
     Lui or mi manda e vói ch’io sol provveda
ad un suo desiderio. Per mia fé,
s’io l’amo, e s’io il so far, vorrò che ’l veda:
     ché certo il servirò proprio da re.

SCENA II

Beronica e SlDONIA.

Beronica.   Hai tu, Sidonia, ancor considerato

quello Ioseph ebreo, caro al messere,
come è bello, gentile e accostumato?
Sidonia.   Si, ch’io l’ho considrato, e, al mio parere,
è grazioso e in ogni parte amabile,
di virtú ornato e bello da vedere.
Beronica.   I gesti e sua persona si laudabile
hanno un tal foco nel mio cor acceso,
che tutta abbrucio, et è cosa mirabile!
     Fingi, Sidonia, non averlo inteso,
e fa’ che sii secreta, ma ti prego,
dammi un consiglio sano e di bon peso.
     Io l’ho tentato assai, questo non nego,
ma tuttavia lo trovo piú constante
et a guardarmi un poco pur noi piego.
Sidonia.   Tuo marito l’ha posto tanto inante
e tanta fede ha in lui, ch’io tengo certo
che essendo lui (com’è) savio e prestante,
     mai vorrá rendere al patron tal merto,
che ti consenta a fargli disonore,
come dee far ciascuno servo esperto.

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     Imperò laudaria che questo amore

ti levassi dal cor, se l’è possibile,
che non ne seguitasse qualche errore.
Beronica.   Sidonia, questa è a me cosa impossibile:
pur mi consiglia, che via ho a tenere,
che a conseguir mia voglia sia fattibile.
Sidonia.   Persevera in pregarlo, e vogli avere,
se loco e tempo ti si mostra, ardire:
e guarda che alcun mai l’abbia a sapere.
Beronica.   Come’l mi vede sola, lui a fuggire!
Io terrò il tuo ricordo, e starò attenta.
Ecco ch’io’l vedo solo in qua venire:
     va’ via ch’i vo’ parlar, che alcun non senta.

SCENA III

Beronica e Ioseph.

Beronica.   Ioseph, io t’ho pregato tante volte

che a l’amor ch’io ti porto abbi rispetto!
Ti prego ormai che tua durezza vòlte.
     Or che possem parlar senza sospetto,
dammi qualche risposta che sia grata,
di che possa pigliar qualche diletto.
Ioseph.   Madonna, il mio patron m’ha confidata
in man tutta sua casa e sua sustanza,
e quella autoritá, che sai, mi ha data.
     E tanta fede ha in me, ch’elio ha ignoranza
di quel che l’ha, né sa ciò che possieda:
perché conosce in me fede e constanza.
     E niente ha, che in le mie man non creda,
eccetto te, che sei la sua mogliera.
Come vói che tal cosa io ti conceda?
     Come posso fraudar mia fede vera,
e inverso al mio patron far tal peccato?
Non mai, vo’ ch’abbia la mia fede intera!

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Beronica.   Non è tempo star qui: ma sii pregato,

Ioseph, a amarmi, come anch’io ti amo.
Ti lasso e me ne vo col cor piagato.
Ioseph.   O summo Iddio, la tua potenza chiamo:
mantien questa mia casta opinione,
ché d’altro a tua clemenza non proclamo!
     Tu vedi quale è mia condizione
con Putifaro duca, e in quanta stima
m’ha posto in casa sua il mio bon patrone.
     Mandami, Signor mio, la morte prima
che lassarmi cascare in tal delitto:
il mio cor vedi tu che sèdi in cima.
     Non sono in Canaán, sono in Egitto,
tra gente qual tu sai: leva a costei
quel malvagio pensier che in cor s’ha fitto.
     Ascolta, Dio benigno, i prieghi mei,
e con tua santa man leva in un tratto
da me la colpa e quel furor da lei.
     Ma vo’ di tutto quello ch’oggi ho fatto
farne nel mio secreto alcun ricordo,
acciò che apparer possa in ciascun atto,
     per esser col patron sempre d’accordo.

SCENA IV

Sidonia sola.

     Costor si son partiti: io vo’ tornare

per altra via qui in casa, e vo’ guardarmi
di simil cosa mai piú misticare.
     Ma assai pur posso aneli’ io maravigliarmi
del furor di costei, che l’ha si presa,
che vederla impazzir di certo parmi;
     ché fiera non è al mondo d’ira accesa,
di questa mia madonna piú rabbiosa,
quando ottener non possa questa impresa.
     P. Collenuccio, Opere -11. 13

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     Donna superba, altiera, insidiosa,

che se l’amore in odio convertisce,
serpe non fia di lei piú venenosa.
     Quel pover giovinetto non patisce
di fare offesa contra ’l suo signore,
e lei di farla fare, e fare, ardisce.
     Non passerá tal cosa senza errore,
ché questa è furiosa e ’l giovin casto:
comprendo che tal cosa elio ha in orrore.
     Se durerá di farli pur contrasto,
come tigre affamata che non trova
pei piccol figliolin né per sé pasto,
     s’ingegnerá tramar qualcosa nova
per fare il meschinel mal capitare:
vedo che rabbia drento giá li cova.
     Non mi voglio a tal cose ritrovare:
meglio è tornare in casa al mio esercizio,
ché sopra me potria poi ritornare
     qualche calunnia o forsi alcun supplizio.

SCENA V

Ioseph Solo.

     Ahimè, che cosa è questa! quanto ardire,

che ostinato pensier, che sceleranza!
Noi farò mai, vorria prima morire.
     Ahi, ch’abbia il duca in me tanta fidanza,
che non mi tien per servo ma figliolo,
et io facessi tanta disleanza!
     Io m’era posto nel mio albergo solo,
per riveder mei conti e mie ragione:
ecco che mi assaltò, quasi in un volo,
     questa fiera impudica, e si mi pone
le man’addosso senza alcun riguardo,
pur per sforzar mia casta opinione.

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     E s’io non era nel schermir gagliardo,

ché in li artigli m’avea si come uccello,
seria stato al chiamar soccorso tardo.
     Mentre io fuggivo, lei tirò il mantello:
li è in fin rimasto in mano. Sia a sua posta!
Non si creda voltar mai ’l mio cervello.
     Lei di far male al tutto si è disposta,
et io fermato ho il chiodo, come io soglio,
da tal contagion starmi in discosta.
     O sesso feminil, peccar non voglio!
Non piú, ché biasimar non si conviene
tutte per una; ma di lei mi doglio.
     O Dio, so che alcun mal da te non viene,
e del peccato so non sei cagione:
questo la tua bontá come sostiene?
     Perdonami, Signor, se passione
cosí mi fa parlar. So ben che tutto
quel che permetti al mondo è con ragione:
     so che del male ancor tu ne trai frutto,
e però vo’ portarlo in pazienza.
Prego m’aiuti ch’io non sia distrutto!
     Mi ricomando a la tua sapienza:
tu che ’l tutto governi, il tutto vedi
e sai ’l secreto di mia conscienza,
     ch’io non cada in error, Signor, provvedi,
difendimi da infamia e da iniustizia:
prego che tanta grazia mi concedi.
     Costei dal cor mi tóle ogni letizia,
e fammi star dolente, afflitto e lasso.
Ma per sfogare alquanto la mestizia,
     solo andar voglio per un pezzo a spasso.

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SCENA VI

BeRONICA, SeSOSTRI, PUTIFARO.

Beronica.   Ov’è questo sfacciato traditore?

ov’è fuggito questo scelerato?
ov’è questo nemico al suo signore?
     Fòra, famigli, fòra: ov’èlio andato?
Ahimè, bon servi, non lo comportate,
che ’l signor vostro cosí sia trattato.
Sesostri.   Madonna, che cos’è? presto narrate.
Che caso è questo che v’è intravenuto?
Lassate fare a noi, non dubitate.
Beronica.   Tenere il duca in casa ha pur voluto
quell’omo ebreo per farci vituperio:
ora intendete mo quel ch’è accaduto.
     Venuto è per commetter adulterio
con me ne la mia camera, qui adesso;
ma in vano è stato il suo mal desiderio.
     Un gran grido per questo avendo io espresso,
lassò il mantel qual io tenea pur stretto:
lui per paura a fuggir poi si è messo.
Sesostri.   Va’ti fida d’un uom, mo, per l’aspetto!
Costui che parea un santo, ha presumito
di fare al patron nostro un tal difetto!
Beronica.   Ecco che vien Putifar mio marito,
che torna a casa. Io vo’ pur ch’elio intenda
come quel suo garzon l’ha ben servito!
     Marito mio, convien che ’l ver ti estenda:
quel servo ebreo, il qual tu hai condutto,
vedi qual merto a la tua fede renda!
     In camera mia sol s’era redutto
per svergognarmi, et io gridando forte,
come la voce alzai, si smarrí tutto.

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     E subito la via prese a le porte,

il mantel ch’io tenea stretto lassando,
il quale è questo. Or vedi se ’l comporte!
Putifaro.   O Putifaro, or vatti mo fidando
in dare a un servo giovin potestade,
che poi mi vada si vituperando!
     Io laudo, moglie mia, la tua onestade
e la fede e l’amor che tu mi porti:
ma ne farò vendetta in veritade.
     Non lacrimar, ma fa’ che ti conforti.
Lassa il pensiero a me, vivi secura,
non creder che tal cosa mai sopporti.
     Andate, o fanti mei, senza paura,
prendetelo, e partitevi in due parte,
che non vi scampi: abbiate bona cura.
     Ligatel ben con qualche bone sarte,
et in quel career fate ch’el sia posto,
ove i pregion del re stanno in disparte.
     Andate e fate ’l presto, io son disposto
ch’el stenti, fin ch’el vive, in prigionia,
si come d’esaltarlo avea proposto.
     Sta’ pur di bona voglia, o moglie mia,
tu hai fatto quel ch’è di donna pudica.
Intriamo in casa, e piglia vigoria,
     com’altra donna d’onestade amica.

SCENA VII

Ioseph, Asappo servo, Assamberch carceriere.

Ioseph.   Non ho peccato certo al mio signore,

però mi doglio, e se peccato avesse,
per il peccato aria maggior dolore.
     Queste corde crudel che mi son messe
a che cosí stringete? deh, non fate!
Credete forsi voi, ch’io mi partesse?

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     So’ armato di iustizia e ventate,

et ho la conscienza pura e netta:
non temo alcuna umana potestate.
Asappo.   Se arai fallato, sen fará vendetta.
Vien pur con noi, faremo il nostro offizio,
fin che la guardia in la prigion ti metta.
     Odi, Assamberch, che per alcun flagizio
che ha commesso costui, vói Putifaro
che tu lo tenghi, pel suo malefizio,
     con bona guardia, per quanto tu hai caro
di Faraon la grazia e la tua pace.
Tu hai inteso, ch’io ti parlo chiaro.
     Noi tei lassamo, se ben gli dispiace,
in tua balia; or tu el rinchiudi e serra,
e fa’ di lui tutto quel che ti piace:
     chi al patron obedisce al fin non erra.

SCENA Vili

Assamberch e Ioseph.

Assamberch.   Odi, figliol mio bel, quel ch’io vo’dire.

Qui ti bisogna intrare: el mi rincresce,
ma, come sai, conviene a me obedire.
     Io so (com’è dover) ch’anco a te incresce,
ma sta’ con pazienza, che ’l dolore,
quanto il nutrichi piú, tanto piú cresce.
Ioseph.   Assamberch, fa’ pur quello ch’è tuo onore.
Io ti ringrazio assai del tuo conforto,
ma non bisogna troppo al mio gran core.
     Gran core dico, ché drento gli porto
iustizia, veritade et innocenza:
per questo ogni infortunio ben sopporto.
     Ma ben ti prego, per la tua clemenza,
aspetta un poco e non voler gravarti,
fin ch’oro alquanto a Dio, in tua presenza.

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Assamberch.   Óra, ch’io son contento d’aspettarti.

E da qui inanzi tien questo per certo,
ch’ogni piacere io son disposto farti.
Ioseph.   Eccelso e grande Iddio, so ch’io non merto
parlare a te, ch’io son cenere e polvere,
e tu infinito ben, chiaro et aperto.
     Ma se per tua clemenza mai dissolvere
ponno i miseri lor calamitade,
de l’ardir mio prego mi vogli assolvere.
     Tu sai, Signor, che in tutta la mia etade,
seguendo del mio padre i bon precetti,
io t’ho onorato in pura veritade.
     E sempre i boni a me furono accetti,
e casto e pio son stato: ahi, dolce Dio,
tanti mal sopra me perché permetti?
     Perché son stato tolto al padre mio,
perché dei cari panni mei spogliato,
perché in una cisterna fui mess’io?
     Perché dai fratei mei calunniato,
perché ad esterna gente poi venduto,
perché da la mia patria poi scacciato?
     Perché in Egitto ancor poi rivenduto,
perché a torto accusato, a torto preso,
perché mo posto in career non dovuto?
     Signor, noi dico a te acciò sia inteso,
so che ’l mio pianto a te non è nascosto,
e so che sai se tu sei da me offeso.
     E non lo dico perch’io sia discosto
dal voler tuo, Dio santo e reverendo,
qual sempre seguitare io son disposto;
     ma el dico, Signor mio magno e tremendo,
per pregarti che sii ver’ me benegno,
ch’esser al colmo ormai dei mal comprendo.
     Se pur, Signor, ti par che ancor sia degno
di piú supplizi, segui il tuo volere,
fin che la mia misura sia al suo segno.

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So ben che quel che fai tutto è dovere,

e senza causa tua bontá non opra,
però pel meglio tutto voglio avere.
Prego la grazia tua, Signor, che sopra
di me discenda e per la tua clemenza
ogni mia colpa e vizio si ricopra.
Dammi, Signor, perfetta pazienza
e la mia libertá, quando a te pare.
Ti ricomando infin la mia innocenza.
Assamberch.   Ioseph, prima che intri io ti vo’ fare,
per la tua giovinezza, un parlamento:
ch’ io ti voglio, ov’ io posso, sollevare.
La grazia del tuo aspetto fa argumento
che invidia piú ti noccia, che ragione:
però ti voglio dar qualche contento,
seguendo ancor quel dir de le persone,
che chi è formoso sempre seco porta
la carta sua di commendazione.
Non arai qui da me mai cosa torta,
e di tutti serai capo e maggiore:
questo disagio al men che pòi comporta.
Del tutto tu serai dispensatore,
persone e robbe, senza veder conto.
Farai quel ti parrá, come signore.
Altro non ti so dire, intra in bon ponto;
ché possibil non è che a tua salute
al fin non torni questo, ove sei gionto.
Ioseph.   Io ti ringrazio quanta è mia virtute.
Intro qua drento molto arditamente;
non creder che ’l voler di Dio rifiute:
come agnel mansueto e paziente.

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SCENA IX

Assamberch, Asappo e Ioseph.

Assamberch.   M’ha mosso a lacrimar questo garzone,

per la sua pazienza e sua maniera,
che mai simil ne fu in la mia prigione.
     E per quanto dimostra ne la cera,
credo per certo che lui sia innocente,
e questa stanza giá da lui non era.
     Ma vedo venir qua di molta gente,
che dui qua drento menano ligati.
Non pò star vóto il career per niente!
Asappo.   Questi, Assamberch, che noi t’abbiam menati,
uno è colui che serve a Faraone
di bicchiero e di coppa, e a lui son dati
     tutti quelli altri che han tal condizione,
perché è preposto a loro e al re dar bere:
tei consegnami di sua commissione.
     Quest’altro è lo pistore et ha in potere
tutti i pistor del re. Te i presentiamo,
dice il re che li debbi ben tenere.
Assamberch.   Intrate drento, acciò che ve diamo
il vostro loco. Isep’, acconcerai
come ti par questi pregion che abbiamo:
     quel loco li darai qual tu vorrai.
Fa’ tu, che a questa cosa sei preposto,
ch’è certo e fermo quello che farai.
Ioseph.   Fratelli, in questo loco anch’io son posto,
Dio sa perché! Mi dòl del vostro caso:
di farvi cosa grata io son disposto.
     In simil lochi non si sta con aso,
ma se lo portarete in pazienza,
in qualche parte arete men disaso.

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Assamberch.   Non bisogna che tu abbi avvertenza

o di darmi fatica o dimandare:
comanda, ch’io starò a obedienza.
     De’ carcerati piú non vo’ pigliare
alcuna cura: io vo’ che ’l sia tuo offizio,
ché questo e ogni altra cosa tu sai fare.
Ioseph.   Questo non è, né fu mai mio esercizio:
poi che a te piace sia, mi sforzerò
far si che non ti torni in preiudizio:
     s’io non ho industria, almen gran fede ho.

SCENA X

Assamberch solo.

     Non posso far che dispiacer non senta

di questo Ioseph giovin, ch’è in prigione,
qualunque volta di lui mi rammenta.
     S’io avessi tanta iurisdizione,
giuro per Nilo e tutti i nostri dèi
(perché credo ch’el abbia ogni ragione)
     che di prigione adesso il cavarei;
ma poi che la fortuna l’ha qui posto,
di lui m’aiuto a far li fatti mei.
     Sopra tutti i pregioni io l’ho preposto,
e lui con tanta grazia fa l’offizio,
che mostra ad ogni cosa esser disposto.
     Lui è prudente, lui di bon iudizio,
cortese, umano, e seria propriamente
il governo d’un regno il suo esercizio.
     Guarda se l’è pietoso et è clemente,
ché i poveri infelici incarcerati
da lui trattati son si umanamente,
     che refrigeri non li son negati,
di quelli che in tal lochi dar si ponno,
di lume, cibo, e spesso dislegati.

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     Dui famigli del re, che drento sonno,

costui non cessa mai di confortarli,
e non è ancora un mese che qui intronilo:
     Cosi li altri, mai sta di rinfrescarli.
In summa, è un santo: e se mai ’l lassarò,
serò contento un tanto piacer farli,
     ma per il mio interesse io rimarrò
di sua partita molto sconsolato,
ché simil omo mai piú trovarò.
     Nondimen prego Dio sia liberato.

SCENA XI

Ioseph, COPPIERO, PlSTORE.

Ioseph.   Che avete voi, fratei, che cosí afflitti

vi vedo stare assai piú de l’usato?
Parete dal dolor tutti trafitti.
Coppiero.   Noi dicevam che abbiamo insomniato
questa notte un insomnio ognun di noi,
e non avem chi ’l dica interpretato.
Ioseph.   Interpretare non sapete voi
che Dio mi fa ciò che il somnio dimostra?
Narratemi l’insomnio tutti doi.
Coppiero.   Forsi che chiarirai la mente nostra.
io serò il primo a dir mia visione:
car mi sera saper quel ch’ella mostra.
     Vedea una vite ben di sua stagione
che tre rami gittava, in cui nasceano
11 occhi e le foglie e i fior, con sua ragione.
     E dappo’ i fior le uve si vedeano
nascere e maturarsi, e le mie mano
di Faraon la coppa riteneano.
     Cogliea l’uva matura a mano a mano,
e còlta in quella coppa io la spremea,
cavandone il suo mosto chiaro e sano.

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     La coppa a Faraon di poi porgea,

che piena era del mosto cosí espresso,
e lui quel mosto con quella bevea.
Ioseph.   Ti voglio dichiarire adesso adesso
quel che 1* insomnio porta. Li tre rami
significa i tre di che vien d’appresso:
     dappo’ i tre di tu arai quel che tu brami,
che Faraone si ricorderá
del tuo servire, e forza è che ti chiami;
     e nel tuo offizio ti rimetterá,
e si com’eri usato primamente,
da le tue mane il bever suo torrá.
     Ma ben ti prego che ti tenghi a mente,
quando serai riposto nel tuo stato,
che verso me ti piaccia esser clemente.
     Fa’ che ’l re intenda come fui rubato
de la terra di ebrei e che qui a torto
senza mia colpa io sono imprigionato.
     Fa’ a Faraon, ti prego, ’sto riporto,
e vogli procurar mia libertade
da questo crudo affanno ch’io sopporto.
Coppiero.   Io ti ringrazio che con lealtade
m’hai dichiarato il somnio, ancor con darmi
bona novella per tua umanitade.
     A beneficio tuo non so che farmi
fin ch’io son qui, ma coni’io sia di fòre,
se ben dovessi al tutto dispogliarmi,
     incontinente tutto il mio valore
porrò con Faraon per liberarte,
e ti prometto tutto il mio favore.
Pistore.   Di interpretar comprendo che tu hai l’arte:
fa’ che ancor io (ti prego) sia chiarito
de l’insomnio che ho fatto, in qualche parte.
     L’insomnio ti dirò che mi è apparito:
tre canestri, ovver cesti, mi parea
e ciascun di farina ben empito,

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     aver sopra la testa, e ancor vedea

di tutte l’opre che un pistor pò fare,
che ’l cesto, ch’era in cima, pieno avea.
     Intorno al cesto ancor vedea volare
di vari uccelli e quel che vi era drento
vedeva a quelli uccelli poi mangiare.
Ioseph.   Io so che ti será di gran spavento
quel ch’io dirò, ma pur per dirti il vero
del somnio ti vo’ dire il sentimento.
     I tre cesti, tre di fa’ tuo pensiero
che restin di tua vita, dopo i quale
será il re Faraon ver’ te severo:
     ché condannato a pena capitale,
la testa perderai, poi ’l corpo in croce
posto será, perché tu hai fatto male.
     Li uccelli intorno andando con sue voce
le carni tue lassú divoreranno:
si come intendi, il tuo insomnio ti nóce.
     E’ mi rincresce averti dato affanno;
ma per volerti il vero dichiarare,
cosí bisogna, senza farti inganno.
     Disponti a pazienza e al tollerare.

SCENA XII

Assamberch, Samar soldato, Coppiero.

Assamberch.   Un’altra virtú ha ancor, ch’io non sapea,

questo Ioseph gentil, che sa chiarire
l’insomni tutti, il che giá non credea.
     Tre giorni son che l’ebbe a riferire
a questi dui famej di Faraone
quel che certo l’insomnio volea dire:
     s’io vedo ch’abbia effetto il suo sermone,
voglio ben dir che ’l sia savio compito,
e predicarlo a tutte le persone.

[p. 206 modifica]
Samar.   Acciò che intendi ancora quel ch’è ordito,

sappi, Assamberch, che il re Faraone
ha preparato un bello e gran convito.
     Ai servi soi facendo menzione
de’ servitori, il primo suo coppiero
gli venne in mente, il quale è qui in prigione;
     e del pistor gli venne ancor pensiero,
che qui si trova, e dato ha la sentenza
in questo modo, acciò che sappi ’l vero.
     Col suo coppiero eli’ usa tal clemenza,
che vói sia liberato e che ’l ritorni
al loco suo: cosí gli dá licenza.
     Sopra il pistor, non vói che piú soggiorni,
ma il consegni a costoro incontinente,
ché vói che sian forniti li soi giorni;
     e che costor lo menin di presente,
taglin la testa, il corpo ponghin poi
sopra una croce, esemplo a tutta gente.
     Questa fia la sentenza d’ambidoi;
adunque esequirai quel ch’io commetto
di voluntá del re: fate mo voi.
Assamberch.   Servar conviene a me il regai precetto.
Ecco, fanti, il pistor ch’io vi consegno,
mandate la sentenza voi ad effetto.
     E tu, coppier, ché’l re t’è sta’ benegno,
ecco la porta aperta al tuo piacere:
parti a tua posta, ch’io non ti ritegno.
Coppiero.   Il re mi sa mill’anni a rivedere
per poterlo adorar, ringraziando
la sua clemenza e sua virtú e sapere;
     ché ricordato si è del servo quando
era in triunfo, in festa et in letizia:
io vado d’allegrezza lacrimando.
     Ioseph, io voglio aver la tua amicizia,
ché interpretando il somnio, il ver dicendo,
levasti dal mio cor tanta tristizia;

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     onde per omo savio io ti commendo,

e sempre ti farò il dovuto onore:
cosí infinite grazie ancor ti rendo.
Ioseph.   Coppier, tu vedi bene in qual squallore
di career tu mi lassi, e pòi vedere
per molti segni ch’io non so’ in errore:
     ti prego che per me tu vogli avere
quel di che ti pregai ne la memoria,
e al fatto mio tu vogli provvedere.
     Ché ’l avvien spesso quando l’omo è in gloria,
che i miseri non cura, anzi scancella
il ricordar l’onore e la vittoria;
     non dee però nissun che in grado eccella
il benefizio mai dimenticarse,
ché chi ’l fa, ingrato col dover s’appella.
     Non credo che sii tal, ma dir mi parse
mo quattro di e anch’oggi tal sermone
acciò che possa meglio ricordarse:
     supplica e prega il gran re Faraone
ch’abbia pietá di me, che so’ innocente,
e non mi lassi qui piú in tal prigione.
     Assai vorria ancor dir, c’ho ne la mente,
ma tener piú sospeso non ti voglio,
ché andar desidri et è conveniente:
     e conosco che ’l tempo ora ti toglio.
Ma va’ felice e sano, in la bon’ora;
se fastidio t’ho dato, io me ne doglio.
Coppiero.   Tua compagnia, Ioseph, m’è stata ognora
si grata e si suave e tanto amena,
che non mi dòl con te mai far dimora.
     D’ingratitudin non ho pel né vena,
e sempre arò nel core il benefizio
che fatto m’hai fin ch’io son stato in pena.
     Son certo di tornar col re al mio offizio,
e, come io soglio, in sua domestichezza,
perché di questo n’ho giá certo indizio:

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     piglierò la tua cosa con destrezza

e con la occasione a tempo grato,
per darti, s’io potrò, questa allegrezza.
     In questo mezzo che se’ in questo stato,
sappi ch’io serò sempre al tuo comando,
ad ogni tuo volere apparecchiato.
     A Dio ti lasso, a te mi ricomando.