Come un sogno/IX
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IX.
Letto solitario sul verde, di rincontro alla proda d’un campo, col suo sopraccielo azzurro, tutto seminato di stelle; io lo ricordo ancora, non lo dimenticherò mai fino a tanto ch’io viva. Non era, a dir vero, il più soffice che io potessi desiderare, no, certo; metteva fuori certi fuscelli di stoppia, che mi punzecchiavano le reni e le spalle, di guisa che dovevo ad ogni tratto dar volta, per cangiar di dolore. Ma tra quell’erbe falciate, molte aveano rimessi i germogli, e di qua e di là mi giungeva alle nari un grato effluvio di salvastrella e d’altre erbacce aromatiche, le quali io conoscevo da bambino, e che, col ritorno delle note fragranze, mi rifacevano bambino. Un molesto zufolamento mi veniva crescendo d’attorno. L’esercito volante delle zanzare mi aveva fiutato da lontano, e que’ voraci scorridori calavano a sciami, colle loro trombe filiformi, a suggermi il sangue. Parevano chiamarsi a vicenda, e giù, in ordine sparso, si gittavano su me. Giacobbe, nel suo sogno di Betel, non aveva veduto sicuramente tanti angioli scendere e salire per la mistica scala, quante io sentii zanzare ronzarmi all’orecchio. E tuttavia, non diedi nei lumi. Quella musica mi pareva di trionfo, e perdonavo a quei predatori notturni se nel mio sangue avevano odorato qualche goccia di nettare. Non lo sentivo io forse ancora alle labbra?
Ben mi scherniva il grillo canterino, appostato sull’orlo della sua buca, pochi passi lontano. «Sciocco! pareva dirmi col suo trillettino: tu dormi al’aperto. E non ci avevi posto lassù? Che fretta è stata la tua?» Ma il cuore mi grillava nel seno e mi veniva ripetendo: «non dar retta: hai fatto bene.» E qui aggiungeva la consolazione di qualche proverbio campestre, non fuori di luogo in quella solitudine, che prometteva largo raccolto a ben gittata semente.
Ricordavo frattanto il premio toccato alla mia cortesia; premio tanto più dolce, quanto meno sperato. Mi scorreva ancora sulle guance quell’alito soave, e un senso di voluttà mi scendeva dalle labbra per tutti i meati del sangue. Infine, io non mi proverò a descrivere tutte le mie sensazioni. Come potrei dire per filo e per segno i rapimenti di un’ebbrezza amorosa? Chi ha sospirato un bacio e l’ha ottenuto, si raffiguri tutte queste cose di per sè. Io, dopo aver lungamente pensato e dato volta sul mio giaciglio, nascosi il volto sul braccio, piegato a gomitello, per contendere quanto potevo di me alle zanzare invidiose, e mi addormentai, per continuare quell’estasi solitaria nei sogni.
Quando mi risvegliai, l’alba imbiancava le cime dei colli. Balzai subito in piedi, per isgranchirmi le membra indolenzite da quella disagiata postura. Una corsa pei campi e l’aria del mattino respirata a larghi polmoni, mi rinfrancarono. Volevo ritornare nei pressi della casa; ma come fare, senza imbattermi ne’ miei ospiti o, quel ch’era peggio, farmi cogliere sull’aia, coll’uscio ancora chiuso di dentro? Asolai un tratto lungo i filari della vigna e la siepe del frutteto; finalmente, mi venne udita la voce della Resa e quella del Cesarino, che uscivano all’aperto. Mi feci piccin piccino, al riparo di una proda, e aspettai. La madre e il figlio scendevano, seguendo la carraia, dalla parte opposta alla mia. Io allora a lavorar di calcagna lungo il rialto protettore; e giunto che fui allo scoperto dell’aia, quatto quatto scivolai in casa. Là dentro, cominciai, come era naturale, a far rumore; mi risciacquai liberamente alla secchia, come un uomo che fosse sceso allora allora di camera, e me ne venni fuori a canticchiare sotto il balcone della mia bella dormente la cavatina d’Almaviva: «Ecco ridente in cielo» con tutto quello che segue.
Ancora non avevo terminato, che la finestra si aperse e la sua testolina leggiadra mi apparve da un vano, che si scorgeva fra i tralci della pergola. Da quello spazio, per l’appunto, io m’ero calato la notte addietro, ed era stata ventura che, sospendendomi da quel palco mal fermo, io non avessi spezzato nulla, nè bronconi, nè tralci,
A quella apparizione, la cadenza finale mi restò interrotta sul labbro; ma ben altra canzone intuonava il mio cuore. Un misto di allegrezza e di verecondia imporporava le guance della mia bella compagna, della mia fera, come l’avrebbe chiamata, e non al tutto fuor di ragione, un sonettista del seicento. Il suo sorriso, per altro, non avea nulla di sarcastico e ne’ suoi occhi si leggeva apertamente la contentezza che ella provava nel rivedermi. Il buon dì che mi gittò, in ricompensa del rossiniano saluto, mi suonò all’orecchio come una musica celestiale.
Mi avvidi, agli atti riguardosi con cui si era affacciata al balcone, stringendosi intorno al collo i capi della sua mantellina, come ella non fosse in grado di ricevermi.
— Aspetterò, — le dissi; — quando sarete vestita, mi darete un cenno, che io possa venire ad ossequiarvi, bellissima aurora.
— No, scenderò io tra pochi minuti; — mi rispose sollecita. — Faremo due passi insieme.
— Due pazzi? — replicai, bisticciando sulla pronunzia. — Oh lo volesse il cielo! A questo giuoco si è brutti, da soli. —
Uno scoppio di riso argentino dall’interno della camera, ov’ella si era frattanto ritirata, accolse la mia freddura mattutina. Si cominciava bene, ed io ne tolsi un felicissimo augurio. Ella in brev’ora, come aveva detto, fu in ordine per uscire, e mi comparve, piena di grazia, sul limitare. Venne alla mia volta con passo leggiero e viso ridente; mi prese tutt’e due le mani e le strinse con effusione di tenerezza indicibile. Negli atti suoi, nello sguardo, nelle parole, notai una confidente amicizia, che dimostrava quanto fossi già innanzi nell’animo suo. Mi pareva alquanto abbattuta nel volto, forse per non aver dormito abbastanza; ma era così bella, così fresche erano le rose della sua carnagione, che ci volevano gli occhi di un innamorato a cui nulla sfugge (del viso amato, s’intende; che, quanto al resto, gli innamorati ne capiscono meno d’ogni altro) per cogliere su quel volto, e sto per dire tra ciglio e ciglio, i lievissimi segni d’una veglia prolungata. Io le feci, com’era giusto, le mie congratulazioni pel suo florido aspetto; ed ella di rimando mi chiese come avessi dormito.
— Ecce homo! — le dissi, mostrandole il viso.
Ella diede tosto in un picciol grido di dolore, vedendo i sanguinosi indizi della pugna sostenuta da me nella notte. La sua aria di confusione e la tenera sollecitudine di cui mi die’ prova, mi toccarono il cuore. Benedissi alle zanzare, e mi parve che non m’avessero brizzolato abbastanza.
Volle sapere, senz’altro, dove avessi dormito. Io la condussi sulla faccia del luogo. Ella s’intenerì, vedendo il rialto contro di cui avevo appoggiata la testa; ma poichè io, come dovevo, ebbi voltato in celia il mio disagio notturno, finì col riderne anch’essa. Per altro, non si spiccò da quel luogo senza aver colte alcune foglie di salvastrella, che ripose diligentemente nello scollo della sua veste.
— Serbo due piume del vostro guanciale; — mi disse. — Ed ora andiamo a fare i due pazzi; — soggiunse, calcando argutamente le due zete.
— Per dove?
— Alla Castellana. —
E si appoggiò, così dicendo, al mio braccio con affettuoso abbandono. Quello che io sentivo stringersi al mio, non era il braccio geloso d’una dama che s’accompagni su per le scale d’un teatro, o d’una festa da ballo; era il braccio confidente d’una donna che ama; e premeva sul mio, sapendo di essermi caro.
Così ci mettemmo in cammino, a passi lenti, pel noto viale. Tacevamo ambedue; ella forse aspettando le mie parole, io felice dentro di me, ma per naturalissima contraddizione, grave, accigliato in vista, come un Artabano.
Fatti in tal guisa un centinaio di passi, ella si fermò sui due piedi, e accennando di sciogliere il suo braccio dal mio, mi disse, con accento di amoroso rimprovero:
— E adesso mi pigliate il broncio? Bella cosa davvero!
— No! — risposi di soprassalto, trattenendo saldamente il suo braccio. — Pensavo....
— A che cosa? Voglio saperlo.
— Pensavo, — ripigliai sospirando, — che adesso.... c’è un problema da sciogliere.
— Quale?
— Oh, un brutto problema, ve ne avverto, e solo a vedermelo dinanzi mi piglia lo sgomento. Dite, angelo mio; — soggiunsi, esprimendo nella voce tutto l’affanno che mi stringeva il cuore; — non avete già in mente di partire quest’oggi?... Nè domani?... Nè poi?... —
Una subitanea pressione del suo braccio sul mio mi fece accorto che non avevo parlato invano al suo cuore. Ma a ciò si ristrinse la risposta del cuore.
— Come correte! — esclamò ella, facendo parlare in quella vece lo spirito. — Non si direbbe egli che volete abbracciare l’eternità?
— E perchè no, con voi? —
Ella non seppe darmi risposta, o non volle.
Io la guardai colla coda dell’occhio, e mi parve turbata; però non mi feci a rappiccare il discorso. Provai a distrarmi, a guardare intorno, mentre si andava innanzi sulla costa del poggio; ma le eran novelle; non avevo negli occhi e nella mente che lei.
— Anch’io ho pensato; — cominciò ella, dopo una pausa, che m’era sembrata assai lunga.
— A che cosa? — domandai, palpitante.
— A voi, molto.... e ad altro, ancora.
— Dite! — soggiunsi. — Io v’ho aperto schiettamente il mio cuore. Che altro, adunque?
— Non me lo chiedete, vi prego! —
Ero sul punto di proseguire, insistendo; ma vidi che le si rabbruscava la fronte e mutai prontamente consiglio.
— No, non domando nulla; — gridai; — non sono e non voglio parervi indiscreto. In questa, come in ogni altra cosa, aspetterò i vostri cenni. Voi siete qui donna e madonna. —
Proseguimmo taciturni la via, fino al sommo dell’erta, su cui era il palazzo. Lassù rimanemmo un tratto in contemplazione, ricambiando poche frasi di minor conto; dopo di che, andati alquanto più oltre, ella si adagiò sopra un sedile di pietra, ed io accanto a lei, al rezzo d’una macchia d’allori. Il sole, librato già in alto sul mare, dardeggiava di sguancio i suoi raggi, che parevano contenti di sogguardarla attraverso i rami e di posarle sul lembo della veste. Una mite auretta spirava dal fogliame, carezzandole il volto. Luccicava davanti ai nostri occhi il mare lontano. Quella cara solitudine era tutta sorrisi.
— Bel luogo! — esclamai. — Vedete, divina mia, quella vela sul mare, come va dolcemente! Dove? Non lo sappiamo. Ma che importa saperlo? Il pensiero della meta si lasci al marinaio. Ella va come il vento la porta, su quel liquido piano. Ad altri giorni le tempeste; ella risplende frattanto e si dilata al sereno. Questa è infine la vita. Non pare anco a voi? Ah, se sapeste, angiolo mio, che pensiero mi viene ora alla mente!...
— Quale? — dimandò ella, voltandosi a me d’improvviso e rifacendo per vezzo quei moti di curiosità a cui ci eravamo fanciullescamente avvezzati.
— Non me lo chiedete, vi prego; — risposi, pigliando ansa da un esempio recente; — ho cominciato, ma non ardisco andar oltre.
— Ah, non mi fate il copista! — diss’ella, inarcando le ciglia, e accompagnando le parole con un gesto di minaccia. — Io, poi, ho il diritto di sapere ogni cosa.
— Orbene, vi dirò tutto. Penso che qui, in questa cara solitudine, si vivrebbe assai bene. L’amore, questo sentimento imperioso, dispotico, straripante, non si trova egli a disagio in mezzo alla folla? È un egoismo in due, fu scritto; io penso invece che sia il fondamento della carità, poichè confonde due vite in una. Ogni cosa che turbi questa arcana compenetrazione è delitto di lesa umanità. Come vietare i contatti profani, direte? E anch’io intendo come sia difficile; ma penso che, se è necessario di comportare le molestie del mondo, non è altrimenti necessario di andarle a cercare. A noi, per esempio (che anzi, io non ho parlato sui generali, se non per giungere al caso nostro), io vi seguirei, parte divina di me stesso, e voi, vedendomi soffrire, avreste compassione di me, sareste tanto buona da consentirmelo. Saluterei le mura a voi care, mi farei cittadino dei luoghi in cui abitat, vi vedrei qualche volta per via, nei teatri, nei balli, starei contegnoso e guardingo, pur di non essere lontano da voi; spiando le occasioni, sospirando i fuggevoli incontri, nasconderei gelosamente l’amor mio. Eppure, vedete, tutto il mondo me lo leggerebbe negli occhi. Vivrei chiuso in me stesso, mi darebbero del sornione, del diplomatico, del tenebroso a tutto pasto, e frattanto il mio bel segreto sarebbe chiaro come la luce del sole. E perchè? Perchè, signora mia, egli c’è intorno a noi una moltitudine di scioperati, che ci hanno la seconda vista, che sanno cogliere in aria le occhiate, riscontrare i fatti più naturali, raccostare le circostanze più minute, e lì, con una diligenza, con una avvedutezza mirabile, vi ricompongono i brani del vostro romanzo, come si fa dei pezzettini di legno in un rompicapo cinese. Si è certi del fatto suo, non si è lasciato trapelar nulla ad anima nata; pure, tutti ne sanno quanto noi, e più di noi, se occorre. Non è egli infatti una gloria del tempo nostro lo avere trovato le notizie premature? Orribile sottigliezza d’ingegno! Vi sanno raccozzare il passato, spiccicare il presente e indovinare il futuro. Io non ho mai potuto intendere come ne vengano a capo. Per me, un uomo e una donna che passano per istrada, sono un uomo e una donna, e niente di più. Un binocolo appuntato in teatro, è una curiosità che si sfoga. Un saluto, una frase, un complimento, sono atti di cortesia e nient’altro. Amerei ricomporre una statua coi frammenti rinvenuti in uno scavo; non ho mai pensato a raccogliere gli atti, a riscontrar le parole dei vivi. E questo forse m’avviene, perchè vivo molto di vita interiore; perchè in mezzo alla maggior frequenza de’ miei simili, io ci ho troppo il costume di guardare e di ascoltare dentro di me, dove c’è un mondo foggiato a mia posta, più vario, più bello e meglio ordinato del loro. Ma c’è chi non bada a sè, ve l’ho detto. Però l’amore odia il volgo profano e lo respinge da sè; l’amore ama la solitudine, dove può spandersi a suo bell’agio, dove ogni cosa è per esso, dov’è esso ogni cosa. Avete veduto mai la campagna attraverso i cristalli colorati d’un chiosco? È questo, mi direte, un brutto scherzo che si fa alla campagna. Ma non parliamo della natura, che è bella da sè; parliamo dell’arte, che è brutta, il più delle volte, assai brutta; parliamo di quel suo bruttissimo frutto, che è una grande città. Davanti ai cristalli del mio chiosco, hanno un bel raggrupparsi le case, un bel soverchiarsi i tetti, cozzar le forme, e strillare le tinte; un sol colore vela ai miei occhi ogni cosa. Scegliete la vostra tinta; vi piace l’azzurro? Eccovi la città tutta azzurra. Il roseo? eccovi tutto del color delle rose. E gli è così che, amando, vediamo ogni cosa risplendere in luce d’amore.
— Poeta! — esclamò ella, sorridendo.
— Poeta, artefice! — ripigliai. — Qui non è vanità di fantasia; non è sogno che si segua colla mente, senza poterlo afferrare. Dite che mi avete inteso; dite che la pensate a modo mio, ed entriamo di balzo nell’incantesimo; il sogno diventa realtà. Di grazia, come vi ho io incontrata? Non eravate voi tutta sola in viaggio? Vi si aspetta in qualche luogo, direte; e sia: ma non potreste tardare? Un caso, il più semplice caso non può fare ostacolo al più saldo proposito? E perchè non si aiuterebbe il caso? O perchè non accetteremmo altri mutamenti di consiglio che dal caso? Non è possibile una invenzione? Mentire, risponderete, mentire! Ma non avete mai fatto dire dai vostri servi che non eravate in casa? E allora non si trattava che di contendere un’ora del vostro tempo ai visitatori importuni. Qui, invece, si tratterebbe....
— Di che? Voglio sapere di che cosa si tratterebbe qui, e come saprete cavarvela; — mi disse ella, con piglio festevole.
— Oh, non c’è da studiar tanto; — risposi.
— Ma, poichè vi siete fermato, mi sembra....
— È stata una sospensione; una figura retorica, di cui mi pento, o signora. Qui si tratterebbe di salvare un’anima dalla disperazione. Credetemi; fareste un’opera buona. Io vi amo; son vostro. Non lo credete voi? È impossibile. Se non ne aveste certezza, come sareste voi qui?
— Ho caro che ve ne siate accorto.
— Or dunque, e poichè lo sapete, poichè ne siete persuasa, e il mio rossore, il mio pianto, sì, anche il mio pianto ve lo dimostra, siate umana con me, non mi negate questa grazia. È il caso che ci ha fatti incontrare; non distruggiamo l’opera sua. Ve l’ho pur detto l’altra notte, quando voi mi davate biasimo di non aver voluto cercare. La donna che si amerà da senno ci è destinata da una arcana volontà; non si cerca, s’incontra, e il cuore ci avverte subito che è lei, l’aspettata, la vera. Dite, è egli impossibile, dopo tutto ciò che ho provato, dopo tutto ciò che ho sperato e sofferto, è egli possibile che io vi perda? Pronunziate voi la sentenza; se avete cuore, ella non potrà tornarmi contraria.
— Cuore! — esclamò ella, con accento malinconico. — Voi ne parlate alla libera. E non sapete quanti strappi dolorosi si avrebbero, ove non si dovesse ascoltare che lui; non avete mestieri di domandare a qual prezzo si può seguirne qualche volta gl’impulsi! Ma basta; — soggiunse, scuotendo la sua testolina leggiadra, come per discacciare un molesto pensiero; — non ne diciamo altro per ora. Ho bisogno di raccogliermi, di considerare attentamente più cose. Non siete già in collera?
— Io! che dite mai? —
E curvatomi a’ suoi piedi, raccolsi il lembo della sua veste per imprimervi un bacio. Ella mi stese amorevolmente la mano.
Tornammo, senza far molte parole, alla Gioiosa, dove ci attendeva la colazione. Con gran dispiacere della Rosa, nessuno di noi due fece onore ai suoi apparecchi. La mia compagna era sovra pensiero; io combattuto tra dubbiezza e speranza. Finito l’asciolvere, ella si ritirò nella sua camera; io me n’andai fuori fino al paese, e dal paese fino alla ferrovia, senza un deliberato proposito. Le avevo detto, facendomi rosso rosso, che alla stazione erano capitate le nostre valigie da Bologna e tremavo che ella me ne domandasse la ragione, perchè non avrei certamente ardito dirle bugia. Ma ella, o perchè indovinasse la mia confusione, o perchè non avesse posto mente alla cosa, non aveva fatto alcun segno di meraviglia, ed io mi promettevo di far portare le cose nostre alla Gioiosa, più tardi. Intanto, dicevo alla stazione che, dove occorresse, le avrei mandate a chiedere in giornata.
Quando finalmente fui di ritorno alla Gioiosa (forse un’ora dopo il meriggio) ella non era ancora discesa dalla sua camera. Per altro udì la mia voce, mentre parlavo colla Rosa e si fece sul pianerottolo per invitarmi a salire.
Il cuore, per la commozione, mi dava le battute doppie nel petto. Che pensieri erano i suoi? che cosa aveva ella deliberato? Con questi dubbi nell’animo, ascesi la scala, non senza un’amara voluttà di poter entrare per l’uscio in quella camera, donde la notte avanti ero uscito per la finestra.
Tutto era in ordine là dentro, come quando c’ero entrato la prima volta. Ma quel nido. rideva assai più, illuminato dal sole, abbellito a’ miei occhi da una cara presenza. La mia compagna di viaggio, fattasi incontro a me, mi condusse tosto verso là finestra davanti al canterano, su cui stava la sua valigetta socchiusa, donde mi accorsi aver ella cavato tutto ciò che si chiama, in gergo di palcoscenico, l’occorrente per iscrivere.
Vidi a mala pena la carta vergata, ch’ella fu pronta a riporre nella sua busta, e argomentai volesse nascondermi le iniziali d’un nome, che apparivano impresse in capo ai foglietti. Ma questo per fermo le parve atto di soverchia diffidenza, poichè, riposti i quaderni, lasciò davanti a’ miei occhi la busta, su cui le medesime iniziali si potevano leggere in oro, con altri ornamenti per giunta. Le fui grato di quella cortesia, e non pure mi ritenni dal guardare, ma voltai le spalle alla busta. Guardavo lei; nel suo pensiero avrei voluto leggere; e vedendola turbata nell’aspetto, intesi che ella doveva, nella mia assenza, aver preso un partito.
Difatti, senza darmi il tempo di esprimere colle parole la domanda che mi balenava dagli occhi, mi chiese:
— Potreste andare fino a Bologna?
— In capo al mondo; — risposi.
— A che ora?
— Aspettate; dò un’occhiata all’orario. Ecco; il treno di Foggia passerà alle tre e mezzo. Andrò con questa corsa; sarò sulla mezzanotte a Bologna. Che debbo io fare laggiù? —
Ella prese sulla tavola un involtino di carta, sigillato, senza una parola di scritto.
— Metterete queste lettere alla posta; ma badate, — notò ella, con accento solenne, — senza guardarle! Strapperete la sopraccarta e troverete due lettere; le gitterete nella buca, senza leggere la soprascritta. Me lo promettete?
— Oh, non dubitate di me, vi prego. Sono un gentiluomo, e vi amo.
— Lo so; ma non temo già di voi, bensì dell’amore, che è geloso per sua natura e vince spesso la mano.
— Avete ragione; ma io sono buon cavaliere e non gli lascierò così facilmente le redini. Potrei io far cosa alcuna contro il vostro desiderio? Del resto, ditemi; nei miei panni, che fareste voi? Pecchereste di gelosia, od anco semplicemente di curiosità? —
Ella stette alquanto sovra pensiero, e al lampo fuggevole che balenò da quegli occhi, al lieve sorriso che sfiorò le sue labbra, io riconobbi la donna. Ma, come ho detto, fu un lampo, e il sorriso, a mala pena formato, si estinse.
— No; — disse poi di rimando.
— Vedete? Io sono stato più pronto.
— Fin troppo; — replicò ella, pigliando la sua rivincita su me. — Perciò non ero affatto sicura. Vi prego, — soggiunse allora, con accento mutato, — non pensate male di me. Queste lettere non racchiuderebbero segreti per voi, se foste un altro, poniamo il primo sconosciuto che s’incontra per via. Ora, voi non siete più quest’uomo a’ miei occhi. Non è egli vero che appagherete il mio desiderio? che intenderete il mio riserbo, e che queste lettere....
— Le metterò alla posta senza leggere la soprascritta, senza pure guardarne il sigillo; ve lo prometto. E poi, facciamo così: quando tornerò alla vostra presenza, mi leggerete negli occhi. E mi rimanderete via, inesorabilmente via, se mi vedrete arrossire. —
Un’aria piena di soddisfazione si dipinse allora su quel bellissimo volto, e il più dolce sorriso mi ricompensò di quella trovata.
— Vado, adunque; — soggiunsi. — A mezzanotte, o giù di lì, sono a Bologna; alle tre del mattino da capo in viaggio.
— No; — diss’ella, — non lo farete.
— Come? — gridai, raggrinzando le labbra. — Non volete? e perchè?
— Fanciullo! E già di nuovo col broncio? Date a me il vostro orario; — rispose. — E toltomi il libro di mano, lo lesse attentamente a sua volta.
— No, — disse poscia, — la vostra prima corsa non mi va. Non avreste tempo a riposare; e dopo una gita cosiffatta, è bene che riposiate tranquillamente....
— A poterlo! — interruppi.
— Dovete poterlo! Lo voglio; — soggiunse, con un piglio d’imperatrice. — E poi, anche voi ci avrete qualche lettera da scrivere; a vostro padre, per esempio, a vostro padre che dite di amar tanto. Una lettera fa tanto piacere a riceverla.... e costa così poco a scriverla!
— Avete ragione; scriverò. Ma guardate; c’è una seconda corsa nel mattino. Eccola qua; alle sei e venti; e se posso dormire, scrivere e venire con quella, mi pare....
— No; dopo aver scritto, farete colazione.
— Oh! — esclamai, torcendo il viso.
— Come? E non siete voi che dite....
— Sì, lo so. Infine, vi contenterò anche in questo. Ma non si può star sempre a tavola, signora mia; e dopo aver fatto quest’orrida colazione....
— Andrete a passeggio per la città. Scommetto che siete passato un bel numero di volte da Bologna, e non avete veduto altro che la sua torre, da lontano, uscendone fuori.
— Sì, — risposi, chinando il capo, — la torre de’ miei maggiori!
— Ohi adesso, poi, vi screditate un po’ troppo! e se ve lo avesse detto un altro....
— Oh! ditelo pure! Io risponderò come un personaggio di melodramma: «A me non puoi — Far tu rampogna ch’io mertar non senta.» Non ho mai visitato Bologna, non conosco altro di lei fuorchè i cento metri d’asfalto e di lastre di cristallo appoggiate a travature di ferro fuso, per cui ella somiglia a tante altre città d’Italia e del resto d’Europa; vo’ dire la sua stazione ferroviaria. Vedrò Bologna; la correrò per tutti i versi, e se non basta il presente, scaverò nel passato, evocherò i Galli Boi ond’ebbe il nome di Bononia, e gli Etruschi che l’avevano chiamata Felsina, tremil’anni prima del signor Bortolotti, il re de’ suoi profumieri. Va bene così?
— Pazzo! — esclamò ella, ridendo. — Io non vi chiedo tanto.
— Ah, manco male! A che ora, dunque, dovrò ripartire di là?
— Al tocco e venti minuti; — diss’ella, facendo coll’unghia sull’orario una lieve intaccatura, che io baciai subito divotamente.
— E sia; smonterò dunque a Grottamare sulle dieci di sera. Oh, sarà lungo il viaggio; — notai, con un sospiro; — lungo, assai lungo, troppo lungo!
— Non pensate soltanto a voi, egoista! Io conterò le ore e i minuti; — mi rispose ella, arrossendo.