Biografia di Frà Paolo Sarpi/Vol. I/Capo IV
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CAPO QUARTO.
(1575-1605). Fin qui a miei lettori non ho fatto che dipingere un frate: ora conviene parlare del filosofo; e più sotto vedremo questo medesimo, gran teologo, gran giureconsulto, grand’uomo di stato, e lo scrittore il più coraggioso e il più utile del suo secolo.
Comechè Frà Paolo dirigesse tutte le sue ricerche a uno scopo unico, non mi sarà per ciò possibile di ritrarre qual fosse il suo sistema di filosofia, prendendo questo vocabolo nel più esteso significato che raccoglie tutte le nozioni del mondo fisico e intellettuale; perocchè essendo perduti i suoi scritti, null’altro più ci rimane che quel poco conservatoci da Marco Foscarini e da Francesco Grisellini. Ma perchè anco da quel poco possa il lettore rilevare l’arditezza e l’acume di lui, premetterò alcune parole sullo stato della scienza a quel tempo.
La filosofia di Aristotele, o meglio quella degli Arabi che la avevano stravolta con versioni infedeli e commenti visionari, aveva per lungo tempo dominato le scuole; e ridotta quasi a sole arguzie fantastiche, fu un continuo ostacolo ai progressi dello spirito umano. Ma risorte le lettere in Italia, e l’amore degli studi fomentato dai principi e particolarmente dai papi, e promosso viepiù dalle condizioni politiche e dallo spirito investigatore dell’età, cominciò a nausear l’antico e nascer gusto per le cose nuove. In tempo adunque opportuno alcuni Greci venuti in Italia fecero conoscere nei secoli XV e XVI le opere di Platone, di cui appena era noto il nome; e quella sua filosofia immaginosa e lusinghiera piacque, e per opera di Nicolò V pontefice fu quasi vicina ad ottenere il predominio. Ma altri Greci fecero pur conoscere gli originali di Aristotele, rilevarono gli errori delle antiche versioni, altre più fedeli ne furono fatte; surse guerra tra le due sêtte, dove i preti prendendo, come è il solito, per religione i loro pregiudizi scomunicarono ora Platone, ora Aristotele, i quali ebbero varia fortuna. Intanto s’incominciò a studiar meglio que’ filosofi e gli altri dell’antichità, e surse in alcuni il desiderio di conciliarli tutti insieme: opera impossibile, come è impossibile di conciliare i teologi. Ciò nulla ostante questi tentativi spianarono la strada ad altri maggiori; perocchè scosso il giogo dell’autorità in un punto, è guida ad un altro, e questi a quattro, e così via via moltiplicandosi i progressi per quadrati e per cubi. Alcuni, fastiditi di Aristotele e di Platone, immaginarono nuovi sistemi: per ciò fare era necessario lo spirito di osservazione, bisognava ricominciare da capo l’esame degli arcani della natura e conoscere le vie regolari de’ suoi processi: da qui i primi passi della moderna filosofia sperimentale. La medicina, scienza empirica sino allora, fu assoggettata a più severe regole e associata alla botanica e allo studio de’ semplici dopo che Mattioli fece conoscere all’Italia le opere di Dioscoride; l’anatomia, depressa da’ pregiudizi di religione, cominciò a risorgere; l’alchimia pazza madre generò figlia saggia, la chimica; la fisica ebbe a compagni l’osservazione e l’esperienza; la astrologia giudiciaria già screditata da Pico della Mirandola, benchè da altri difesa, cedeva a poco a poco all’astronomia; salirono in onore le matematiche, e la filosofia speculativa non professò mai opinioni tanto audaci come nel secolo XVI. Nè i papi se ne adombravano: chè anzi intanto che il patriarca di Venezia faceva abbruciare il libro di Pietro Pomponaccio, Bembo lo difendeva a Roma, e Leone X impediva si tentasse processo contro il filosofo che metteva in dubbio l’immortalità dell’anima.
Bernardino Telesio calabrese, nato nel 1502 e morto a Roma nel 1588, fu il primo che dopo l’immature prove altrui desse un calcio all’aristotelismo, e innalzasse sulle sue rovine un nuovo sistema; ma benchè non sempre coerente a sè stesso, e più immaginoso che osservatore, la sua filosofia avendo trovato numerosi seguaci, diede un vivo impulso a nuove ricerche.
Più ardito di lui fu Gerolamo Cardano milanese morto nel 1576, medico, matematico e filosofo insigne; ma che dotato di un naturale strano se altri ne fu mai al mondo, accoppiò alle più giuste e più luminose idee, puerilità e superstizioni che sembrano incredibili.
E più fecero Giordano Bruno e Tommaso Campanella altri calabresi, ambo domenicani, quello di Nola, questi di Stilo, contemporanei del Sarpi: il primo accusato di eresia fu arrostito dalla Inquisizione di Roma nel 1600; e l’altro dopo lunghe persecuzioni fratesche e una prigionia di 27 anni morì quietamente a Parigi nel 1639. Tanta è la potenza del genio italiano, che dove le altre nazioni imbarbarirono tosto che furono oppresse, ei grandeggiò a dispetto della fortuna; e fra le stretture di timidi incresciosi governi, sotto la verga del dispotismo, fra i dolori del corpo e dello spirito, nello squallore dei carceri, nella miseria dello esilio ardette immenso il generoso amore della sapienza. Pochi dei sommi uomini d’Italia furono felici, i più perseguitati e infelicissimi. Giordano Bruno condannato dai falsi giudizi del mondo alla infame taccia d’ateo, ha bisogno ancora di una età illuminata che rivendichi il pregio delle sublimi sue speculazioni. Non è colpa dell’Italia o degli Italiani se la memoria di sì grand’uomo passa inonorata fra loro, e se toccò ad un tedesco, il dottore Wagner, il merito di tirarne gli scritti volgari dall’inglorioso oblìo in cui giacevano sepolti, e che, studiati, mettono Giordano Bruno a lato de’ più profondi pensatori.
Fu il precursore di Galileo, di Cartesio, di Leibnizio e di Fichte; anzi i tre ultimi non fecero talvolta che copiarlo. Incominciò molte scoperte nella astronomia e nella fisica, e ne indovinò altre. È il primo che abbia assunto con qualche estensione la difesa del Copernico. Privo di sussidi artifiziali, colla sola potenza del suo ingegno, indovinò essere le comete non meteore, ma veri mondi siderei soggetti a moti regolari; indovinò più altri pianeti oltre ai conosciuti in allora; e che le stelle fisse sono sistemi solari; e la forma sferica a cui tendono la materia e i mondi; ed essere tutti i globi popolati, come la terra, di creature; e altre cose confermate indi da più esatte osservazioni. Il suo panteismo è il più ragionevole, il più semplice e il più conforme alle idee della sua filosofia: somiglia a quello dei platonici e degli antichi Padri della Chiesa, ma più chiaro e senza contradizioni. L’oscurità del suo stile in latino, la trivialità troppo spesso in italiano, la smania pel linguaggio simbolico e cabalistico, appartengono al secolo e alle circostanze in cui si trovò l’autore, e la grandezza de’ suoi pensamenti al suo intelletto.
Il Campanella prestò grandi servigi alle metafisiche, all’etica e alla politica: non quella che oggi con tal nome si chiama, tortuosa officina di frodi onde sono ingannati ed oppressi i popoli, ma altra più sublime che addita con quali leggi e religione e morale debba essere governata la società per farla virtuosa e felice. E si può dire che alle scienze sopradette diede una nuova forma e le mise in correlazione tra loro assai meglio che per lo innanzi non si era fatto. Il misticismo e le allegorie del Campanella non sono più del gusto moderno. Ma generati da ricca e veemente fantasia, erano forse anco veli necessari onde sottrarre alla intollerante ignoranza dei frati dottrine che non intendevano e cui perseguitavano. I meriti di Campanella apparirebbero forse maggiori se la sua filosofia fosse più conosciuta e meglio studiata; ma delle sue opere molte giacciono inedite, e delle stampate sono rarissimi gli esemplari. Non è molto che il professore Orelli, dotto filologo di Zurigo, fece conoscere le poesie filosofiche di lui; le quali comechè stampate fino dal 1622, rimanevano ignote ai più curiosi bibliofili: eppure meritano di essere lette di preferenza a tante altre insipide rimaglie così dette di buoni autori, perocchè racchiudono come in compendio il sistema del filosofo di Stilo. L’impaziente fantasia italiana troppo facilmente si annoia del genere mistico ed allegorico; ma quando le allegorie sono giudiziose, aguzzano l’ingegno: e le poesie del Campanella puonno ben meritarsi un po’ di quella riflessione cotanto necessaria per intendere la Divina Commedia.
Tra i difetti di questi ed altri novatori della filosofia sono precipui la mancanza assoluta di metodi, nel che non ebbero colpa; perciò che essendo senza guida dovevano affidarsi ai soli sforzi del proprio ingegno, che prima crea le scienze, poi trova il metodo d’insegnarle. A queste necessità ne susseguivano altre: troppa confidenza nella immaginazione, troppo scarsi gli esperimenti, favore al trascendentalismo, agli allegorismi e alle astruserie cabalistiche, donde avviene che usino un linguaggio tra barbaro ed oscuro che talvolta gli rende inintelligibili; arrogi i pregiudizi di magia, di teurgismo, di alchimia, di astrologia in voga ai tempi loro e fra i quali si dibattevano come aquila fra le reti, stracciandole a libertà di altri uccelli senza liberare sè proprio; e arrogi ancora un formicaio d’idee cristiane o monastiche di cui erano imbevuti per educazione, e d’idee pagane attinte studiando gli antichi: fra mezzo alla quale compagine sono d’uopo profonde cognizioni congiunte ad animo paziente per cogliere e seguire di filo i pensieri di quelli autori. Quindi i loro sistemi sono viziosi per molti lati, troppo spesso appoggiati ad ipotesi, troppo rado alle prove: più fortunati a scoprire gli errori esistenti che a scoprire nuove verità. Ma quantunque non valessero ancora a sostituire alcun che di compiuto al vecchio che distruggevano, oltrechè nelle loro opere abbondano le buone idee, le viste profonde, le scoperte o i tentativi di scoperte; valsero a introdurre il dubbio, prima filosofia, e i paragoni, importante conseguenza del dubitare e base inevitabile della dimostrazione; contribuirono a stenebrare le viete prevenzioni, a rompere gl’inciampi dell’autorità, a fare le menti più libere e più osservatrici, a far uso de’ sensi e della ragione, e spianarono la via a altri due Italiani, che parevano principalmente destinati a mutar faccia alle scienze filosofiche: Sarpi e Galileo. Ma quello distratto dalla fortuna a riformare altra specie di errori, lasciò tutto libero il campo al secondo; pure dirò anco in questa parte ciò ch’egli fece. Ma prima ricordi il lettore che egli era un povero frate, educato nei pregiudizi del chiostro, e spinto sulla carriera filosofica dalla sola prepotenza del suo genio: e noti ancora che la filosofia a quei tempi in Italia si trovava in gravi angustie. L’imperio di Spagna, inesorabile, sterminatore, avviliva gl’ingegni italiani; la corte di Roma li aveva in sospetto, l’Inquisizione gli perseguitava: ogni opinione, ogni scoperta, ogni libro, facevano temere un’eresia, erano sindacati da frati idioti che non li intendevano, e che li rigettavano come empii; nissuno poteva essere filosofo senza essere riputato ateo o mago: e un frate filosofo doveva temere più degli altri, benchè in Venezia il governo fosse assai meno che altrove superstizioso, e che ivi si godesse maggiore liberta.
Venendo al Sarpi, è dunque da sapersi che appena tornato da Milano a Venezia per insegnarvi filosofia (nel 1575), si applicò a tutte le parti che abbracciano questo vastissimo ramo; e affine di nulla perdere delle sue meditazioni e potere ad un tempo ricorrerle, riesaminarle e svolgerle con profondità, si diede a registrare tutti i suoi pensieri che raccolti in numero di seicento formavano un volume in 8.° di 200 pagine, tutto di mano di Frà Paolo, portando in margine ciascuno la data dell’anno: i più erano del 1578. Alcuni di que’ pensieri versavano intorno alla fisica sperimentale, altri intorno alla metafisica, ma la maggior parte intorno alle matematiche; e benchè stesi succintamente e quasi a modo di ricordo, palesavano, al dire di Foscarini, gran copia e varietà di cognizioni, e contenevano il fiore della dottrina scolastica partecipando insieme delle maniere del filosofare moderno, non senza darvisi indizi de’ sistemi novellamente formati. Ma più ampia notizia ci dà il Grisellini di que’ pensieri: «esaminando i quali, dice egli, oltre che rilevasi a qual grado di cognizione era giunto Frà Paolo, facilmente anco si scopre che rispetto alle accennante scienze si era proposto un punto di perfezione fino allora impensato. Ma più ancora estraendo da quei, per esempio, che appartengono a tutta la naturale filosofia, e facendone l’analisi, c’è luogo a convincersi che vide ed assaggiò quanto di meglio potevano e dovevano pensare dopo di lui i più svegliati ingegni circa i primi elementi e la natura de’ corpi sublunari, proprietà e qualità loro, generazione e disfacimento de’ misti, anima sensitiva ed oggetti sensibili, e tutto che viene abbracciato dai regni della natura».
«E lo stesso s’intenda de’ suoi pensieri matematici: fra i quali ve ne sono che appartengono alla geometria pura, alla sintesi, all’analisi, alle sezioni coniche, alla meccanica, statica, idrostatica, idraulica, idrografia, aerometria, a tutte le parti e divisioni dell’ottica, alla sfera, astronomia, acustica ed architettura militare e civile; i quali osservando si conosce che non pure sopravanzò gli antichi ed i contemporanei, ma precorse eziandio in molte idee e dottrine i più celebri che vennero nelle età seguenti. Per esempio il Galileo in molte osservazioni, e segnatamente in questa che un corpo solido immerso e coperto dell’acqua non acquista gravità maggiore della sua propria; imperocchè l’acqua posta dentro l’acqua non avendo gravità, non può quel corpo diventare nè più nè meno grave. E così ancora un vapore esalante dall’acqua non ascende più veloce dell’aria perchè sia di lei più leggiero, ma perchè spinto in su dalla compressione dell’acqua. Prevenne ancora in alcune idee di astronomia comparata il Keplero e il Gregory; e il Cavalieri sugli affetti degli specchi ustorii, la concavità di cui sia generata da una linea parabolica; e il Barrovio sulle difficoltà nel determinare i luoghi delle immagini degli oggetti veduti per refrazione». Al quale proposito, il Grisellini cita un frammento dei pensieri del Sarpi, del quale fa cenno anco il Foscarini, che è questo: — «Io ho fatto molte sperienze in tal particolare con specchi sferici concavi, convessi e piani, e fin osservando l’effetto prodotto dai raggi del sole e dal risplendere della luna e delle stelle sull’acqua arrivando, ed essendo riflettuti tali oggetti dalla medesima per determinare i loro siti e distanze. Diverse volte le sperienze furono conseguenti al principio fondamentale dei miei raziocini, ma altre volte li trovai smentiti del tutto; il che ho grande argomento di credere, esser possa derivato per quello che in molti casi i raggi spezzati e divergenti entrano nel nostro occhio convergenti».
Foscarini aggiunge di aver vedute fra le carte di Frà Paolo figure matematiche con le quali si rende ragione dell’iride e della riflessione della luce. Appartenevano agli anni 1587-88; ma non fornisce maggior lume.
L’anatomia comparativa, scienza allora nascente e stimata dal volgo poco men che sacrilega, ebbe in lui uno de’ più divoti ed assidui cultori, essendochè già da vari anni si fosse applicato a incidere agnelli, cani, gatti, conigli, capretti, onde studiare la struttura e l’uso delle parti dei corpi animati; e condotto non dal caso ma dal suo intelletto ragionatore procedette alla famosa scoperta della circolazione del sangue, di cui diede i primi indizi Francesco Patrizio, protratta alquanto più oltre da Andrea Cesalpino, e poi illustrata dall’inglese Harvey. Osservò Frà Paolo che il sangue, come corpo grave, non poteva restar sospeso ne’ vasi senza amminicoli che aprendosi e rinserrandosi lo spingessero a trascorrere con quella economia che è necessaria alla vita. Il che lo indusse a cercare ne’ ricettacoli sanguigni le leggi naturali di questo movimento, e trovò che le vene aveano loro valvole per cui il sangue da esse passava nelle arterie, e da queste alle vene ancora, con successione regolare girando e diffondendosi in tutte le parti del corpo. La quale scoperta fatta da lui, secondo che pensa il Foscarini, tra il 1574 e 1578, è attestata da tanti contemporanei che ingiustamente alcuni Inglesi, gelosi della gloria del loro Harvey, hanno preteso di fraudarne Frà Paolo; e giunsero perfino a scrivere, non avere egli fatta alcuna scoperta di tal genere, e quanto lasciò scritto averlo estratto dal libro dell’Harvey: non avvertendo l’anacronismo che fu esso pubblicato cinque anni dopo la morte del Sarpi, e in conseguenza più di trent’anni dopo che l’opinion pubblica e i professori dell’università di Padova, e gli anatomisti e fisiologi oltremontani, che visitando Venezia avevano conosciuto Frà Paolo, parlavano di quella scoperta e ne facevano onore al frate dei Servi. Altri ne diedero gloria a Gerolamo Fabrizio di Acquapendente; ma sono smentiti dal celebre Nicola Peiresc che studiò a Padova a quei tempi e che fu amico del Sarpi e dell’Acquapendente; il quale attesta che la scoperta delle valvole delle vene era da tutti assegnata al frate, e che Fabrizio l’aveva da lui imparata. Quanto al trattato originale in cui l’autore esponeva la nuova teoria del sangue, fu veduto dall’anatomico Wesling in mano di Frà Fulgenzio. È probabile che il Sarpi di questi ritrovati facesse una specie di mistero onde sottrarsi alle persecuzioni che i pregiudizi di quei tempi, e principalmente i frati, movevano avverso gli anatomici; ed anco per iscansare le contradizioni che trovava il nuovo sistema in molti medici idioti e incapponiti nelle viete dottrine.
Siccome il trattato di Frà Paolo è perduto e neppure il Grisellini lo vide, così è incerto sino a qual punto abbia portata la sua scoperta; ma dalla lettera che riferirò fra poco v’ha luogo a credere che siasi inoltrato tanto innanzi da dedurne una pressochè piena dimostrazione: il che nulla toglie alla gloria dell’Harvey che può avere camminato per la stessa via, ignaro di ciò che il Sarpi aveva fatto, o avendone solamente qualche leggiere notizia.
È noto come nel secolo passato molti anatomici oltremontani ed anco d’Italia abbiano messa in voga la ipotesi della transfusione artificiale del sangue dalle vene di uomini robusti e sani in quelle di valetudinari o vecchi, coll’intento di restituire a questi la perduta sanità o il vigore, ed un giovane francese condannato a morire nei disordini della Rivoluzione, col desiderio di morire utilmente per l’umanità propose che il suo sangue fosse trasfuso in qualche malaticcio: gli fu negato. Duolmi di avere dimenticato il nome di questo pio e generoso Francese.
Ora di questa opinione, come di altre induzioni fisiologiche, si trovano chiarissimi indizi in un frammento di lettera di Frà Paolo conservatoci dal Grisellini, ed ove è fatta aperta menzione de’ suoi esperimenti sulla circolazione del sangue; e si vede ancora che Frà Paolo prima di altri moderni ha conosciuti gli effetti dell’aria nuova inspirata nei corpi apparentemente morti, per ritornarli in vita; a che pensò nel secolo passato Hunter coll’invenzione del suo soffietto ad uso di rivivificare gli asfissiaci e gli annegati, perfezionato pochi anni sono dal professore Configliacchi. «Riguardo poi, scrive Frà Paolo alla persona cui dirige la lettera, agli eccitamenti suoi, le dirò che non sono più in caso di poter, come altre volte, svagarmi nelle ore mie silenziose facendo qualche anatomica osservazione sugli agnelli, capretti, vitelli, cani ed altri piccoli animali; che per altro ne ripeterei adesso ben volentieri non poche per l’occasione del generoso dono da V. S. fattomi della grand’opera e veramente utile dell’illustre Vesallio. E veramente sarebbe molto analogo alle cose già da me avvertite e registrate sul corso del sangue ne’ vasi del corpo animale e sulla struttura e officio delle loro valvulette quel tanto che con piacere in detta opera trovasi accennato, benchè non tanto lucidamente, nel libro VII capo 9. Ivi però v’ha luogo a raccogliere che insufflando aria nuova per la trachea di uomini morienti, o ne’ quali paiono cessate le funzioni vitali, si riesce a restituire al sangue degli stessi il perduto moto e allungare loro così di alquanto la vita. Se ciò sia, come non è da dubitare sulla fede di quel grande anatomico, sempre più rimango confermato nella opinione che l’aria la quale respiriamo avvolga in sè un principio o agente capace di avvivare il liquore sanguigno, di rimetterlo nella sua carriera ne’ colti da mortali sfinimenti, ne’ sopraffatti da vapori perniciosi esalanti da’ sepolcri, da cave minerali, da sotterranee e tenebrose buche, da fogne, latrine, ecc., un agente insomma per cui nelle sacre carte sta scritto: anima omnis carnis, cioè di ogni vivente, in sanguine est, e del quale parlarono anco diversi antichi filosofanti, e fra’ scrittori de’ tempi a noi vicini Marsilio Ficino, Pico Mirandolano ecc.»
Un’altra bella scoperta del Sarpi e che fu scala a più altre nell’ottica, fu quella della contrazione e dilatazione del forame dell’uvea in tutti gli animali, della quale Fabricio di Acquapendente che pel primo ne ha parlato dice: «Questo arcano fu osservato dal Padre Maestro Paolo Veneto dell’Ordine de’ Servi, insigne filosofo, ma particolarmente delle matematiche e sopratutto dell’ottica studiosissimo». E del merito di questa scoperta parlando il Portefield dice che essa richiede non solo una cognizione della anatomia più sottile dell’occhio umano e degli altri animali, ma la cognizione di un compiuto sistema di ottica, non puramente matematico, ma fisico ancora, che supponga ed abbracci tutto che vi è di matematico in questa scienza.
Non è dunque se non se un dettato di maligna invidia ciò che afferma Portal che Fabricio non ha scoperto nè descritto cosa che non fosse già nota prima di lui. Vi sono in Francia certi umori che quando si tratta dei loro compatrioti, tutto vedono in grande e perfino le più piccole inezie magnificano con una enfasi che non è lungi dalla cerretaneria. Quando poi è discorso degli stranieri, hanno altri occhiali: tutto vedono in piccolo e con aria sprezzante.
E poichè sono in sul discorso mi permetta il lettore una breve digressione, che non sarà l’ultima. La filosofia in Italia nacque lungo tempo prima che non in Francia o in Inghilterra; ma in un secolo inclinato più alla immaginazione che alla osservazione, e però i nostri filosofi avvilupparono il buono che dissero fra mezzo i sogni e le chimere di trascendentalismo platonico, di sottigliezze aristoteliche, di magia naturale, di astrologia e di tali altre pazziuole in voga a quella età. Ma sarebbe ottimo pensamento se una società di dotti Italiani si prendesse ad estrarre da loro tutto ciò che hanno scritto di buono o di singolare e ne formassero un florilegio illustrato di opportune annotazioni intorno allo stato della scienza a quei tempi e a’ suoi progressi ulteriori, e come quelle o scoperte o aberrazioni stesse possono avervi contribuito. Quante idee di cui si fanno belli gli oltremontani troverebbonsi più o meno dichiarate nelle opere ora ignote di Marsilio Ficino, di Francesco Patrizio, di Cardano, di Campanella, di Giordano Bruno, di Pico della Mirandola e di altri assai! In Francia o in Inghilterra un lavoro simile sarebbe accolto con vero entusiasmo; in Italia, mi duole a dirlo, bisognerebbe spingerlo per farlo gradire, stante quello spirito d’inerzia e quella indifferenza per la gloria nazionale che caratterizza gli Italiani. Pure è necessità che si faccia. I Tedeschi pel tenebroso Kant hanno scritto commenti sopra commenti e persino un dizionario apposito per intenderlo; e il nostro Vico, molto maggiore di Kant, giacque finora negletto e sconosciuto e più lodato per tradizione che per pratica; e adesso soltanto grazie alle cure del dottore Giuseppe Ferrari di Milano possiamo lodarci d’una edizione delle sue opere disposta con tal ordine e illustrata per tale modo che i profondi suoi insegnamenti possono diventare di una intelligenza meno circoscritta. Che più? Non abbiamo neppure una buona storia della nostra filosofia e nemmanco una storia politica dell’Italia che meriti questo nome. In Francia, in Inghilterra ed anco in Germania per prima cosa ai giovani s’insegna a pensare, in Italia a far sonetti; e mediante una così utile educazione siamo diventati un popolo da commedia, mentre gli altri il sono da storia. Torno al Sarpi.
Anco gli antichi conobbero la calamita e la specialità che ha di attrarre il ferro, ma non andarono più oltre; tutto al più la supertizione e la ciarlataneria si associarono ad attribuirle virtù comentizie e la credettero eccellente alle ernie, a marginare le ferite, a prolungare la vita. Il primo che osservasse la facoltà che ha di volgersi ai poli e ne applicasse l’uso alla navigazione fu Flavio Gioia d’Amalfi verso il 1300. Un altro navigatore italiano, Sebastiano Caboto di Venezia, nel 1549 osservò che sotto alcuni paraggi l’ago calamitato declinava dai poli; il che fece credere che la calamita avesse poli suoi propri, e diede luogo a molte ipotesi tanto per determinarli, come per stabilire le longitudini.
Ma le proprietà elettriche sia di essa, sia di altri corpi che contengono magnetismo non cominciarono ad essere osservate se non dopo la metà del XVI secolo.
Intorno alle quali cose Frà Paolo aveva fatto già da più anni varie esperienze, le quali poi raccolse in un volume intanto che si trovava a Roma procuratore dell’Ordine e che veduto dal Grisellini ne dà la seguente analisi.
«In due parti o classi, dice egli, aveva divise le sue esperienze: la prima ne raccoglieva buon numero dettate senz’ordine, e l’altra 141 regolarmente disposte sì che potevano bastare a dare una compiuta idea de’ fenomeni magnetici. Trattavano della inclinazione dell’ago calamitato, del modo di scoprire i due poli della maggiore attrazione e ripulsione, e la nuova generazione di loro. E v’erano sperienze assai sulla differente attrazione e ripulsione, sulla comunicazione del magnetismo colla calamita e col ferro calamitato, sull’accrescimento di esso ne’ corpi che ne sono capevoli, sull’azione vicendevole de’ corpi calamitati, sugli effetti svariati prodotti nelle sfere degli orologi dalla diversa disposizione de’ corpi calamitati rispetto a loro, sopra l’irreparabile perdita che avviene nella calamita e ne’ corpi calamitati per via del fuoco, e in fine sul particolare magnetismo del ferro indipendentemente comunicatogli col mezzo della confricazione o in altro modo».
Osserva poi che il napoletano Porta, benchè molte cose avesse apprese dal nostro frate, ebbe poca cognizione de’ movimenti magnetici; mentre Guglielmo Gilbert, inglese, trattò ampiamente questa materia e con successiva progressione di scoperte apre un teatro di fenomeni così vasto ed esteso che, per dir vero, non gli si può negare il merito d’avere in codesta provincia della fisica fatto passi giganteschi. Indi soggiunge:
«Ora io dico che nel trattato del Gilbert non v’è cosa che non sia stata prima osservata ed esperimentata dal Sarpi. Le medesime sono le sue viste; e riguardo a’ fenomeni, tutta la varietà si riduce al modo di esporli, o ne’ ragguagli. Frà Paolo è semplice, conciso, e non fa deduzioni sistematiche, e segue la massima inculcata dappoi da Bacone di Verulamio, cioè storia, osservazioni e sperienze».
E lodate le osservazioni del Gilbert intorno la declinazione e variazione dell’ago calamitato, aggiunge che il Sarpi anco in queste preceduto lo aveva, tanto che nelle sperienze di lui «non già v’è il solo elementare di quanto abbondevolmente osservò poi il Gilbert, ma ciò che basta ancora per la soluzione del problema di trovare la longitudine di un dato luogo, relativamente alle nozioni erronee che a quel tempo correvano. E qui mi piace, continua Grisellini, mettere innanzi alcune leggi di variazione riportate da Frà Paolo e che debbon essere il risultato di osservazioni, le quali, mentre andava componendo l’opera sua, erano state fatte da qualche suo corrispondente. Dopo d’aver notate che le variazioni sono diverse nello stesso meridiano, addita pure che sono maggiori più verso il polo che presso l’equatore; che la declinazione nel nostro emisfero procede verso oriente e nell’opposto verso occidente; che quanto più si va innanzi verso il Mediterraneo tanto è minore; che nell’Oceano va in linea retta verso la Persia; ed in mezzo ad esso Oceano stassi direttamente al polo tra l’Africa e l’America; che finalmenle nella Guinea trovasi ad un terzo di rombo, a Marocco a due terzi, ed a Londra ad undici ed un terzo. Se Edmondo Hallev, il più eccellente discepolo d’Isacco Newton, avesse veduto un così corto ragguaglio, avrebbe aperto più gli occhi prima di stabilire quel suo sistema delle curve di variazione da lui dette Allejane: sistema che fece grande strepito in Europa per l’applauso onde fu ricevuto, e che poscia incontrò la sorte medesima degli altri».
Finisce poi con dire essere stata opinione del Sarpi, confermata dalle osservazioni posteriori, che la terra è una gran calamita avente proprietà di attrarre a sè i corpi che la circondano, nel che precedette Newton nel dar ragione della gravitazione de’ corpi verso il centro; che per ogni dove trovasi del ferro, e che in ogni sorte d’argilla ve n’è un poco; e che varie esperienze prodotte dappoi siccome nuove scoperte, e principalmente ciò che riguarda l’azione de’ corpi calamitati l’uno sopra l’altro, e l’originario magnetismo del ferro, si trovavano già esposte nell’opera di Frà Paolo. Onde si veda quanto fosse egli originale ingegno e penetrativo filosofo, e ove avesse potuto parzialmente applicarsi alle scienze naturali, non v’ha dubbio, che avrebbe di molto allargato il confine delle cognizioni umane. Nè apparirà punto, a chi bene considera, esagerato ciò che dice Frà Fulgenzio ch’egli a’ matematici appariva un profondo matematico, e così a’ medici, agli anatomici, a’ botanici, ai chimici, agli astronomi, i quali ragionando con lui lo credevano ciascuno della sua professione. Aggiunge l’istesso Frà Fulgenzio che il Gilberto passando per Venezia ed essendosi intrattenuto col Sarpi sui fenomeni magnetici, egli che si stimava sapere gran cose, fu sbalordito vedendo che in ogni sua scoverta era già stato preceduto dal frate italiano.
L’algebra, scienza nota imperfettamente agli antichi, ristaurata dagli Italiani, fra’ quali sono primi da annoverarsi Nicolò Tartaglia che trovò la soluzione delle equazioni del terzo grado, Girolamo Cardano che le perfezionò, e Lodovico Ferrari allievo di quest’ultimo che trovò la soluzione di quelle del quarto grado: questa scienza ebbe, dico, da Francesco Viète matematico francese un nuovo aumento e quella forma di linguaggio convenzionale rappresentato dalle lettere dell’alfabeto, le quali non avendo alcuna significazione per sè, si usano ad esprimere tutte quelle quantità astratte che si vogliano. E per questa semplificazione la scienza aprì un volo immenso, e dove per lo innanzi era limitata a problemi numerici, potè in seguito estendersi universalmente alla ricerca de’ teoremi e alla dimostrazione di ogni sorte problemi sì di aritmetica e sì di geometria. Ma il Viète, cosa non insolita ai nuovi inventori che procedono con passi dubbi e vacillanti, ebbe la disgrazia di esprimersi con termini oscuri e di cadere eziandio in non pochi errori. Frà Paolo essendosi procacciato varii trattati del Viète, a stampa e a penna, gli commentò dottamente siccome fu veduto dal Foscarini, ma meglio ancora dal Grisellini; il quale aggiunge che supplì a quanto mancava in essi, ponendo in più chiaro lume le cose che vi si annunciano, latinizzando tutte le voci greche e spiegando i modi oscuri con intemperanza usati dall’autore; lo che dimostra che il Sarpi colla superiorità del suo genio era pervenuto di una scienza che allora nasceva a penetrarne gli arcani. Ma superò di gran lunga l’autore medesimo mentre in quasi tutti i trattati di lui avvertì un gran numero di sbagli e di viziose omissioni, e aggiunse a parecchi de’ proposti teoremi, o migliori o più adeguate dimostrazioni, notando il tutto o interlinearmente o su volanti cartucce; e ad alquanti problemi sciolti dal Viète in un modo non corrispondente all’instituto suo, recò analitiche e brevi soluzioni, ordinando meglio nel tempo stesso le figure per le dimostrazioni instituite, e certe proposizioni infine corroborando con una più chiara dottrina. Delle quali cose va poi il dottore Grisellini adducendo esempi ch’io ometto per brevità.
Dalle matematiche passò il Sarpi alle scienze fisiche ed astronomiche. Nel 1592 era stato chiamato professore a Padova, e vi restò fino al 1610, Galileo Galilei; che giovane di età, non contando allora più di 28 anni, di 12 minore di Frà Paolo, già era maturo per senno e annunciava di dover essere il più grande innovatore nella filosofia sperimentale. Fra questi due sommi ingegni si strinse una cordiale amicizia, sicchè il Galileo chiamava il frate, suo padre e maestro; e fatte comuni le sperienze e gli studi, si adoperarono d’accordo a disgomberare gli errori prodotti dal fanatismo de’ peripatetici. L’invenzione del termometro il Galileo la dovette per certo ai lumi somministratigli dal Sarpi, se pure questi non ne fu il primo inventore, come pensano alcuni; e sembra certo del pari che sussidiò in più altre sperienze il filosofo fiorentino, e che lo incoraggì a proseguire le sue osservazioni sul sistema copernicano, stimato a quei tempi eresia e dimostrato adesso da leggi fisiche e matematiche: prova che le decisioni dei teologi non sono sempre fondate sulla verità.
L’avido intelletto del Sarpi volle eziandio spaziare nella filosofia speculativa e dopo il 1591 si applicò intensamente a studiare Platone, Aristotele e le altre sêtte filosofiche antiche e moderne, non omessi gli Scolastici, e particolarmente i Nominali ed i Reali; e fece le analisi dei loro sistemi, le quali duole assaissimo al Morofio che non siano state pubblicate.
Appare (se non erro) da molte induzioni che in questa parte l’indole austera del Sarpi preferisse ad ogni altra la dottrina degli Stoici, massime in ciò che riguarda la Provvidenza nel governo del mondo. Il che coincide col sistema di Sant’Agostino che ristringendo il libero arbitrio e ammettendo una predestinazione viene a stabilire nelle azioni umane una specie di fatalismo. Che Frà Paolo fosse versatissimo nella filosofia stoica, ce lo fa sapere Frà Fulgenzio; che la praticasse, si vede da tutta la sua vita; e che fosse fatalista, ne abbiamo cenni in più luoghi delle sue opere. Egli mi è nondimeno impossibile dire quali fossero le sue idee sulla teologia naturale, la cosmogenesi, la materia, i mondi, gli spiriti, e se in ciò si conformasse agli stoici antichi, o al panteismo de’ filosofi italiani suoi contemporanei, ravvivato dai pensatori del predente secolo.
Di là passò alla metafisica e all’etica. Intorno alla prima aveva scritto un’operetta che denominò Arte del ben pensare, e da Frà Fulgenzio chiamata dal soggetto Del nascere delle opinioni e del cessare che fanno in noi, la quale essendo anch’ella smarrita, per farla conoscere al lettore ne trascriverò la dotta analisi fattane dal procuratore Marco Foscarini. È una citazione un po’ lunga, ma la nobiltà dell’argomento e l’eleganza dello stile saranno utili compensi.
«Il sistema dell’autore, dice il Foscarini, in genere è tale. Egli mostra come gli oggetti esterni operano sopra i nostri sensi, e distinguendo l’oggetto che move la sensazione dalla sensazione medesima, sostiene che gli odori, i sapori, i suoni ec. sono affezioni dell’anima, non proprietà del corpo: con che mette differenza fra le sensazioni e le qualità sensibili. Con questi primi materiali ricevuti dalla qualità sensitiva riposta nel corpo nervoso e ritenuti dalla memoria, la facoltà discorsiva o distintiva, o l’intelletto agente forma la serie di tutte le altre idee, astraendo, componendo o comparando ecc, e così le specie, i generi, gli assiomi o le massime generali, e le argomentazioni.
«Segue a dire che il senso non falla mai riferendo puramente la sensazione fatta in lui dall’oggetto sensibile; ma nascere gli errori dall’appoggiarsi a un senso solo, o dal non rettificare con gli altri al falso discorso nato dalla prima impressione. Siccome i sensi non riferiscono all’intelletto quel ch’è nell’oggetto sensibile, ma solo quel che appare; quindi possiamo sempre assicurarci per questa via d’ogni verità.
«Se dall’idea universale di un tale sistema si passi a considerarlo nelle sue parti, se ne incontrano molte degne di ammirazione: prima, il metodo ragionato e geometrico con cui si procede da cosa a cosa; quindi non poche scoperte che dopo di Frà Paolo parvero nuove. L’osservazione per esempio che sensazioni non sieno altrimenti negli oggetti, ma bensì nell’intelletto nostro, quantunque Platone l’abbia accennata, parve nuova nelle recenti filosofie; e il Sarpi lo dimostra nel principio con una serie di ragionamenti, che senza bisogno di ricorrere alla esperienza pienamente convince. Quindi volendo egli con Aristotele, che tutto ciò che abbiamo nell’intelletto venga dai sensi, mette in campo il principio della riflessione che fece tanto onore al Lock e che libera quel sistema da moltissime difficoltà, per altro insormontabili.
«In tal guisa dalle prime idee procedenti dai sensi egli forma col mezzo dell’intelletto agente o della virtù distintiva tutte le altre che servono al discorso, le quali dividendosi dall’autore inglese in semplici e composte, il nostro filosofo non ne lascia indietro veruna.
«Lo previene del pari nel definire la sostanza; posciachè la fa risultare dalla moltiplicità delle idee che vi si mostrano senza potervisi conoscere il fondamento che le sostiene, e in questo fondamento occulto dice consistere quello che noi chiamiamo sostanza. Addita altresì il modo con cui l’uomo forma dentro di sè i generi e le spezie, in che tanto il Lock si diffonde, massime nei primi capi del suo terzo libro del Saggio dell’Intelletto umano.
«Quello che dice degli assiomi da lui nominati, non si sa come, Ipolipsi (se pure non vi è errore nella scrittura), come anco delle prime verità e de’ sillogismi, pare l’originale sopra cui lo stesso Lock abbia copiato, sviluppandolo in più parole. Esamina attentamente le varie cagioni degli errori, i quali nascono dall’applicare l’oggetto alla sensazione non propria di esso, o da vizio particolare del sensorio, o dalla facoltà discorsiva, o da altre: e insegna altresì i rimedi da evitare cotesti errori, per quanto l’umana natura è capace.
«Uno si è l’uso replicato della facoltà discorsiva di quella de’ sensi: e qui egli nota che altri si guardi dall’associare le idee; mentre all’idea chiamata avviene spesso che se ne congiungano delle altre, per la sola cagione che fummo soliti di vederle congiunte, non perchè siavi tra di esse relazione di sorte. Scoperta acutissima fattasi anco dall’Inglese.
«L’altra maniera di correggere gli errori, dice Frà Paolo, è per dottrina d’altri. Perciò tocca i due modi di argomentare, la dimostrazione e la probabilità; e i varii gradi di essa, a cui va unita la fede.
«A questi due rimedi succedono quelli onde sfuggire gli errori che nascono, secondo il suo dire, dalle anticipate opinioni, o da mala disposizione di volontà: punto che viene trattato più lungamente degli altri.
«Insomma il nostro autore non suppone, ma diduce da vari principii il sistema aristotelico, e prevenne il Lock tanti anni prima con un metodo che oggidì ancora avrebbe la sua lode, e con una brevità che nulla toglie alla chiarezza.
«Chiude finalmente con pochi ma aggiustati cenni sopra le parole che è una delle parti più essenziali del libro di Lock, asserendo che quelle non significano le cose, ma soltanto le idee di chi parla. Intorno a che, sebbene egli non discenda a prove, noi teniamo che il Sarpi avesse compiuta anco questa parte dell’Opera la quale non apparisce per difetto del MS. Ci move a così credere l’avere osservato come fra i suoi pensieri filosofici, che sono in parte una metafisica slegata, se ne leggano moltissimi sopra l’articolo suddetto.
«L’autore denominò l’opera sua Arte di ben pensare; col qual titolo essendo uscito, non ha molti anni, un libretto francese che certamente non agguaglia il merito di queste poche pagine di Frà Paolo, fu esso non ostante trasportato in tutte le lingue, siccome quello in cui si giudicava contenersi una logica più regolata e meglio disposta di quante se n’erano vedute sin allora». Fin qui il Foscarini.
Intorno all’etica o scienza de’ costumi Frà Paolo, oltre a’ pensieri e massime di morale gettate senz’ordine, e qualche libretto ascetico, scrisse anco varii trattatelli: uno alla maniera di Plutarco che intitolò Medicina dell’anima, dove additava i mezzi di conseguire la vera tranquillità; altro sulla Ripugnanza dell’ateismo all’umana natura, e come quelli che non conoscono divinità vera per necessità bisogna che se ne fingano una falsa. Il qual libro non esistendo più, io non so come abbia trattato questo têma Frà Paolo; ma è certo che ad un filosofo apre un vasto campo di profonde riflessioni: e se si divida l’ateismo in teorico ed in pratico, si vedrà che il primo non ha mai esistito fuorchè nel capo sconvolto di qualche fanatico; ma il secondo ebbe voga in tutte le religioni, imperocchè il popolo, corrotto da dottori ignoranti ed avari, incapace ad inalzarsi verso la divinità vera, se ne fabbrica una imaginaria e per lo più materiale. In teoria ciò non è ateismo perchè suppone una divinità comechè grossolana; ma in pratica lo è, perchè quella divinità è contraria ai principii della ragione. È, se è lecito il termine, un ateismo religioso.
Come Beniamino Franklin, così il Sarpi, affine di sempre più perfezionarsi nell’esercizio della virtù, teneva registro de’ propri difetti a cui contrapponeva sentenze o proprie o di altrui che significavano a correggersi; e questo registro rivedeva ogni giorno notandovi ciò che aveva mutato in meglio o in peggio. E fu per questo difficile tirocinio fatto sul suo cuore che riuscì a dominare gl’impeti suoi ad acquistare quella prudenza ne’ consigli che lo fecero l’oracolo di un governo, pure famoso per assennatezza; e quella mite natura che lo rese caro e venerando a tutti che il conobbero; e quella provvida in uno e rassegnata filosofia che non l’abbandonò mai un istante nelle peripezíe della sua vita.
Ci tocca un vero dispiacere pensando ai capricci della fortuna e all’ignavia degli uomini per colpa di cui, disperse le dotte carte di Frà Paolo, riuscirono infruttifere tante sue valorose fatiche, in ciascuna delle quali si scorge la stampa di un genio originale, profondo, inventivo, che superiore a tutti i pregiudizi vuole penetrare l’intimo delle cose e dedurne a forza la verità; così che, come dice il Foscarini, trentanni spesi dal Sarpi nelle più sublimi speculazioni che possono intraprendersi da umano intelletto, si tengono come perduti alla storia della sua vita; e appena sappiamo per testimonio di Enrico Wotton e di Frà Fulgenzio, che nella botanica ebbe tanta cognizione come se non avesse fatto altro studio; che la mineralogia e tutte le parti della storia naturale furono da lui profondamente conosciute, siccome l’uso e le proprietà mediche de’ vegetabili e de’ minerali, le loro qualità specifiche, e l’utilità che poteva ritrarsene per beneficio delle arti e della vita.
Frà Paolo, in cui erano pari la modestia e il sapere, senza ambizione, senza desiderio di applausi, non ebbe mai la smania di prodursi al mondo; e tranne gli scritti che per comandamento del Governo pubblicò a stampa, nissun altro e’ ne fece stampare. Lodava il merito altrui, di cui era giusto estimatore, senza parlare di ciò che aveva fatto egli di uguale o di meglio. Nelle sue lettere encomia il Viète e il Gilbert, senza dire che aveva corretto gli errori del primo e preceduto nelle scoperte il secondo; loda il Galileo senza accennare la parte ch’egli ebbe alle fatiche di lui: e se talvolta parlava delle cose sue era con tanta diffidenza del proprio valore e con tanta peritanza, da parere un timido scolaro che si produce colla sua lezione innanzi a rigido maestro.
Pago della solinga sua cella, confidava i frutti de’ suoi studi solamente agli amici, e pareva che fosse uomo bisognoso d’istruzione, anzichè atto ad instruire. E fu appunto non per fasto letterario, ma per erudirsi nelle costituzioni de’ regni e nel dritto pubblico civile ed ecclesiastico delle nazioni che incominciò fino dal 1588, come il sappiamo da lui medesimo, a carteggiare con vari dotti giureconsulti e uomini di stato della Francia.
Questo regno era desolato da infelici discordieFonte/commento: ed. Basilea, 1847. Dopo che Calvino vi portò la sua riforma, vi portò anco la guerra civile, lunga, miserevole, piena di accidenti luttuosi, alimentata dal fanatismo de’ calvinisti e dalla intolleranza de’ cattolici, ma più di tutto rinfocolata da ambiziosi che facevano servire la religione ai loro fini politici. Per mezzo di quelle sanguinose liti si mescolarono eziandio calorosi contrasti intorno ai confini della potestà ecclesiastica. I più veementi cattolici rigirati dalle ambizioni dei preti e dai disegni della corte di Spagna volevano che fosse riconosciuta la piena potestà del pontefice e accettato in integro il concilio di Trento; altri che vedevano i pericoli di una così imprudente risoluzione miravano non solo a rifiutare i decreti del Tridentino, ma anco a ristringere viepiù l’influenza di Roma, ed allargare le libertà della Chiesa Gallicana e l’autorità del re e de’ parlamenti nelle materie benificiarie o d’interiore giurisdizione ecclesiastica. Delle quali cose ond’essere pienamente informato, Frà Paolo introdusse, e mantenne poi sempre, commercio di lettere con dotte persone di quel paese, colle quali fu messo in corrispondenza da Urault de Maisse ambasciatore di Francia a Venezia, uomo di molti lumi, d’indole benigna, e a Frà Paolo amicissimo. Pel suo mezzo fece amicizia con Giacomo Gillot consigliere del re e avvocato nel suo Parlamento. Carteggiava pure con Arnaldo Ferrier, già conosciuto da lui quando fu ambasciatore a Venezia; col celebre istorico e presidente de Thou e con altri cospicui. Su di che fu da alcuni suoi frati accusato di sospetta religione e di tendenza al calvinismo: aggiungendo che conversava anco con Ebrei. In Venezia, dove era tolleranza assoluta di tutte le religioni, concorrevano uomini diversi, dotti, commercianti, curiosi: molti de’ quali convenivano nella casa Secchini dove spesso andava Frà Paolo; e circa agli Ebrei è verosimile ch’egli avesse qualche amicizia o piuttosto conoscenza con dotti Rabbini, ragionando coi quali cercava erudirsi nella loro teologia e filosofia, e a farsi viepiù instrutto nelle lingue orientali.
Del resto queste accusazioni non fecero alcuno effetto per allora, essendo troppo nota la sua religione e la integrità de’ suoi costumi; e neppure da Roma gliene fu fatto rimprovero: essendo non peranco giunta la stagione che queste dicerie plebee, convertite in colpa di eresia, dovessero servire a pretesto di più occulta vendetta.
Tale suo carteggio, come pure gli studi nel diritto canonico, teologia, storia, erudizione critica ecclesiastica, erano da lui considerati come passatempi, avendo tutti i gusti, come egli diceva, nelle matematiche; nè si sarebbe mai avvisato che dovessero un giorno occuparlo tanto seriamente come fecero. Contuttociò vi era egli penetrato così addentro che pochi in Italia potevano andargli del paro, niuno sopravanzarlo.
Tutto assorto nelle cose erudite o scientifiche, aveva posto in non cale l’amena letteratura. La sua mente, poco immaginosa, tutta calcolo, non era fatta per la poesia; e quantunque si veda da’ suoi scritti che aveva letto i principali poeti greci e latini, sembra che il solo Omero lo abbia alquanto interessato non perchè fosse poeta, ma perchè
Primo pittor delle memorie antiche,
e storico dell’uomo in una società nascente. Dei poeti moderni, neppure degli italiani, non trovo che facesse qualche caso; eppure era vivo ancora a’ suoi tempi e salito in gran fama il Tasso, andavano per la bocca di tutti i versi dell’Ariosto, e Dante era tuttavia il poeta favorito de’ filosofi e dei teologi di quella età.
Era al contrario assiduo cogli storici: non ve ne era alcuno antico o moderno, eccellente o mediocre, ch’e’ non leggesse con molta attenzione; ma suoi cari modelli per la materia e per lo stile erano Tucidide, Senofonte, Polibio, Tito Livio e Tacito, e dallo studio di loro più che dai precetti de’ retori imparò le regole del bello, e quel gusto perfetto che si osserva nella sua Istoria del Concilio Tridentino.
Lo occupavano ancora le notizie letterarie, sempre inteso che fossero di scienze o di erudizione, e amava di tenersi informato di tutto che pubblicavano gli uomini più dotti del suo tempo. Gli leggeva, quando poteva procurarsegli, e, scrivendo ai suoi amici ne diceva il parer suo: e acuta era la sua critica e laconica. Per esempio parlando delle Vite degli uomini illustri di Plutarco tradotte in francese da Giacomo Amiot reca il seguente giudizio: «Io mi trattengo a leggere Plutarco di Jaces Amiot che mi pare più bello di Plutarco stesso, e mi dolgo che non sii tradotto talmente da un Italiano (Non era ancora l’elegante traduzione del Pompei): siamo in gran mancamento senza quel libro. L’altro giorno feci un poco di comparazione con l’italiano del Gandino e col latino che abbiamo, così lontani da questi come la notte dal giorno. Si vede bene che il tradur non è solo di chi sappia ambedue le lingue; ma di chi sii trasformato nell’ingegno dell’autore».
Trascurò lo studio della lingua volgare, forse perchè i Toscani ne avevano fatto un monopolio e imbarazzatala di minute pedanterie grammaticali piuttosto che assodatala a regole costanti e filosofiche. Ma dopo che si accinse alla sua Istoria del Concilio Tridentino, gli venne il pensiero di crearsi una lingua sua propria italiana sì, ma una nuova, originale e più robusta di quella usata dagli altri scrittori di storie: attingendo le regole e la purezza del discorso non dai grammatici, ma dagli scritti di Machiavelli, Guicciardini, Varchi e altri buoni scrittori del Cinquecento; e le voci non dal Vocabolario della Crusca, surto appunto a quei tempi a tiranneggiare gli scrittori, ma dalla lingua usuale d’Italia, che non è invero così elegante come la toscana ma ha più nerbo e significazione.