A l’altissimo volo. E quando oscure
Requian le cose, e al raggio de la luna
La tremula del mare onda s’ingiglia,
Tu dal drappello glorioso eletto
Sul sommo balzo, onde è custode un nume,
Del vocale ti assidi arduo Soratte,
Nè ti sgomenti colassù ’l profondo
Servil silenzio che da l’Appennino
Al doppio mar gli indifferenti campi
Occupa e le città fatue, gremite
Di tali vivi che ti paion morti:
Ma al scintillar de le serene stelle
Con la fede nel cor spargi a le quattro
Plaghe dei venti l’elegia di Roma,
Sdegnosa Niobe da perpetui dardi
Ferita sì, ma non uccisa mai.
Voce smarrita in un deserto allora
Forse quel canto ti parrà; ma pensa
Che in faccia a Dio non va perduto il zillo
D’un insetto calpesto in mezzo all’erba
Nè il boccheggiar dell’uccellin che spira
Sotto le strette di crudel fanciullo;
E credi a me, v’à un dì ne l’avvenire
Che i tuoi lamenti troveranno un’eco.
E forse il bambinel che la tua strofa
Adesso inconsapevole balbetta,
Quando che sia, ne l’ora de le patrie
Pugne cresciuto a battagliero audace.
Ne l’avventarsi sui nimici il verso
Ripeterà del libero poeta.