Chi l'ha detto?/Parte prima/39
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§ 39.
Guerra e pace
693. Bella, horrida bella. 1
così Virgilio apostrofa la crudele guerra, flagello dei popoli, e con lui lo ripeterono, in tutte le lingue, milioni di uomini durante il terribile conflitto degli anni 1914-1918, di cui più particolarmente mi occuperò nella P. II, § 80. Ma poche guerre si sarebbero combattute se fossero stati arbitri di farle o no coloro che ne sopportano le spese. Pur troppo invece la guerra fu quasi sempre sfogo d’interessi, di rancori o di ambizioni dinastiche, e non a torto Calderon disse che in guerra polvere e palle sono la
694. Ultima razon de Reyes. 2
y todo mentire, comedia, jorn. segunda, esc. XXIII ).
da cui levarono probabilmente la iscrizione che Luigi XIV fece porre sui cannoni fusi nel 1650:
Ultima ratio regum
che fu tolta via per decreto dell’Assemblea Nazionale del 17 agosto 1796: e Federigo il Grande l’altra presso che simile:
Ultima ratio regis
scolpita sui cannoni dell’esercito prussiano dopo il 1742. Ma forse anche il commediografo spagnuolo non fece che ripetere le parole dette, se il racconto è vero, dal card. Francisco Ximenès, divenuto reggente dei regni di Aragona e Castiglia nel settantanovesimo anno di vita sua (1516), il quale ad alcuni nobili che gli domandavano ragione di certi suoi atti di autorità, mostrò le truppe armate e i cannoni con le miccie accese: aggiungendo: Hœc est ultima ratio regis!
Che
695. Il danaro è il nervo della guerra.
è opinione comune sin dai tempi del Machiavelli, il quale confutandola nei Discorsi sopra la prima Deca di T. Livio, lib. II, intitola il cap. X: I danari non sono il nervo della guerra, secondo che è la comune opinione, e nel testo dice che questa sentenza fu «detta da Quinto Curzio nella guerra che fu tra Antipatro Macedone e il Re Spartano»; ed è «allegata ogni giorno, e da’ Principi, non tanto prudenti che basti, seguitata.» Imperocchè il Machiavelli ritiene che l’oro non basta a vincere, che la guerra si fa col ferro e non coll’oro, che non il danaro, ma i buoni soldati sono il nervo della guerra: e niuno potrebbe dargli torto, sennonchè la sentenza quale si cita, non vuol dire che basta il danaro a fare e a vincere le guerre, ma che il danaro è indispensabile. Dirò pure che in Quinto Curzio il quale della guerra mossa da Agide re di Sparta contro Antipatro parla in principio del lib. IV e in principio del VI, non ho trovato questa sentenza: soltanto nei Supplementi del Freinshemio lib. I, cap. X, è detto che ad Alessandro, dopo la morte di Filippo, mancava la nervus gerendarum rerum pecunia, ma non occorre ricordare che questi Supplementi sono posteriori al Machiavelli. Non la pensavano come il Segretario fiorentino Rodolfo Agricola negli Sprichwörter, n. 281, che scrisse: Nervi bellorum pecuniæ, nè Rabelais nel Gargantua, I, 46: Les nerfs des batailles sont les pécunes. Si sogliono ripetere pure le parole rivolte a Luigi XII dal maresciallo Gian Giacomo Trivulzio, detto il Gran Trivulzio, quando si trattò di invadere il Milanese: Pour faire la guerre avec succès, trois choses sont absolument nécessaires: premièrement, de l’argent; deuxièmement, de l’argent; et troisièmement, de l’argent; e il Trivulzio che per la eccessiva sua avarizia era diventato la favola della Corte, era più d’ogni altro al caso di poter proclamare con efficacia questo principio. Richelieu peraltro soggiungeva che: Si l’argent est, comme on dit, le nerf de la guerre, il est aussi la graisse de la paix. E la verità vera è che il danaro è non soltanto il nervo della guerra ma il nervo di tutte le cose. E già Eschine (In Ctesiph., 52) fra i neologismi che rimprovera a Demostene, cita quello di aver chiamato il denaro τὰ νεῡρα τῶν πραγμάτων, i nervi delle cose, e dopo di lui il filosofo Bione diceva, τὸν πλοῡτον νεῡρα πραγμάτων (in Diog. Laert., IV, 7, 3, §48). E, per non dire di molti altri autori classici che usarono simile locuzione (vedi Büchmann, Gefl. Worte, XXIII. Aufl., S. 373), anche Cicerone scrisse nelle Filippiche (V, 2): Nervos belli pecuniam e nell’orazione De imperio Cn. Pompeii (VII, 17): Vectigalia nervos rei publicæ.
696. Silent leges inter arma.3
scrisse Cicerone nell’orazione Pro Milone (IV, 10), che Lucano (Pharsalia, lib. I, v. 277) così ridusse: Leges bello siluere coactæ. Su questa massima scrisse lo Schwendendörffer una Oratio de sententia «Inter arma silent leges» (Altdorfii, 1631).
697. Tout soldat français porte dans sa giberne le bâton de marèchal de France.4
è attribuito a Napoleone I (E. Blaze, La vie militaire sous l’Empire, vol. I, pag. 5); e questa speranza di gloria e di guadagno era molte volte il solo incentivo per il soldato ad affrontare la morte, giacchè in troppi casi egli ignorava la causa per la quale combatteva, e
698. Venduto ad un duce venduto
Con lui pugna, e non chiede il perchè.
Le sole guerre nelle quali il cuore del soldato batta per un sentimento più elevato e faccia propria la causa della bandiera sotto la quale ripara, sono le guerre per la indipendenza nazionale. Allora ogni uomo valido alle armi è soldato, e le donne stesse lo spingono animose dove lo chiama la voce dell’onore, e ripetono a lui le storiche parole:
699. Ἠ τὰν ἥ ἐπὶ τᾶς5
700. Relicta non bene parmula.6
Si ricordino i bei versi del Leopardi (Nelle nozze della sorella Paolina):
Finchè la sposa giovanetta il fido |
Tuttavia l’uomo può andare incontro alla morte anche per cagioni più basse e futili: non altrimenti i gladiatori che, non sempre astretti dalla volontà del padrone, ma talora per sola avidità di guadagno, correvano a dare o a ricevere morte al grido:
701. Ave, Imperator, morituri te salutant. 7
Svetonio nella Vita di Claudio (§21) così narra di questo imperatore: «Emissurus Fucinum lacum, naumachiam ante commisit. Sed cum proclamantibus naumachiariis, Ave, imperator, morituri te salutant, respondisset, Avete vos, neque post hanc vocem, quasi venia data quisquam dimicare vellet, diu cunctatus an omnes igni ferroque absumerent, tandem e sede sua prosiluit, ac per ambitum lacus non sine fœda vacillatione discurrens, partim minando, partim adhortando ad pugnam compulit. Hoc spedando classis Sicilia et Rhodia concurrerunt, duodenarum triremium singula:, exciente buccina tritone argenteo, qui e medio lacu per machinam emerserat.»
A questo ricordo di Svetonio s’ispirò Pietro Cossa quando nella Messalina (a. I, sc. 8) così fa parlare Claudio:
....Per quel dì solenne
S’appresti uno spettacolo navale,
E i gladiatori che combatteranno
S’ammazzino sul serio: da gran tempo
I gladiatori sono un po’ svogliati
Nell’arte del morire.
702. (In) Hoc signo vinces. 8
703. Carne da cannone.
Fra i Pensieri di Giacomo Leopardi ce n’è uno, a proposito dell’amore che ha il mondo pei i forti, in cui si trova questo periodo: «Così Napoleone fu amatissimo dalla Francia, ed oggetto, per dir così, di culto ai soldati, che egli chiamò carne da cannone e trattò come tali» (il LXXIV, nella ediz. delle Prose morali, comm. da Ild. Della Giovanna, Firenze, Sansoni, 1895, a pag. 344). Ora, sfuggì veramente a Napoleone una così bestiale definizione? Era naturale che il dubbio sorgesse e. una volta sorto, si cercasse di chiarire l’equivoco, se l’equivoco v’era, tanto più che la frase carne da cannone è divenuta universalmente popolare. Alberto Lumbroso raccontò nell’Italia Moderna, ott. 1906, pag. 368-369 (articolo ristampato nel volume: Attraverso la Rivoluzione e il Primo Impero, Torino, Bocca, 1907, a pag. 473-476) d’avere scritto sull’argomento al Masson, il celebre storico di Napoleone, e il Masson gli rispose negando energicamente: Napoleone sarebbe stato una bestia se l’avesse detto ed egli era ben lungi dall’essere una bestia. Chi dunque gli attribuì calunniosamente quella definizione disumana? II Lumbroso asserisce che il calunniatore fu l’abate de Pradt, scrittore e uomo politico, già elemosiniere di Napoleone I e che poi rivoltatoglisi contro fu uno dei suoi detrattori e ne fu ricompensato con la nomina a vescovo di Poitiers e poi ad arcivescovo di Malines. E in una sua lettera al principe di Talleyrand il conte di Jaucourt afferma che fu appunto l’abate de Pradt ad attribuire falsamente a Napoleone la frase: «Le soldat est la chair à canon.» Del resto non si dimentichi Shakespeare che nel King Henry IV, parte prima, a. IV. sc. 2a, fa dire a Falstaff dei suoi soldati: Food for powder (carne da polvere).
Anche la guerra ha le sue norme, i suoi precetti; non nel solo giuoco delle armi, o nel cozzo brutale degli eserciti sta la guerra: e a molti episodi, anche gloriosi, della storia militare, si potrebbero implicare le notissime parole:
704. C’est magnifique, mais ce n’est pas la guerre. 9
o come altri dicono: C’est beau, mais ce n’est pas la guerre, parole dette dal generale francese P. F. G. Bosquet, assistendo alla eroica ma imprudente carica della cavalleria leggera (comandata dal conte di Cardigan) alla battaglia di Balaklava (25 ottobre 1854), carica dovuta, pare, a un ordine male inteso, e da cui ritornò appena un terzo della brigata. Vedi: Layard, La première campagne de la Crimée ou les batailles mémorables de l’Alma, de Balaklava et d’Inkermann, trad. franc. Bruxelles, 1855, a pag. 72.
Una notevole sentenza di Tacito intorno alla guerra, e che potrebbe facilmente applicarsi a molte altre faccende umane è questa:
705. Iniquissima hæc bellorum conditio est, prospera omnes sibi vindicant, adversa uni imputantur. 10
Fra tutte le guerre, più dolorose e feroci che le altre sono le guerre civili, sì per l’orrore che destano, sì per l’accanimento che i combattenti vi portano. Di esse parlava il Manzoni nei due notissimi versi:
706. I fratelli hanno ucciso i fratelli:
Questa orrenda novella vi do.
Sempre a proposito delle guerre civili che insanguinano le vie, si può ripetere la frase di Jean François Ducis, poeta tragico (1733-1816):
707. La tragèdie court les rues. 11
Egli scrisse nei tristi giorni del Terrore a uno dei suoi amici: Que parles-tu, Vallier, de faire des tragédies? La tragédie court les rues (Campenon, Essais de mémoires sur la vie de Ducis, Paris, 1824, a pag. 79). Ma egli non aveva fatto che ripetere inconsciamente il ritornello di una mazarinata:
Comédiens, c’est un mauvais temps.
La Tragédie est par les champs.
708. L’ordre règne à Varsovie. 12
Quale ne è la origine? Nella seduta della Camera francese dei deputati del 16 settembre 1831. il ministro degli affari esteri, il conte Orazio Sebastiani, rispondendo a una interrogazione sulle cose della Polonia, uscì con questa frase infelice: «Le gouvernement a communiqué tous les renseignements qui lui étaient parvenus sur les événements de la Pologne.... Au moment où l’on écrivait, la tranquillité régnait à Varsovie.» (Moniteur Universel, 17 sept. 1831). Varsavia infatti aveva capitolato l’8 del mese dopo due giorni di sanguinoso combattimento. Il giornale La Caricature pubblicò una litografia di Grandville e di Eugenio Forest, che alludendo alle parole disumane del ministro, rappresentava un soldato russo circondato da cadaveri con la leggenda L’ordre règne à Varsovie. La ragione per la quale la frase è rimasta celebre sotto questa ultima forma che non è quella autentica del resoconto parlamentare, può forse trovarsi in una comunicazione ufficiosa mandata da Cracovia, i° settembre, che fu pubblicata nel numero precedente a quello citato del Moniteur, e che diceva, dopo aver dato i ragguagli delle stragi di agosto: «....Le général Krakowiecki a été effectivement nommé dictateur, et revêtu d’un pouvoir illimité. L’ordre et la tranquillité sont entièrement rétablis dans la capitale.»
Al Manzoni piaceva di raccontare su tale argomento il seguente aneddoto. Il conte Sebastiani aveva maritata sua figlia col Duca di Praslin, il quale, dopo di averle dato coi suoi disordini gravi ragioni di malcontento, finì in un accesso di follia gelosa ad uccider lei e quindi sè medesimo, tragedia che rimase tristamente famosa per lunga serie di anni. Un polacco, a cui non s’erano cancellate dal cuore le parole colle quali il Sebastiani aveva annunziato dalla tribuna la rovina della sua città, conosciuto questo avvenimento, esclamò: L’ordre règne à l’Hôtel Praslin.
Le parole del generale Sebastiani facevano inconsciamente eco alla frase di Tacito:
709. Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant. 13
710. Et le combat cessa, faute de combattants. 14
Può accadere che talora nella guerra non ci siano vincitori: ma ci sono sempre dei vinti, e per loro occorre rammentare la terribile minaccia di Brenno, duce dei Galli, che nell’anno 362 di Roma, e 390 avanti Cristo, avrebbero incendiata e taglieggiata la città dei Quiriti:
711. Væe victis! 15
712. Una salus victis nullam sperare salutem. 16
Quante amarezze siano riserbate ai vinti, dovevano ai giorni nostri provarlo molti popoli e soltanto mezzo secolo fa un nobile paese, la Francia, oggi vittoriosa ma che nel 1870 e ’71 espiò crudelmente le colpe sue e non sue. Nella circolare che Giulio Favre, ministro degli affari esteri e vicepresidente del Governo della Difesa nazionale, rivolgeva il 6 settembre 1870 agli agenti diplomatici della Francia, si leggeva una frase rimasta celebre ma smentita ben presto dalla forza stessa delle cose:
713. Ni un pouce de notre territoire, ni une pierre de nos forteresses.17
La circolare così diceva; « Nous ne cèderons ni un ponce de notre territoire, ni une pierre de nos forteresses.... Nous ne traiterons que pour une paix durable» (Journal officiel del 7 settembre). Fiere parole, di cui la inconsiderata temerità era scusabile soltanto in grazia del sentimento ardente di patriottismo che le aveva suggerite. Nella seduta del 17 giugno 1871 dell’Assemblea Nazionale, il Favre stesso riconobbe che la formula sostenuta da lui aveva reso impossibile ogni accordo con Bismarck nei colloqui di Ferrières (18 e 19 settembre 1870).
Pur troppo la ragione è sempre del più forte e per farsi valere bisogna farsi temere. Perciò gli antichi dicevano:
714. Si vis pacem, para bellum. 18
Narra Tito Livio (Hist., lib. XXI cap. 18) che nell’anno 218 avanti Cristo, 534 dalla fondazione di Roma, essendo i legati romani venuti in Cartagine a lagnarsi della espugnazione di Sagunto, il duce loro Quinto Fabio Massimo, detto il Verrucoso e più tardi il Temporeggiatore, volto agli anziani della città, «sinu ex toga facto, hic, inquit, vobis bellum et pacem portamus; utrum placet, sumite», e poichè quelli risposero che lasciavano a lui la scelta, scosse la toga, e replicò che dava loro la guerra. Di quest’episodio si vale il Tasso nella Gerusalemme liberata, quando fa venire Argante insieme ad Alete, ambasciatori del re d’Egitto, innanzi a Goffredo. Dapprima Argante esclama con insolenza:
715. Chi la pace non vuol, la guerra s’abbia.
716. E guerra e pace in questo sen t’apporto: Tua sia l’elezione....
Ambasciatore più umano sembra Lisandro quando all’alzarsi della tela pel primo atto dell’Aristodemo, tragedia del Monti, dice a Palamede:
717. Sì, Palamede; alla regal Messene
Di pace apportator Sparta m’invia.
Sparta di guerra è stanca....
718. I’vo gridando: pace, pace, pace.
E se non è forte nei vecchi classici della patria letteratura, andrà piuttosto declamando l’apostrofe di Guido da Polenta a Paolo e Lanciotto:
719. .... Ah, pace,
O esacerbati spiriti fraterni!
ovvero canterellando la romanza di Leonora nel melodramma La Forza del Destino, parole di F. Piave, musica di Verdi (a. IV, sc. 6):
720. Pace, pace, mio Dio, cruda sventura
M’astringe, ahimè, a languir.
La guerra ha ispirato un gran numero di canti patriottici, di molti dei quali sono rimasti popolari dei versi o delle strofe. Va innanzi a tutti il famoso:
721. Allons, enfants de la patrie. 19
«Le nouveau chant, exécuté quelques jours après à Strasbourg, vola de ville en ville sur tous les orchestres populaires. Marseille l’adopta pour être chanté au commencement et à la fin des séances de ses clubs. Les Marseillais le répandirent en France en le chantant sur leur route. De là lui vint le nom de Marseillaise. La vieille mère de de Lisle, royaliste et religieuse, épouvantée du retentissement de la voix de son fils, lui écrivait: «Qu’est-ce donc que cet hymne révolutionnaire que chante une horde de brigands qui traverse la France et auquel on mêle notre nom?» De Lisle lui-même, proscrit en qualité de royaliste, l’entendit, en frissonnant, retentir comme une menace de mort à ses oreilles en fuyant dans les sentiers des Hautes-Alpes. «Comment appelle-t-on cet hymne?» demanda-t-il à son guide. - «La Marseillaise,» lui répondit le paysan. C’est ainsi qu’il apprit le nom de son propre ouvrage. Il était poursuivi par l’enthousiasme qu’il avait semé derrière lui. Il échappa à peine à la mort. L’arme se retourne contre la main qui l’a forgée. La Révolution en démence ne reconnaissait plus sa propre voix!»
Ho riportato il racconto testuale di Lamartine perchè ormai esso è consacrato dalla tradizione, ma è bene avvertire che indagini posteriori hanno mostrato come esso sia pieno di particolari che in gran parte hanno fondamento solo nella immaginazione dello scrittore. Rouget medesimo ha narrato com’egli compose quest’inno, e la sua narrazione è affatto diversa dal romanzetto di Lamartine riprodotto in un bel quadro di Pils e in un’incisione notissima di Cottin. L’inno che Rouget aveva scritto per l’armata del Reno e che perciò ebbe da principio il nome di Chant de guerre de l’armée du Rhin, fu eseguito dalla musica della guardia nazionale di Strasburgo il 29 aprile 1792, e da un soldato marsigliese fu portato nella sua città natale, ove divenne tosto popolare, e da cui passò a Parigi portatovi dai Marsigliesi stessi quando guidati da Barbaroux vennero alla capitale, cantandolo per le vie e alla presa delle Tuileries il 10 agosto.
Il maresciallo Jourdan, il vincitore di Fleurus, fece il più bell’elogio della Marsigliese dicendo: «Avec dix mille soldats et la Marseillaise je battrai quarante-mille hommes.» Un altro generale di quel tempo scriveva al Direttorio: «J’ai gagné la bataille; la Marseillaise commandait avec moi;» e un altro domandava un rinforzo di 10,000 uomini o una nuova edizione della Marsigliese.
Escono dal nostro soggetto, e quindi non mi ci trattengo, le polemiche sulla paternità della musica della Marsigliese, poichè, fra le altre cose, i critici tedeschi sostengono che essa è copiata di peso dal Credo della Messa Solenne num. 4, dell’organista Holtzmann di Meersburg (sul lago di Costanza), composta nel 1776. Anche altre attribuzioni sono state fatte delle quali non è il caso di fare menzione. Si consulti del resto il buon libro di Alfred Leconte, Rouget de Lisle, sa vie, ses œvres, la Marseillaise (Paris 1892), ma più specialmente l’opera che si può veramente dire definitiva sull’argomento, del dotto bibliotecario del Conservatorio Musicale di Parigi, Julien Tiersot, Histoire de la Marseillaise (Paris, Delagrave, 1915. — Ne dette un riassunto Giorgio Barini nell’articolo Il canto di gloria della Francia, nel Fanfulla della Domenica, del 9 aprile 1916).
Fra i molti versi di questo inno ugualmente popolari si tengano presenti anche il primo della 6a strofa:
722. Amour sacré de la patrie. 20
723. Liberté, liberté chérie.21
Non meno popolare della Marsigliese è in Francia lo Chant du Départ che musicalmente ha un’importanza anche maggiore. Questo Canto della partenza è il famoso inno nazionale che Maria-Giuseppe Chénier (fratello minore di Andrea, il poeta famoso morto sulla ghigliottina) scrisse nel 1794 per la quinta festa anniversaria della presa della Bastiglia. Egli lesse i suoi versi al celebre musicista Méhul, l’autore del Giuseppe, il quale chiese l’onore di poterli musicare. Questa grandiosa cantata, composta di sette strofe e un ritornello, appena apparve ebbe un successo enorme, divenne ben presto un canto di gran moda e le bande militari francesi diffusero in Europa la seconda Marsigliese. Il canto comincia:
724. La victoire en chantant nous ouvre la barrière,
La liberté guide nos pas,
Et du Nord au Midi la trompette guerrière
A sonné l’heure des combats.
Tremblez, ennemis de la France....
22
e il ritornello:
La République nous appelle,
Sachons vaincre ou sachons périr:
Un Français doit vivre pour elle,
Pour elle un Français doit mourir.
Ma noi ricorderemo piuttosto alcuni fra gl’innumerevoli canti ed inni patriottici del nostro risorgimento politico. Ecco per primo un coro di classico autore che descrivendo la triste battaglia di Maclodio (1427), così comincia:
725. S’ode a destra uno squillo di tromba;
A sinistra risponde uno squillo.
Eccone altri meno letterari e più popolari:
726. Addio, mia bella, addio,
L’armata se ne va;
E se non partissi anch’io
Sarebbe una viltà.
è la prima strofa di un inno dell’avv. Carlo Alberto Bosi fiorentino (1813-1886) che fu poi prefetto in varie provincie del Regno; inno detto l’Addio del volontario, che anche oggi si canta dai coscritti. Fu scritto a un tavolino del famoso caffè Castelmur (ora scomparso), in via Calzajoli, la sera del 20 marzo 1848, quando partì per la guerra dell’indipendenza il primo battaglione dei volontari fiorentini: e divenne presto il più popolare fra tutti gl’inni nazionali. Con un poco di esagerazione e imitando ciò che altri disse più giustamente delle Mie Prigioni (v. n. 12) scrisse Pietro Gori nel Canzoniere nazionale (Firenze, 1883, a pag. 408) che esso ha «nociuto agli Austriaci più di una battaglia perduta, e giovato all’Italia più di una battaglia guadagnata». Lo stesso Bosi in altra sua dolce lirica I ricordi di una madre, composta in età matura, così rievoca il successo di quella sua fortunata — e meritamente fortunata — poesia giovanile:
Povero Giulio! — Io vengo a dirti addio,
L’armata se ne va — partì cantando —
Un vil sarei, se non andassi anch’io;
Forse ritornerò — ma chi sa quando!
Ti aspetterò, non pianger, mio tesoro,
Lassù nel cielo, se in battaglia io moro. —
Sono ventinov’anni che dolente
Udii quel canto, e l’ho tenuto a mente!
È stato osservato che la prima strofa dell’Addio del volontario trova riscontro tanto nella struttura ritmica quanto in taluni concetti in due poesie del noto poeta irpino P. Paolo Parzanese, Gino e Lena e L’Addio del marinaio, tutte e due stampate fin dal 1846. Il testo originale del Bosi veramente dice nel primo verso: Io vengo a dirti addio e nel terzo: Se non andassi anch’io: le correzioni le volle il popolo, e l’autore le accettò volentieri. Si veda: D’Ancona, Poesia e musica popolare italiana nel secolo XIX, in Ricordi ed Affetti, Milano, 1902; G. B. Ristori nell’Illustratore Fiorentino, calendario storico per il 1909, N. S., vol. VI, pag. 151-152: Franc. Lo Parco, Della più popolare Canzone patriottica italiana e del suo poco noto Autore, nel Fanfulla della Domenica, a. XXXVII, n. 34, Roma, 22 agosto 1915.
727. Zitti.... silenzio,
Passa la ronda.
Zitti.... silenzio:
Alt! chi va là!
Zitto! silenzio! Chi passa là?
Passa la Ronda! Viva la Ronda!
Viva l’Italia, la libertà!
728. Si scopron le tombe, si levano i morti.
è il primo verso del celebre Inno di Garibaldi, scritto nel 1859 da Luigi Mercantini per incarico del generale medesimo, e musicato da Alessio Olivieri. Torneremo più tardi sulla storia di questo glorioso inno.
729. Soldati, all’armi, all’armi,
Son pronti i battaglioni,
I brandi ed i cannoni
La morte a fulminar.
è un altro inno patriottico delle campagne del 1859, composto da Giuseppe Pieri e musicato da Rodolfo Mattiozzi.
730. Delle spade il fiero lampo
Troni e popoli svegliò;
Italiani, al campo, al campo,
È la madre che chiamò.
Su, corriamo in battaglioni
Fra il rimbombo dei cannoni,
L’elmo in testa, in man l’acciar....
Viva il Re dall’Alpi al mar!
è il principio dell’inno di guerra composto da Angelo Brofferio nel 1866 e messo in musica da Enea Brizzi.
Anche la letteratura melodrammatica ha dato un numero notevole di questi canti guerreschi, che il popolo ripete, in musica o no. ma sempre con diletto. Tali sarebbero i seguenti:
731.
Sul campo della gloria
Noi pugneremo a lato,
Frema o sorrida il fato,
Vicino a te starò.
La morte o la vittoria
Con te dividerò.
che è il duetto di Belisario e Alamiro nella tragedia lirica di Salvatore Cammarano, Belisario, musica di Donizetti (a. I, sc. 6); e nel melodramma I Puritani di Carlo Pepoli, musica di V. Bellini (a. II, sc. 4) l’altro duetto:
732.
Suoni la tromba, e intrepido
Io pugnerò da forte,
Bello è affrontar la morte
Gridando libertà!
Un aneddoto relativo a questo duettino sarà narrato più avanti, al n. 790.
Note
- ↑ 693. Guerre, orrende guerre.
- ↑ 694. Ultimo argomento dei re.
- ↑ 696. Tacciono le leggi fra le armi.
- ↑ 697. Ogni soldato francese porta nella sua giberna il bastone di maresciallo di Francia.
- ↑ 699. O con questo o su questo
- ↑ 700. Dopo aver gettato malamente lo scudo
- ↑ 701. Addio, Imperatore, quei che vanno a morire ti salutano.
- ↑ 702. In questo segno vincerai.
- ↑ 704. È magnifico, ma non è la guerra.
- ↑ 705. Questa cosa ingiustissima segue in ogni guerra, che tutti si arrogano il merito dei prosperi successi, e gli avversi ad un solo sono rimproverati.
- ↑ 707. La tragedia corre per le vie.
- ↑ 708. L’ordine regna a Varsavia.
- ↑ 709. Dove fanno la solitudine, là dicono essere la pace.
- ↑ 710. E il combattimento cessò per mancanza di combattenti.
- ↑ 711. Guai ai vinti.
- ↑ 712. Pei vinti unica salute nel disperare di ogni salute.
- ↑ 713. Nè un pollice del nostro territorio, nè una pietra dette nostre fortezze.
- ↑ 714. Se vuoi la pace, prepara la guerra.
- ↑ 721. Andiamo, figli della patria.
- ↑ 722. Amore sacro della patria.
- ↑ 723. Libertà, libertà diletta.
- ↑ 724. La vittoria cantando ci apre la via, la libertà ci guida e dal Nord al Mezzogiorno la tromba di guerra ha suonato l’ora della battaglia. Tremate, nemici della Francia....