Chi l'ha detto?/Parte prima/45

Parte prima - § 45. Miserie della vita, condizione dell'umanità

../44 ../46 IncludiIntestazione 9 aprile 2022 100% Da definire

Parte prima - § 45. Miserie della vita, condizione dell'umanità
Parte prima - 44 Parte prima - 46

[p. 270 modifica]






§ 45.

Miserie della vita, condizione dell’umanità



Non tutti pensano che

837.   Tout va le mieux du monde (oppure: Tout est pour le mieux) dans le meilleur des mondes possibles.1

accettando così la formula ironica dell’ottimismo, che nel Candido, composto da Voltaire contro Leibniz, rappresenta il principio sintetico della filosofia del dottor Pangloss, professore di méta-physico-théologo-cosmolo-nigologie. Leibniz aveva sostenuto nella Theodicææa la tesi che: «....nisi inter omnes possibiles mundos optimus esset, Deus nullum produxisset.» Maggiore è il numero invece di coloro che fanno professione del pessimismo, che anche [p. 271 modifica] fra i filosofi conta degli apostoli illustri, e che le condizioni dell’umanità pur troppo giustificano. Infatti:

838.         Entra l’uomo, allor che nasce.
          In un mar di tante pene,
          Che s’avvezza dalle fasce
          Ogni affanno a sostener.

(Metastasio, Isacco, parte II; ediz. di
Parigi, 1780, to. VII, pag. 410).

Insieme a questa quartina possono mettersi due citazioni stecchettiane:

839.   Sperare e disperar, questa è la vita.

(Olindo Guerrini, ossia Lor. Stecchetti,
Anno nuovo; nelle Rime, pag. 398).

e altrove:

840.    Il destino è così, questa è la vita;
     Soffrire e poi soffrire!

(Stecchetti, Ora triste; nelle Rime, pag. 529).

e anche può mettersi la strofa francese:

841.              On entre, on crie
               Et c’est la vie,
               On baille, on sort
               Et c’est la mort.2

Così è il testo vero, ma si hanno delle varianti:
                         2° v. Et voilà la vie
                         3° v. On crie et on sort
                         4° v. Et voilà la mort.

È di Ausone de Chancel che Lo scrìsse sopra un album di sua cognata nel 1836; lo popolarizzò Félix Nadar scrivendolo con la firma di Edmondo Texier in calce a un suo disegno nel Figaro del 29 ottobre 1863. [p. 272 modifica]

La vacuità del mondo è deplorata anche nelle Sacre Carte, che chiamano le cose terrene:

842.   Vanitas vanitatum et omnia vanitas.3

(Ecclesiaste, cap. I, v. 2, e cap. XIII, v. 8).

cui può avvicinarsi la frase di Giacomo Leopardi:

843.   L’infinita vanità del tutto.

nell’ultimo verso della poesia, A sè stesso (XXXI dell’ediz. Mestica):
                              ... Omai disprezza
                    Te, la natura, il brutto
                    Poter che, ascoso, a comun danno impera
                    E l’infinita vanità del tutto.
Anche il Petrarca scriveva che

844.    Ben è ’l viver mortal, che sì n’aggrada,
     Sogno d’infermi e fola di romanzi.

( Trionfo d’Amore, canto III, v. 65-66).

e anche:

845.   La vita fugge e non s’arresta un’ora.

(Sonetto în morte di M. Laura, n. IV secondo il Marsand, v. 1; ed. Mestica, son. CCXXXI).

La caducità delle cose umane già contristava Giobbe, che malinconicamente osservava:

846.   Sicut umbra dies nostri sunt super terram.4

(Job, cap. VIII, v. 9).

847.   Homo natus de muliere, brevi vivens tempore, repletur multis miseriis.5

(Job, cap. XIV, v. 1).
[p. 273 modifica]

La prima di queste sentenze ricorda l’altro versetto del Salmista:

848.   Dies mei sicut umbra declinaverunt.6

(Salmo CI, vers. 12).

ed anche il Salmo CXLIII, v. 4: Homo vanitati similis factus est; dies ejus sicut umbra prætereunt. Essa corrisponde al pensiero del verso classico:

849.   Pulvis et umbra sumus.7

(Orazio, Odi, lib. IV, od.-7, v. 16).

o al verso italiano

850.   Dalla cuna alla tomba è un breve passo.

concettino finale di un celebro sonetto del Marini, La vita dell’uomo, che comincia:

          Apre l’uomo infelice, allor che nasce
               In questa valle di miserie piena,
               Pria che al sol, gli occhi al pianto.

Altri osservano poi col Petrarca che ancor più caduche le cose buone e le belle, giacchè:

851.   Cosa bella mortal passa e non dura.

(Petrarca, Sonetto in vita di M. Laura,

CXC secondo la num. del Marsand, co-
mincia: Chi vuol veder quantunque può

Natura; son. CCV nell’ed. Mestica).

Ugualmente malinconica è la riflessione di Goethe:

852.   Man lebt nur einmal in der Welt.8

(Clavigo, a. I. sc. 1).

Cerchiamo dunque di starci meno male che è possibile:

853.   Nolite ergo solliciti esse in crastinum.9

dice molto filosoficamente la Bibbia (Vang. di S. Matteo, cap. VI, v. 34), e soggiunge: «Crastinus enim dies sollicitus erit sibi ipsi: [p. 274 modifica] sufficit diei malitia sua»; ed è frase attribuita a Gambetta quella che Chaque jour a sa peine. E come oggi il guaio è capitato a me, domani coglie un altro, così nessuno può dirsi sicuro dall’ugna della sventura: Hodie mihi, eras tibi, come volgarmente si dice, ovvero, come dice ancora la Bibbia:

854.   Mihi heri, et tibi hodie.10

(Ecclesiastico, cap. XXXVIII, v. 23).

o anche, come dice Virgilio:

855.   Stat sua cuique dies.11

(Eneide, lib. X, v. 467).

sentenza che Macrobio nel passo più volte citato (Saturn., V, 16) dà come passata in proverbio già ai suoi tempi.

Del resto che cos’è questa vita? È una catena non interrotta di dolori, di guai, di lotte;

856.   Vivere [mi Lucili] militare est.12

(Seneca il giovane, Epist. XCVI, 5).

scriveva Seneca a Lucilio, e Plinio il vecchio nella Hist. Natur., prefazione al libro XVIII: Profecto enim vita vigilia est, e S. Girolamo nel trattato Adversus Pelagianos (II, 5, col. 747): Quandium enim vivimus, in certamine sumus. Anche il Voltaire nel Mahomet (a. II, sc. 7):

Ma vie est un combat

di cui Beaumarchais si fece un motto; e molti secoli prima di tutti costoro il libro di Giobbe (cap. VII, v. 1) aveva detto:

Militia est vita hominis super terram: et sic ut dies mercenarii dies ejus.

Per cui

857.                   ....Spesso è da forte
               Più che il morire il vivere.

(V. Alfieri, Oreste, a. IV. sc. 2).
[p. 275 modifica]

Questa è la vera

858.   Struggle for life.13

per usare la frase ormai accettata universalmente a indicare uno dei canoni della teoria darviniana dell’origine della specie. La frase si trova già nel titolo dell’opera fondamentale di Carlo Darwin: On the origin of species by means of natural selection or the preservation of favoured races in the struggle for life, pubblicata nel 1859; ed è forse ispirata dalla frase analoga Struggle for existence che è usata nel non meno celebre Essay on the principles of population del Malthus (1798).

Un altro verso, commovente ed umano, è quello che Virgilio fa dire ad Enea, mentre vede nel tempio di Cartagine dipinti i casi di Troia:

859.   Sunt lacrimæ rerum, et mentem mortalia tangunt14

(Eneide, lib. I. v. 462).

che col primo emistichio - usato, come spesso accade, poco a proposito, perchè staccato dal resto del verso - ha dato il titolo a un bel quadro del pittore Attanasio.

Ho detto del primo emistichio, che è usato assai spesso fuor di proposito, poichè, infatti, esso significa realmente il pianto che noi facciamo sulle cose umane e non quello che le cose umane fanno. «Or proverebbe non poca meraviglia il poeta se rivivendo sentisse a quale impensata significazione sian tratte da’ suoi nepoti quelle così semplici parole sunt lacrimæ rerum: è il tedio infinito che in certi momenti pare emani dalle cose, quasi il dolore secreto dalle cose create dominate da un fato cieco, il misterioso perchè dell’essere e del morire, la simpatia della natura e degli oggetti, che piangono al pianto dell’uomo e ne sentono la sconsolata tristezza.» Così il prof. Attilio de Marchi in una noterella filologica intitolata appunto Sunt lacrimæ rerum e che si leggerà [p. 276 modifica] con molto interesse e profitto (Rendiconti del R. Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, ser. II, vol. XXXI, fasc. XIX, 1898, pag. 1436).

Al verso del poeta mantovano va ravvicinata la sentenza dell’epicureo Lucrezio:

860.                                           ....Medio de fonte leporum
Surgit amari aliquid, quod in ipsis floribus angat.15

(De natura rerum, lib. IV, v. 1125-26).

La vita è contristata anche dalla malvagità umana:

861.   Homo homini lupus.16

che è di Plauto (Asinaria, a. II, sc. 4, v. 88), il quale però disse in forma alquanto diversa:

Lupus est homo homini, non homo.

La forma volgare si ritrova in un epigramma di Giovanni Owen:

Homo homini lupus, homo homini Deus.

(Epigr. III, 23; ed. Renouard, Paris, 1794, to. I, p. 79).

in cui il secondo emistichio è tolto dal primo verso di Cecilio Stazio che si trova nelle Epistolæ di Simmaco (IX, 114 [104]) e del resto non è che la traduzione del proverbio greco: ᾶνθρωπος ᾶνθρωπον δαιμονιον (Zenobio, I, 91).

Per cui non ci sorprenda la sconsolante sentenza biblica:

862.   Maledictus homo qui confidit in homine.17

(Geremia, cap. XVII. v. 5).

Di Giannozzo Manetti, uomo politico fiorentino del sec. XV, scrive Vespasiano da Bisticci nelle Vite degli uomini illustri del suo tempo (ediz. Fanfani, pag. 102) che «soleva dire ispesso, [p. 277 modifica] quando vedeva uno promettere una cosa e non l’osservare, come faceva lui, che era osservantissimo, Maledictus homo qui confidit in homine, e la sua chiusa era, e nell’opere sua

Ove alla malignità si aggiunga la dappocaggine e nullità nostra cui non vale a sanare la brevità della vita umana, poichè:

863.   Hesterni quippe sumus, et ignoramus.18

(Giobbe, cap. VIII, v. 9).

e per la quale Orazio chiamò la umana stirpe:

864.   .... Fruges consumere nati.19

(Epistole, lib. I, ep. 2, v. 27).

mentre in altra parte dei suoi versi l’aveva detta

865.   Audax Japeti genus.20

(Odi, lib. I, od. 3. v. 27).

sarà giustificata la sdegnosa misantropia di chi si vanti:

866.   Sprezzator degli uomini.

ripetendo la frase del canto Le Ricordanze di Giacomo Leopardi, il quale diceva di sé chiuso nel natio borgo selvaggio:

     Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,
     Senz’amor, senza vita; ed aspro a forza
     Tra lo stuol de’ malevoli divengo:
     Qui di pietà mi spoglio e di virtudi,
     E sprezzator degli uomini mi rendo,
     Per la greggia ch’ho appresso.

Lo sconforto della vita e il pessimismo ispirarono al grande romanziere livornese il noto scettico dilemma:

867.   E se la vita fu bene, perchè mai ci vien tolta? - E se la vita fu male, perchè mai n’è stata concessa?

(F. D. Guerrazzi, La battaglia di Benevento, cap. V, in princ.).
[p. 278 modifica]

E nemmeno a troppo ottimismo sono ispirati i noti versi di Arrigo Boito:

868.              Questa è la vita! l’ebete
               Vita che c’innamora,
               Lenta che pare un secolo,
               Breve che pare un’ora;
               Un oscillare eterno
               Fra paradiso e inferno
               Che non s’accheta più!

che sono una strofa (la penultima) di Dualismo, poesia scritta nel 1863 e a’ suoi tempi famosa (Boito, Il libro dei versi, Torino, 1877, a pag. 11).

Ma a coronamento di tutte le umane miserie, viene il giorno estremo, e allora nel libro della vita, delle gioie e dei dolori, delle glorie e delle debolezze si scrive fine, e

869.   Sic transit gloria mundi.21

Queste parole, per un’antichissima consuetudine, si dicono tre volte innanzi al Pontefice novellamente eletto nella cerimonia del possesso, a ricordargli nella solennità del rito quanto sia breve e caduca la gloria terrena. Mentre il Papa seduto nella sedia gestatoria s’avvia processionalmente, co’ flabelli a lato, all’altare papale, nell’uscire dalla cappella Clementina in S. Pietro, trova un maestro di cerimonie genuflesso con una canna inargentata, che in cima porta un ciuffetto di stoppa; un chierico vi appicca il fuoco, e mentre la stoppa fa vampa, il cerimoniere, alzando la canna dice: Sancte Pater, sic transit gloria mundi. E la stessa cerimonia, con le medesime parole, si ripete innanzi alla statua di S. Pietro e di fronte alla cappella dei SS. Processo e Martiniano. Ignoro la fonte delle parole rituali: nella Imitazione di Cristo (lib. I, cap. 3, v. 6) è detto: «O quam cito transit gloria mundi!»

Questo rito che trova riscontro anche in talune cerimonie praticate presso i gentili in circostanze analoghe, quali sarebbero quelle dei [p. 279 modifica] solenni trionfi, era usato nel vi secolo pure nella coronazione degli imperatori greci; ed è ugualmente ripetuto in molte altre occasioni della liturgia cattolica. Il Moroni (Dizion. di erudiz. storico-eccles., vol. LXX, pag. 90-93) narra che Pio III, coronato nel 1503, a tale cerimonia rimase talmente penetrato e commosso, anche perchè la sua salute era cadente per una piaga che gli impediva di stare in piedi, che gli sgorgaron le lacrime, quasi presago della prossima sua fine. Il suo pontificato infatti non fu che di 26 giorni. E Gregorio Leti nella sua romanzesca Vita di Sisto V, narra, vero o falso che sia, di questo pontefice, che, essendo egli incoronato in S. Pietro il 1° maggio 1585, «mentre si bruciava la stoppa, gli venne detto: S. Padre, così passa la gloria di questo mondo. Sisto V fuori dell’uso degli altri pontefici, che in quell’atto mai rispondono, con animo intrepido rispose ad alta voce: La gloria nostra non passerà mai, perchè non abbiamo altra gloria, se non che far buona giustizia. E poi voltatosi alli Ambasciatori Giapponesi, soggiunse: Dite alli vostri Prencipi nostri Figli il contenuto di questa nobile cerimonia.»

  1. 837.   Tutto va per il meglio nel migliore dei mondi possibili.
  2. 841.   Si entra, si grida, ecco la vita! si sbadiglia, si esce, ecco la morte.
  3. 842.   Vanità delle vanità, e tutto è vanità.
  4. 846.   I giorni nostri sulla terra passano come un’ombra.
  5. 847.   L’uomo nato di donna, ha corta vita, e di molte miserie è ricolmo.
  6. 848.   I miei giorni son passati come un’ombra.
  7. 849.   Siamo polvere ed ombra.
  8. 852.   Nel mondo si vive una volta sola.
  9. 853.   Non vogliate adunque mettervi in pena per il domani.
  10. 854.   Ieri a me, e oggi a te.
  11. 855.   Ciascuno ha fissato il suo giorno.
  12. 856.   Vivere vuol dir combattere.
  13. 858.   Lotta por la vita.
  14. 859.   Anche qui i tristi casi del mondo hanno le loro lacrime, e muovono gli animi a compassione.
  15. 860.                       ....Di mezzo al fonte
              Dolce d'amore un non so che d'amaro
              Sorge che sin tra’ fiori ange gli amanti (Marchetti).
  16. 861.   L’uomo è lupo per l’altro uomo.
  17. 862.   Maledetto l’uomo che confida nell’altr’uomo.
  18. 863.   Perocchè noi siamo di ieri, e siamo ignoranti.
  19. 864.   Nati solo per consumare biade (cioè per mangiare).
  20. 865.   L’audace stirpe di Giapeto.
  21. 869.   Così passa la gloria del mondo.